domenica 28 febbraio 2010

Commento alla puntata del 28/02/10 di "canzonenapoletana@rai.it"

Carissimi lettori, finalmente il programma "canzonenapoletana@rai.it" dedica un ciclo a Salvatore di Giacomo, sommo poeta napoletano.
Come sempre, purtroppo, si ascolteranno solo incisioni d'epoca, quindi preparatevi ai miei commenti lacunosi.
Il ciclo comincia con una bellissima canzone, risalente al 1884, quindi a quando il nostro poeta aveva appena ventiquattro anni, che ascoltiamo da Tito Schipa. L'interpretazione del tenore leccese, va detto, riesce, e per me è raro, a trasmettere tutto il romanticismo di cui è intrisa "Napulitanata", che, effettivamente, invece di essere un ritratto della città, come potrebbe far pensare il titolo, è una bellissima serenata. Il ritmo, e forse questa è l'unica pecca, è un po' troppo veloce.
Si continua con un'incisione, almeno risalente agli anni Trenta, che ci permette di ascoltare un grandissimo cantante lirico, Mario San Marco, che interpreta "Oj marenà", canzone quasi a valzer dove si parla dell'amore di marinaio, non nel senso di amore infedele, ma di amore coltivato dalla gente di mare. Il tema, come sanno i conoscitori, è caro a moltissimi scrittori, ma forse a Di Giacomo specialmente. Il brano è uno di quelli caratterizzati dall'alternanza di momenti minori con altri maggiori.
Continuando si arriva a questa "Era de maggio", che si ascolta, con molto piacere, da Fernando de Lucia, tenore dalla voce potente ma dal canto discreto. Interessanti le fioriture ed i gorgheggi prima del ritornello.
Stiamo ascoltando un altro brano scritto da Di Giacomo nel 1885, dal titolo "Carulì cu st'uocchie nire nire". E' una serenatella giocosa, come spesso in futuro se ne continueranno a produrre. Il brano è interpretato da F. Perulli (non si sa il nome per intero del cantante!), artista dalla bella voce, che riesce a dare una giusta interpretazione a questa canzoncina binaria ed allegra.
Ora abbiamo il piacere di ascoltare la versione di Gennaro Pasquariello, noto cantante d'inizio Novecento di cui qui si parla spesso, di "Marechiaro", uno dei tanti classici di Di Giacomo. la particolarità maggiore di questa versione è la mancanza dell'acuto su "ca ll'aria è doce", e la ripetizione di questo verso nella parte di solito affidata solamente agli strumenti.
Dello stesso anno è questa famosissima "Oilì, oilà", che abbiamo ascoltato da un grande posteggiatore chiamato Vincenzo Marmolini. L'interpretazione, veramente spumeggiante, ha delle punte di virtuosismo in corrispondenza del pezzo strumentale che divide le strofe, veramente carina!
la puntata si chiude con un brano che io sto ascoltando con una lacrima all'angolo degli occhi. Stiamo infatti ascoltando una bellissima versione di "Luna nova", che ascoltiamo da un'altra troupe di posteggiatori. Interessante la tecnica "popolare" sulla chitarra, che può ricordare da vicino alcuni tocchi delle tarantelle garganiche. La voce del posteggiatore, precisa e caratterizzata da un bellissimo falsetto, riesce veramente a dare l'espressione giusta a questa serenata alla città di Napoli.
Credo che si nota la particolare felicità con cui ho scritto questo commento, Di Giacomo è uno dei miei autori preferiti. Ovviamente sono anche felice per il fatto che, in fondo, non si sono dovuti sentire dischi esageratamente frusciati.

Riflessioni sull'ultima classifica FIMI.

Carissimi lettori, sono finalmente riuscita ad avere accesso ad una classifica "ufficiale" stilata dopo il festival di sanremo, ossia a quella della settimana dal 15 al 21 febbraio, quindi la commenterò per voi.
La prima posizione dimostra subito l'"effetto sanremo", perché vi troviamo Marco Mengoni, cantante che nella kermesse canora si è classificato terzo. Non emetto nessun grido di giubilo per questo piazzamento, infatti, nonostante l'obbiettiva particolarità del timbro di Mengoni (asessuato? che paura!), non lo trovo meritevole di tale posto. Oltretutto ritengo bruttissima la polemica scatenata da Morgan, mentore di Mengoni che proviene da "X factor", è semplicemente vergognosa. Questo è stato un Festival dove ci si è divertiti un po' troppo a fare accostamenti spesso forzati tra i nuovi brani e vecchie conoscenze della storia della musica leggera (forzato mi pare quello tra la giustamente odiata "Italia amore mio" e "Over the raimbow" tirato in ballo dalla brava Nina Zilli).
Il secondo ed il terzo posto sono appannaggio di due stranieri, quindi noi ci torniamo ad interessare del quarto, dove troviamo una giovane salentina dalla bella voce, la leccese Alessandra Amoroso. Devo ancora finire di convincermi sulla sua effettiva bravura, bisogna darle qualche anno per maturare ancora e trovare la sua strada, ma che è una buona cantante non le si può negare. Voglio augurarmi che la Sony, che la produce sotto etichetta Epic, non la tratti come un prodotto e le dia davvero un futuro "Senza nuvole". Magari si può dire che i primi due singoli estratti da questo suo disco, "Senza nuvole" ed "Estranei a partire da ieri", siano ritmicamente uguali, ma io, che mi sono stancata di "stranezze etnicheggianti" nella musica leggera, preferisco questi pezzi a brani esotici ed incomprensibili.
Al quinto posto troviamo il vincitore della sezione "Artisti" del Festival, il sardo Valerio Scanu. Si è gridato da più parti alla vergogna per questa sua vittoria, secondo me era peggio se avessero vinto Pupo, Emanuele Filiberto e Luca Canonici. Sinceramente anche io penso che forse non avrebbe dovuto vincere, ma forse i brani come il suo sono gli unici che possono essere metabolizzati dal pubblico televotante, a cui, forse è meglio ricordarlo, competeva il cinquanta per cento del potere nella scelta del vincitore. E' anche vero che il Codacons ha fatto ricorso contro il televoto e la sua effettiva manipolazione, ma sta di fatto che il brano di Scanu copre i gusti di una larga fascia di pubblico, che è quella che guarda prevalentemente questi programmi musical-televisivi. Come ho già detto a suo tempo, anche se il brano non è un capolavoro, ha anche delle qualità. Bisogna anche dire che io ne avrei abbastanza di chi pretende l'intellettualità dal Festival di Sanremo. Per quanto riguarda il giudizio sul cantante, poi, tentiamo di darlo non solo sulla base del Festival, aspettiamo di poter sentire qualche canzone in più.
Se devo parlare soggettivamente, avrei voluto vedere il nome di Malika Ayane un po' più in alto, ma la raffinatezza non è esattamente ben ripagata nel mercato discografico "poppettaro". La voce della cantante dal nome particolare, non me ne abbia, è sicuramente fuori dal comune, come particolare è il suomodo di comporre, quindi c'è sempre qualche problema. Comunque sono felice che lei testardamente continui, ancor più mi soddisfa il fatto che lei non abbia voluto cambiare sonorità o genere, dimostrando, più che attaccamento al successo come potrebbe pensare qualche malintenzionato, una grossa coerenza.
Dopo il settimo posto, che è appannaggio del Michelino mondiale (scusate ma veramente non se ne può più! non abbiamo assolutamente riservato questo trattamento ad alcuni grandi della nostra musica altrettanto scomparsi, una grandissima vergogna!), quando si torna a cantare in italiano si trovano i Sonhora, gruppo che tra l'altro scrive questa parola con un'"h" in mezzo. Si può dire che non li conosco e che non mi dicono niente, mi paiono il tipico gruppo rock che, però, per fare colpo su un pubblico sanremese, porta un pezzo melodico che non sa cantare, perché è costituito da gente musicalmente quantomeno discutibile.
Dopo due posti appannaggio di artisti stranieri, ci si ritrova con il "blasco" e la sua "combriccola", tramite il disco "Tracks 2", che però vediamo sprofondare di otto posizioni. A me Vasco Rossi non è mai piaciuto, eccezion fatta per alcune canzoni anni Settanta-Ottanta, che mi piacciono solo in versione originale. Lo trovo comunque uno di quegli artisti che, per diventare famoso, ha sfruttato alcune calamite come la facilità armonica dei pezzi e la falsa trasgressione di alcuni testi.
Andando avanti troviamo un altro celebre "sprofondato", infatti al dodicesimo posto ritroviamo il soulman Mario Biondi con il suo "If", disco prodotto dalla casa discografica di Renato Zero. Infatti, e lo si nota nella bellissima canzone che il siciliano esegue in duetto con "il re dei sorcini", tra i due è nata una stupenda amicizia (naturalmente il brano di cui si parla è la famosa "Non smetterei più, estratta da "Presente", ultimo cd di Renato Zero).
Quando si torna a cantare in italiano, troviamo un dato che non mi è molto chiaro. Al quattordicesimo posto, e già qui potrei obbiettare, troviamo l'album di Noemi "Sulla mia pelle". Sono felice perché è risalito molto grazie alla nuova edizione sanremese, ma non sufficientemente, perché un'artista dalla bravura simile dovrebbe stare molto ma molto più su. Infatti, il dato che non mi è chiaro, è come si faccia a non capire che Noemi, forse, è uno dei pochi artisti validi sfornati dai talent show, queste macchine infernali di confezionamento musicale. Non concordo sulle numerose voci che paragonano la cantante romana ad altre grandi voci d'Italia e del mondo, perché ognuno è insostituibile. Credo che con questo vizio, molto diffuso da noi che siamo secondi forse solo al Portogallo, i cantanti vengono ammazzati e non aiutati.
Al quindicesimo posto troviamo un disco che ci sta ammorbando da almeno quarantotto settimane, l'ultimo della rocker senese Gianna Nannini. L'unica canzone che mi piace in parte tra quelle che ho sentito, è "Salvami", duetto con Giorgia. Ciò che mi piace poco è l'amalgama delle voci, forse troppo diverse.
Al diciassettesimo posto, abbiamo saltato Michael Bublé, troviamo Gianluca Grignani, un cantante il cui primo disco, soprattutto i brani "Destinazione paradiso", Primo treno per Marte" e "La mia storia tra le dita", mi aveva fatto sperare bene. A partire più o meno da "La fabbrica di plastica", il cantautore, idolatrato tra gli altri da Lucio Dalla che gli ha fatto suonare la chitarra in una canzone di un suo recente disco, si è convertito ad un rock alla britannica, ma senza un centesimo della ricchezza di gruppi come il Coldplay. La voce di Grignani, oltretutto, è rauca ed insipida, quindi è veramente un personaggio nullo (mi pare di ricordare anche una storia di droga, non è solo Morgan come vedete!).
La prossima artista, anche se ha pubblicato un cd dal titolo "Heart", è di nostro interesse poiché è italiana. Ci riferiamo ad Elisa, la cui voce non si può ignorare, anche se dal punto di vista mio personale non è poi particolare. Mi sembra una voce leggera, un po' melliflua, ma comunque in grado di esprimersi bene. Si è vista di recente al Festival di Sanremo, e spero che abbia emozionato più di uno con la sua performance.
Al diciannovesimo posto troviamo ancora un altro italiano, forse l'interprete più coraggioso uscito in questi ultimi vent'anni. mi riferisco a Francesco Renga, a cui do del coraggioso per aver deciso di incidere un cd completamente accompagnato da un'orchestra classica, organico che richiede grande bravura interpretativa di per sé, oltretutto dedicato alle canzoni degli anni Sessanta, quasi mai scontate soprattutto se catalogabili nel genere "melodico".
Al ventesimo posto, e non se ne può più, troviamo ancora Tiziano Ferro ed il suo "Alla mia età", che dopo che è stato il disco più venduto del 2009, riesce ancora a vendere alla grande ora. Veramente non mi riesco a dare una ragione per questo fenomeno, all'infuori del battage pubblicitario di molte, troppe radio.
Oltretutto il nostro Ferro, come ho già avuto occasione di dichiarare in qualche altro articolo, è completamente stonato, basta vederlo in un qualsiasi programma televisivo dove si canti dal vivo (è sufficiente anche solo "Top of the pops"), e la vergogna comincia.
Andando avanti, svanito ormai l'effetto sanremese, ritroviamo i dischi che ci hanno tenuto compagnia prima del Festival, incluso questo "Laura live world tour", della romagnola Laura Pausini. E' un disco brutto, anche perché ormai la cantante ha perso tutta quella semplicità di cui sembrava provvista nel suo primo periodo. Trovo il percorso della Pausini compatibile con quello di qualcuno che sfrutta una cosa, poi, dopo averla sfruttata, la butta via seppur finge di continuarla ad usare.
Al ventitreesimo posto troviamo il grande Claudio Baglioni, che ci presenta il disco più pazzo ed inutile della sua vita. In questo caso non è in discussione la qualità dell'album in sé, che è grandissima ve lo posso assicurare, ma la filosofia che lo presiede. Trovo quantomeno discutibile voler rifare in studio i brani di un proprio vecchio disco, anche se per nascondere la furbatina lo si ricanta e addirittura lo si arricchisce facendolo diventare un'opera. E' proprio qui il problema: io sono ancora per le barriere tra generi (ho vecchi tabù, ma non me ne disferò per ora!), quindi le opere, se si vogliono chiamare tali, debbono avere nel loro cast cantanti con la voce impostata, non quindi alla Baglioni. Sono completamente discorde con neologismi come "Opera popolare" (i bellissimi lavori di Cocciante io li chiamo musical!) o "Opera rock" (anche questi li chiamo come sopra!).
Al ventiquattresimo posto, incredibile a dirsi, si fa risentire l'influsso sanremese, infatti si reperisce Irene Grandi, voce che non mi ha convinto mai. Credo infatti che, se si canta musica leggera, si debba puntare ad un italiano quasi privo d'accento, mentre gli accenti se li possono permettere coloro che fanno musica di confine, quella che può spaziare da suggestioni pop ad influenze etniche (si vedano molti cantautori!). La voce della Grandi, oltretutto non mi piace, come non condivido questo suo darsi le arie di grande cantante rock e jazz quando è semplicemente una cantante pop.
Al venticinquesimo posto, purtroppo, troviamo un disco di un cantante romano che, dopo qualche brano carino nei primi dischi, si è dato al pop di conio internazionale, ossia al genere che accontenta i fan ad oltranza e gli stranieri. Il cantante in questione, uno dei pochi che l'Italia esporta a livello massificato (quantomeno di lui si sa, di altri no!), è Eros Ramazzotti. Io non capisco che charme possa avere una voce così nasale senza altre sfumature, senza altri particolari. Non capisco oltretutto il perché di così tanto successo, non mi viene neanche di azzardare un motivo.
Dopo il caso mediatico della casalinga inglese convertita allo showbusiness, troviamo un caso mediatico nostrano altrettanto discutibile e patetico, quello di Morgan. Questo cantante, ormai inseparabile amico di qualsiasi tributo ai cantautori, è ritenuto bravo per il solo fatto che è in grado di eseguire brani di musica classica (per fare ciò basta aver studiato pianoforte al Conservatorio ed aver voluto proseguire gli studi, cosa che qualcuno ancora fa!). Sinceramente, oltretutto, io mi convinco che c'è qualche problema ogni volta che qualche musicista viene invitato a condurre programmi musicali, quella è la fine. Oltretutto, in un'edizione di "X factor" che seguii un po' più da vicino, lui ebbe giudizi a dir poco discutibili, soprattutto escluse una cover interessantissima di "Bocca di Rosa" di De Andrè con la giustificazione che l'autore ne sarebbe rimasto deluso, mentre lui ha avuto il coraggio di rifare per intero, senza arricchirlo se non di suoni inutili, l'album del genovese "Non al denaro, non all'amore né al cielo". Se questo è un cantante bravo, sinceramente non lo capisco.
Al ventottesimo posto torna Alessandra Amoroso, che già avevamo trovato con "Senza nuvole", con il suo disco precedente che non conosco, comunque voglio approfittare di questa nuova occasione per rifarle ancora i miei più sentiti complimenti e sottintendere le speranze che ho già espresso prima.
Al trentesimo posto troviamo Povia, con l'ultimo suo cd, che contiene due brani veramente brutti, quello sanremese da una parte, ma soprattutto quello con il coro dell'Antoniano di bologna. Posso capire che ormai il "canta-cameriere" abbia scelto i bambini come suo pubblico personale, ma c'è un limite a tutto. Per cantare, poi, ci vuole anche uno straccio di voce, e il signor Peppino mi pare che non l'ha.
Al trentunesimo posto si trova ancora una volta Marco Mengoni, questa volta con il suo precedente disco, la cui title track mi pare abbia lo stesso ritmo della canzone sanrmese (fantasia!).
Al trentaduesimo posto troviamo il padre dei "Neomelodici" napoletani, pentito di ciò che ha fatto, quindi convertitosi al pop etnico ed al teatro impegnato e di qualità. la canzone che ha presentato a Sanremo, brano che dà il titolo al cd presente, è a dir poco brutta, per lo meno secondo me non racconta il Sud Italia. Non credo infatti che basti dire che qualcosa non è solo come lo si dipinge comunemente affinché la gente possa sentire di trovare una terra ritratta in musica. Oltretutto mi sembra che il brano in questione sia un miscuglio di luoghi comuni, veramente una vergogna (altro che il riscatto del Sud!).
Eccoci all'ultimo cd di Enrico Ruggeri, di cui ancora non ho sentito niente all'infuori della bella canzone sanrmese. trovo questo piazzamento un po' troppo basso per la qualità della'rtista, ma spero di sapere ben presto che sale e va a gonfie vele. Mi dispiace quando si tende ad avere dei giudizi su artisti in piena e lucida attività, basati su esperienze che non sono in fondo preponderanti nella loro vita.
Come avete visto, dal trentaduesimo posto in qua, si è tornato a far sentire l'"effetto sanremo", infatti andando avanti troviamo la promettente Nina Zilli con le sue sonorità bacrackiane e retro. Sono curiosa che si senta altro in giro di questa cantante, io sinceramente non sono molto attratta dall'idea di passarmi due o tre ore in un negozio di dischi ad ascoltare musica in cuffia, quindi devo avere un po' di fortuna con la radio (missione impossibile!).
Al trentasettesimo posto, per fortuna qualcosa si salta, troviamo una delle superospiti del Festival di Sanremo, nella mitica serata di giovedì. Mi riferisco alla siciliana Carmen Consoli, la "cantantessa" d'Italia. Il suo ultimo disco, ancora una volta caratterizzato dall'intimità che la cantante ha scoperto a partire da "L'eccezione", si intitola "Elettra" ed è impreziosito da canzoni come la commoventissima "Mandaci una cartolina", ballata con un forte "tempero" brasiliano.
Subito dopo si ritrova il Gianluca nazionale (Grignani, naturalmente!), con un "Best of" in classifica da quattro settimane. E' veramente da furbi far uscire due dischi dello stesso cantante così ravvicinati?
Al prossimo artista, parafrasando la canzone con la quale ha vinto il Sanremo giovani di due anni fa, gli potremmo dire: "Pensa, prima di cantare pensa!". Mi riferisco, come avrete forse capito, a Fabrizio Moro, uno dei tanti "stonati" che sono diventati cantanti professionisti. basta! Non ne posso più di sentire questi cantanti che fanno queste canzoni qualunquiste che sembrano impegnate, sulle stesse tematiche da sempre, dalla mafia, alla guerra, all'attualità spicciola e non rielaborata.
Andando avanti voglio gridare un "Evviva!", in quanto si trova in classifica, al quarantesimo posto, l'ultimo favoloso disco di Fiorella Mannoia, segno che questa voce romana strega ancora molta gente e non solo la sottoscritta. Segno anche, forse, che non tutti i dischi di cover sono uguali, infatti un conto è la sensibilità di chi è sempre interprete, un conto sono le tentazioni semplicistiche di chi magari, da cantautore, fa un disco da interprete per prendersi una vacanzetta.
Al quarantaduesimo posto troviamo una raccolta dei Nomadi uscita da due settimane, ma per me non esiste, perché il gruppo ha smesso di esistere quando la splendida voce di Augusto ha taciuto per sempre. Le uniche raccolte che mi interessano, infatti ne possiedo qualcuna, sono quelle riguardanti il periodo 1963-1992, appunto quello della presenza nel gruppo del grande Daolio. Trovo discutibilissima la voglia che il gruppo ha di continuare ad usare questo nome, infrangendo secondo me la sacralità di una storia.
Subito dopo, ed è il caso di dire "Grande!!", troviamo l'ultimo cd di Renato Zero, che resiste, a quasi un anno dalll'uscita, in classifica, anche se non più tra i primi. E' un disco che vi consiglio caldamente, ma qui se ne è a suo tempo ampiamente parlato, quindi non approfondiamo.
Al quarantaquattresimo posto troviamo il secondo cd di Arisa, una brava cantante lucana che almeno ha effettiva bravura da vendere. La canzone che dà il titolo al cd, unica che sinora mi è arrivata alle orecchie, è molto carina, anche se preferisco la versione non pubblicata, quella con la Lino Patruno jazz band. Infatti ritengo insostituibile, come accompagnamento alla voce della cantante, un tappeto di strumenti acustici, ben suonati e soprattutto swinganti. Va riconosciuta alla cantante una grande caparbietà e coerenza.
E non sono per niente "buone vibrazioni" quelle che arrivano successivamente, infatti troviamo questo gruppo, il cui cantante è abbastanza tendente allo stonato, che sembra abbia preso gusto a fare testi che, pur di essere pseudo innovativi, sono caratterizzati da una stupidità monumentale. Oltretutto, credo di essermi già espressa in questi termini, mi stanca ogni progetto che scimmiotti qualcosa che provenga da territori che ci sono lontani culturalmente come l'Inghilterra o l'America.
Non ho mai amato Franco Battiato, eccezion fatta per quelle poche volte che è riuscito a fare canzoni non esageratamente filosofiche o stupide (Adoro "E ti vengo a cercare" ma basta!). Non amo oltretutto le canzoni politiche di chi dice che la musica "non si deve occupare di politica", e ritengo che sia una moda lanciare strali a Berlusconi ormai da ogni parte. Le due canzoni che si sono sentite per radio, oltretutto, hanno lo stesso identico ritmo ed un giro armonico similissimo (fantasia al massimo grado!).
Al quarantasettesimo posto torniamo a trovare un artista appena tornato dal Festival, ossia il romano Simone Cristicchi. Non mi posso esprimere sul cd perché non lo conosco, e sul brano sanremese mi sono già espressa nella giusta sede. Voglio solo dire che, per quanto il cantante abbia la coerenza di fare un percorso molto personale, sinceramente non mi convince, anche perché l'intonazione non è una delle sue virtù, ma io non posso farne a meno mai (anche nella musica popolare preferisco un intonato ad uno stonato!).
Subito dopo troviamo la prima cantante rivelataci da "X factor", l'ex commessa Giusy Ferreri. La cantante, come qualcuno saprà, si è cimentata con un cd di cover. Voglio riconoscerle che ha avuto il coraggio di portare al successo alcuni pezzi che forse in Italia non avevano avuto una giusta accoglienza (sto pensando soprattutto al "Como quieras que te quiera" di Marcela Morelo che diventa "Come pensi possa amarti"), ma ciò non toglie che la sua voce sia insipida e, soprattutto, sempre uguale a se stessa.
Quando ci stiamo per avvicinare alla metà della classifica, troviamo Irene Fornaciari, cantante che a me non è mai piaciuta, anche perché in Italia è raro che ami i figli d'arte (faccio una bella differenza tra noi e gli altri paesi, soprattutto il Portogallo!). La cantante forse ha anche una voce interessante, ma le canzoni sin ora sentite non mi sono entrate nel cuore.
La seconda metà della classifica è aperta da una sfilata di stranieri, che viene interrotta dal più grande autore di musica d'ambiente (in quelli che frequento io non ce la vorrei, ma sono gusti!), il pianista Giovanni Allevi. Mi è sempre stato difficile digerire, nonostante il mio suonare questo strumento, i dischi basati sul virtuosismo solistico, vedasi anche Kate Jarret (che non digerisco anche per altri motivi, ma qui non interessa!). Non amo nessuno di questi pianisti di nuova generazione, da Einaudi, a Pierannunzi, ad Allevi.
Dopo un'altra sfilata di stranieri, al sessantatreesimo posto troviamo il vincitore (indegno!) di Sanremo Giovani, il napoletano e "neomelodico" Tony Maiello. Non voglio tornare sulla canzone sanremese, voglio solo dire che ha una voce assolutamente nulla, insipida e comune.
Continuando troviamo la raccolta con live ed inediti "Secondo tempo", opera del cantante di correggio Luciano Ligabue. L'unica canzone che mi sento di salvare, insieme a "Buona notte all'Italia", impegnata quindi meno conosciuta, è "Il mio pensiero".
Non so cosa dire sull'artista che troviamo al sessantaseiesimo posto, ossia sul toscano Andrea Bocelli. Credo che l'unico suo problema sia quello di volersi sdoppiare tra musica leggera e lirica, senza capire che forse lui ha qualche valore solo come interprete di musica "lirico-leggera". Infatti, pur non essendo io né un'appassionata e tantomeno una cultrice d'Opera, riesco a rendermi conto della debolezza delle sue interpretazioni di arie o anche solo di canzoni classiche napoletane. L'unico disco della discografia di Andrea Bocelli a cui sono legata, perché l'ho posseduto per molto tempo, è "Romanza", disco che conteneva tra l'altro le bellissime "Con te partirò", presentata al Sanremo 1995, "Per amore", scritta da Mariella Nava, e "Vivo per lei" interpretata con Giorgia. In classifica troviamo un "The best of", formato che io di solito odio. E' raro infatti che queste raccolte, fatte solo per il mercato e pensate per chi non conosce gli artisti, mi riescano a soddisfare.
Al sessantasettesimo posto, e vergognatevi, troviamo il cd di Malika Ayane, una delle più grandi voci dell'ultima ondata, che forse paga solo il fatto di non fare canzoni da falò. Il timbro della cantante, di intonazione impeccabile anche se non puro, è profondo e penetrante. E' una voce rara!
La posizione numero settanta, andando avanti dopo un paio di stranieri, è occupata da Neffa, un cantante che, dopo la "svolta" fatta forse anche per motivi commerciali, riesce comunque a sfornare canzoni accettabili, comunque non troppo facili armonicamente. Per questo voglio gridargli un "bravo!", ma se curasse un po' l'intonazione non sarebbe del tutto male. Me lo ricordo ancora ad un tributo a De Andrè organizzato dalla Rai, mentre interpreta "Il testamento" stonandola completamente: vergogna!
Alla settantaduesima posizione troviamo il "bluesman de noantri", che ha fatto un brano abbastanza melodico intitolato "Piove", peccato che la chitarra non sappia andare oltre i giri di blues!
Continuando ritroviamo Elisa,questa volta con la raccolta con la quale ha festeggiato dieci anni dicarriera, che conteneva il bel brano "Eppure sentire (un senso di te)", bellissima ballata lenta, come ormai se ne sentono davvero poche.
Andando avanti, dopo aver saltato alcuni stranieri, troviamo Gianna Nannini con un "Giannabest", quindi con un disco veramente da scartare.
Al settantaseiesimo posto, continuando, ritroviamo laura Pausini, questa volta con il suo ultimo album di inediti, intitolato "Primavera in anticipo", disco dove ancora una volta la cantante sfrutta la nostra tendenza endemica al patetismo e alla tenerezza generalizzata.
Il settantottesimo posto mi rende profondamente felice, infatti tutt'ora campeggia in questa posizione il triplo di Fabrizio de Andrè "In direzione ostinata e contraria". Sono felice che queste due antologie continuino a mietere successo, per dimostrare a chi non ci crede che, anche e soprattutto andando "In direzione ostinata e contraria", si può essere ascoltati ed amati.
La settantina si chiude con un altro "The best of", quello della Lauretta nazionale su cui non vorrei tornare.
La decina degli Ottanta si apre con un disco che, nonostante il suo essere uscito ormai molto tempo fa, è riuscito a risalre diciannove posizioni, ossia con l'ultimo cd da studio di Vasco Rossi, intitolato "Il mondo che vorrei". Mi sono già espressa sul Vascolone nazionale, voglio solo dire che la sua morale da "uomo che ha capito" mi ha stancato da morire.
Anche la posizione successiva è appannaggio di un altro disco del rocker di Zocca ma passiamo ad altro.
C'è un ritorno in classifica al quanto strano, in quanto si assiste al rientro del primo album dei Negramaro, dal titolo "Mentre tutto scorre". Voglio segnalare solo due brani "Tre minuti" ed "Estate". La prima è bella perché è un racconto ben fatto dell'ansia di un innamorato che deve conquistare la propria fiamma, la seconda è un ritratto di un'amore estivo eseguito con pennellate molto poetiche (Da sentire è la versione di Fiorella Mannoia in "Ho imparato a sognare, di cui qui si è già parlato).
Andando avanti in questa decina, troviamo il live di Ligabue, che è molto interessante, soprattutto per rielaborazioni di brani come "L'amore conta", "Il mio pensiero" o Buona notte all'Italia", anche se ve ne sono di meno riuscite come "Non è tempo per noi".
Ed eccoci ad Ornella Vanoni ed al suo cd di cover, veramente poco riuscito. Mi pare, infatti, che la cantante milanese abbia scelto brani che non le si confanno, giusto per ammiccare al mercato.
Mi imbatto, all'ottantanovesimo posto, in un cd con dei riarrangiamenti dei brani di Modugno. La cosa mi fa alquanto paura poiché, a meno che tu non ti chiami Luis Bacalov, con i brani del brindisino ci si possono fare le peggio cose (e comunque è un gran rischio riarrangiare cose che già esistono e sono entrate nell'orecchio della gente in una data veste!). Mi va di approfittare di questa occasione per darvi solo un consiglio: riascoltatevi Domenico Modugno, possibilmente con gli arrangiamenti originali.
Andando avanti, a proposito di riarrangiamenti discutibili, troviamo uno dei due volumi del live di De Andrè con la PFM. Non ho voglia di parlare di questo cd, voglio solo ribadire che è quello che mi piace di meno di tutta la produzione di Faber, perché solo il cantautore si è abituato ad un ambiente a lui estraneo ed estraneante, che quasi mai si è piegato alle sue esigenze.
L'ultima decina, sempre a proposito di arrangiamenti discutibili, si apre con il cd in cui Cristiano De Andrè reinterpreta, male, le canzoni di suo padre. L'unica che è girata per radio, "Fiume Sand creak", oltre ad essere velocizzata fino allo spasimo, è interpretata senza alcun rispetto, solo con la voglia di personalizzare ciò che non si è creato.
Continuando troviamo il penultimo cd di Jovanotti (strano che non abbiamo trovato il nuovo, assurdo!), che ormai avrà venduto una quantità di copie allucinante. Sinceramente non riesco ad amare Jovanotti in nessun modo s'esprima, lo trovo nullo, lo trovo uno dei tanti che è impegnato perché fa figo, uno che non si sa esprimere ma lavora perché sa di vendere.
Rieccoci con Franco Battiato, di cui troviamo un disco intitolato "La cura". Devo dire che il brano che dà il titolo a questo cd è molto bello, ma solo interpretato da lui, non da Celentano!
Abbiamo trovato il "Secondo tempo" del "magico Liga", ed ora troviamo il primo. Giustamente le raccolte si trovano tutte!
Andando avanti troviamo il secondo cd dei Negramaro, ma siccome abbiamo già parlato del primo non ci si sofferma.
Al novantaseiesimo posto c'è il live di Raf, cantante che a me è sempre stato abbastanza indifferente, anche se ha saputo fare belle canzoni ad inizio di carriera, come quasi tutti. A me, praticamente, piace solo "Inevitabile follia", ed esclusivamente in versione originale. Non mi piace la tendenza che ha a rifare sempre le stesse canzoni stravolgendole.
La terzultima posizione è occupata dal doppio di Franco Battiato "Studio collection", ma sul cantante non ci si sofferma perché lo abbiamo già trovato.
In novantanovesima posizione, giusto per ribadire che di musica ci capite poco, ci avete messo Gigi Finizio, che è l'unico cantante moderno napoletano che mi piace. Ritrovate canzoni come "Musica e speranza" o "Lo specchio dei pensieri", così capite ciò che perdete!
Avete visto che mi dà gusto tirare un bel po' di "mazzate pesanti cu li soni e cu li canti", ma ogni tanto ci vuole!

sabato 27 febbraio 2010

Francesco Guccini a Perugia

Carissimi lettori, oggi sono particolarmente felice di aggiornare il mio blog, poiché, dopo sette mesi e una settimana di digiuno, ho visto un concerto.
Ieri sera, in un Palaevangelisti gremito, si è esibito Francesco Guccini. E' stato un concerto bellissimo, sia perché noi lo abbiamo accolto come sempre benissimo, sia perché lui stava in forma ed era dispostissimo ad interloquire con il pubblico.
All'inizio, come sempre, ha fatto un po' di "chiacchiere da osteria", anche se su argomenti per niente faceti. Non vorrei si interpretasse male l'espressione "chiacchiere da osteria", è l'unico modo che mi è venuto di definire questa maniera sorniona ma arrabbiata che ha Guccini di affrontare le tematiche d'attualità. Il pavanese, come lui stesso ammette nel libro "Un altro giorno è andato" (Giunti, 2001), ha sempre affrontato i concerti come delle serate da osteria, non a caso infatti si rifiuta di fare molti concerti. Dopo aver ironizzato sul recente Festival di Sanremo ed essersi soffermato sulla corruzione imperante, ha finalmente iniziato a cantare (non perché non mi piaccia la sua rabbia discreta, ma erano tre anni che non lo vedevo e fremevo da non poterne più!).
Come sempre, il concerto è iniziato con quella "Canzone per un'amica" (il cui primo titolo fu "In morte di S.F."), che il cantautore incise all'ultimo momento ed inserì nel suo primo lp quasi per caso. In questi ultimi anni, almeno dalla versione che apre "Anfiteatro live" (2005), il brano tende a perdere la sua anima di ballata per trovarne una un po' più tendente al rock. Sinceramente io resto legata alla versione di "Fra la Via Emilia e il West", che ho sempre trovato perfetta. A Perugia, sin da subito, si è avuto il piacere di ascoltare una voce ben intonata ed un gruppo di grandissimi musicisti, da Juan Carlos "Flaco" Biondini a Roberto Manuzzi, grandissimi suonatori rispettivamente di chitarra ed armonica. Altrettanto presto abbiamo avuto il piacere di sentire i controtempi particolarissimi, ottenuti annullando le pause presenti nella partitura, eseguiti dalla voce del pavanese, che ormai ama molto stendersi sulle parole, viste quasi come un tappeto senza frontiere.
La seconda canzone è stata una delle meno conosciute del repertorio del nostro, intitolata "Il tema" e pubblicata originariamente ne "L'isola non trovata" (1971), album che io non ho mai capito, forse per il suo troppo filosofare. Il brano, comunque, è stato eseguito come un jazz-vals, con leggere venature coltraniane. Hanno fatto capolino, durante tutto il concerto ma qui in particolare, alcune percussioni etniche che impreziosivano il semplice ritmo dato dalla perfetta batteria di Ellade Bandini. Si potevano riconoscere un tamburello basco, che spesso amava rullare, dei campanelli, un triangolo e varie percussioni sudamericane, quasi a rievocare le atmosfere di "world music" antelitteram di "Stanze di vita quotidiana". Purtroppo non vi posso parlare un granché dei testi, infatti il nostro palasport ha un audio a dir poco pessimo.
Si è continuato con un brano il cui ascolto mi ha causato un particolare piacere, la ballata, definita dallo stesso guccini "apocalittica", "Noi non ci saremo". L'arrangiamento, già presentato nel precedente tour del cantautore, è ispirato alla versione incisa dai Nomadi negli anni Sessanta. Le strofe, che noi tutti abbiamo cantato insieme a Guccini, erano però tutte quelle presenti in Folk Beat n. 1, primo disco che contenne la canzone. All'inizio di quasi tutte le strofe, il cantautore eseguiva interessantissimi controtempi da cantante di tango, che data la profondità a cui è arrivata la sua voce, gli si confanno molto.
Si è proseguito con un brano dove la rievocazione delle atmosfere di "Stanze di vita quotidiana", che come abbiamo detto ha caratterizzato tutto il concerto, si è fatta effettiva. Abbiamo infatti avuto il piacere di riascoltare "Canzone delle osterie di fuori porta", in una versione che da un lato presentava l'intimità del semplice accompagnamento da ballata folk di "Fra la via Emilia e il West", dall'altro la lentezza e la raffinatezza tipiche della versione del 1974. Se però da studio questo elemento dava fastidio perché non bilanciato da elementi moderni o cantautorali, qui fa piacere perché è solo un arricchimento, è solo una spezia che condisce e non opprime il sapore di base. Credo, e le considerazioni che Guccini fa durante tutto il libro "Un altro giorno è andato" me lo confermano, che l'ambiente ideale per il cantautore è quello della semplicità del gruppo pop, che si può arricchire o meno di altri elementi, secondo le singole esigenze del momento. La versione originale, così finisco la divagazione "stanzesca", accompagnata da delle tablas indiane che sostituiscono completamente la batteria, è un po' pesante ed innaturale.
Si è proseguito, ispirati sempre da questa nostalgia per il primissimo Guccini, con una versione di "Vedi cara" che ha acquistato venature di blues antico, pur mantenendo la sua inconfondibile struttura di ballata caratterizzata dal finger piking della chitarra classica, che spesso, in questo concerto, è stata sostituita dalle tastiere. Insuperabili, secondo me, sono le versioni contenute in "Due anni dopo" (in studio, 1970) e "Fra la Via Emilia e il West" (live, 1984).
Uno dei momenti più emozionanti della serata, anche se forse avrebbe suonato meglio in un teatro, è stato quello dedicato all'esecuzione di "Canzone quasi d'amore", uno dei brani che ha più cullato la mia infanzia, sia nella versione di Via Paolo Fabbri 43 (che possediamo in vinile), sia in quella live di "Fra la Via Emilia e il West", primo disco di Guccini da me posseduto. La versione di Perugia, ispirata a quella live appena citata, è stata impreziosita, oltreché dall'insostituibile assolo di "Flaco", anche dall'entrata in crescendo in ogni strofa, del basso, delle tastiere e del sassofono. Potrebbe ricordare, a chi avesse la fortuna di sentirla e conoscesse anche l'ultimo Claudio Lolli, l'ambientazione musicale di "Lovesongs", anche date le somiglianze che gli stili dei due cantautori stanno sempre di più trovando.
Sulla stessa atmosfera, anche se arricchita dal convenzionale gruppo ritmico, si è avuta una commovente "Incontro", riportata però alla velocità di "Radici", dalla cui versione, la prima mai incisa di questo brano, si riprende anche un interessantissimo passaggio sul "re quarta", eseguito da "Flaco" con sicurezza assoluta.
Un album del cantautore a cui io sono molto legata, risalente al 1993, è "Parnassius Guccinii". Il cantante, tratta da questo disco, ci ha offerto la dylaniana e bellissima "Farewell", brano con cui un uomo dice poeticamente "Addio" ad una donna. Il brano forse ha perso un po' della sua dolcezza, ma è sempre affascinantissimo. Peccato che Guccini si ostini a non fare "luna fortuna", chacarera argentina contenuta nello stesso cd, che insieme a "Canzone di notte n. 2", è la mia canzone preferita del suo repertorio.
Subito dopo, mi sono emozionata tantissimo, quando ho riascoltato, dopo anni di non frequentazione perché l'album che la contiene lo possiedo in cassetta, "Ti ricordi quei giorni". Il brano, che secondo quanto si dice in "Un altro giorno è andato" è stato scritto contemporaneamente alle primissime canzoni di Guccini degli anni Sessanta, è stato pubblicato solo in "Quasi come Dumas", disco live con il quale il cantautore ha voluto segnalare i vent'anni dalla pubblicazione di "Due anni dopo". La versione pubblicata non me la ricordo per niente, posso dire che a Perugia il brano è stato eseguito con una grandissima intimità, che ha permesso alla chitarra di "Flaco" di fare le sue inconfondibili evoluzioni classico-flamenche. Meraviglioso è stato anche il tappeto swing della batteria.
Subito dopo abbiamo avuto il piacere di sentire due inediti, il primo dei quali era dedicato alla Resistenza, fatto storico che ora è vittima di un grande revisionismo e di una grave relativizzazione. Il brano, la cui musica è di "Flaco", lo si può definire un terzinato con alcune sfumature tangheggianti. Il testo affronta, con grande poesia e realismo, la morte di un partigiano e la veglia fatta dai suoi compagni per ricordarlo "Su in collina". E' veramente emozionante.
Ancora più bello ed emozionante, se possibile, è "Il testamento del pagliaccio", brano che mischia suggestioni di tarantella con influenze swing, con una coda di brano circense. Il testo è una riflessione, secondo alcuni leggera ma comunque forte ed arrabbiata, su una serie di atteggiamenti ora molto in voga. Una piccola parte del pezzo di sassofono che divide le strofe mi ha ricordato la macchietta napoletana "Cupido questo ti fa" di Pisano-Cioffi. Purtroppo, e lo dico con vero dispiacere, questa coppia di canzoni nuove non prelude a niente di nuovo sul fronte discografico, anche se sarebbe ora perché aspettiamo da sei anni!
Subito dopo si è tornati al repertorio conosciuto, con una versione di "Don Chisciotte" che il nostro ha interpretato in duetto con "Flaco" nella parte di Sancho (il grande chitarrista è un ottimo cantante, per scoprirlo si può ascoltare "Poema al Che" da lui musicato e cantato in "Che guevara"). Ovviamente anche noi cantavamo, anche perché nei concerti di Guccini più si va avanti e più si fa effervescente l'atmosfera.
Subito dopo mi sono stupita di me stessa (scusate la parentesi personale!), perché sono riuscita a cantare "Eskimo" per intero. Il brano ha spesso trovato ritmiche oscillanti tra il jazz ed il rock, perdendo conseguentemente un po' della propria struttura di ballata, ma è sempre bellissimo. Anche qui, è abbastanza scontato se mi si conosce ma lo dico, la versione migliore è quella di "Fra la via Emilia e il West".
Direttamente da "D'amore, di morte e di altre sciocchezze", è poi arrivata "Cyrano", che ha fatto impazzire tutto il palasport ma soprattutto i miei amici, che non hanno resistito e se la sono cantata tutta asquarciagola. Effettivamente devo dire che è un brano liberatorio, io ho sempre amato il recitativo iniziale, quel messaggio fortissimo che, però, dato da una voce così profonda e calda come quella di Guccini, acquista un romanticismo strano che ti obbliga a ragionare su cosa ti si dice e non sul come. La versione, purtroppo accompagnata dalla chitarra elettrica che sostituisce la classica, forse perde un po', ma è stata sempre così quindi mi ci sono a malincuore abituata.
Uno dei momenti più commoventi, andando avanti nella scaletta, è senza dubbio la dilatatissima e ricchissima versione de "Il vecchio e il bambino". Qui, contrariamente a ciò che succede in "Fra la via Emilia e il West", Guccini non ha suonato, affidandosi all'accompagnamento della stupenda chitarra di "Flaco". In questa occasione, però, non sono solo le chitarre ad essere protagoniste, entra tutta l'orchestra, che contribuisce a togliere al brano quell'aura di valzer che gli avevano dato i Nomadi, che non permette di esprimersi alla teatralità che si deve mettere nel cantare Guccini. E' ormai sempre più difficile andargli dietro con il canto, il cantautore infatti è pervenuto ad una coscienza davvero invidiabile del fatto che le canzoni gli appartengano, che lo porta a viverle con moltissima libertà. Questo atteggiamento è da me salutato con favore, sino a quando non arriva a quegli eccessi che proibiscono in pieno il canto, quindi nel caso del pavanese è completamente approvato.
Si è avuta, poi, una canzone che Guccini considera forse "un po' banale sia dal punto di vista armonico che del testo", ma che le circostanze in cui viviamo ci obbligano sempre a cantare. Mi riferisco alla "Canzone del bambino nel vento", grazie all'Equipe 84 diventata famosa come "Auschwitz". L'arrangiamento, molto simile a quello di "Quasi come Dumas", se fa perdere al brano la semplicità della struttura terzinata, gli dona in cambio una grande solennità. Qui Guccini riprende la chitarra in mano, accompagnandosi come dovrebbe fare ogni vero cantautore (anche se Guccini non si riconosce in questa definizione).
Subito dopo è arrivata "Dio è morto", che un palasport completamente in delirio ha intonato insieme a Guccini. Il brano, cosiccome avevamo notato per "Eskimo" ed anticipandoci potremmo notare per "Un altro giorno è andato", sta acquistando una certa influenza rock che trovo esagerata. E' comunque sempre bello.
Ed eccoci appunto all'appena citata "Un altro giorno è andato", brano ripreso da quell'"Isola non trovata" che io non ho mai capito. Il brano mi piace, ma credo che l'unica versione buona che ne esiste è quella di "Fra la Via Emilia e il West".
Poteva mancare "La locomotiva"? Ovviamente no! Il concerto si è chiuso con questo brano, che Guccini scrisse in omaggio ai bellissimi canti anarchici di fine Ottocento, di cui effettivamente ricalca certi stilemi, per i quali fu anche accusato di essere un brano grondante di retorica. E' un peccato quando non si capiscono questi omaggi, quando essi sono fatti con arte e non con voglia di scopiazzare. Il brano a cui si ispira il classico gucciniano, sempre secondo quanto affermato dal cantautore pavanese nel già ampiamente citato "Un altro giorno è andato", è il bellissimo "Inno della rivolta" inciso negli anni Settanta dal Gruppo Zeta, per un lp dedicato dai Dischi del sole ai canti anarchici.
E' difficile raccontare i grandi concerti e le forti emozioni, quindi il mio consiglio è sempre quello di andarvi a vedere Guccini non appena passa dalle vostre parti!

venerdì 26 febbraio 2010

Commento agli album più venduti del 1968 secono www.hitparadeitalia.it.

Carissimi lettori, avrei voluto sbizzarrirmi nel commento di una classifica postsanremese, ma non avendola trovata mi accontenterò di fare una cosa più piacevole e più curiosa, anche se appunto diversa da quello che volevo fare inizialmente. Commenterò la classifica annuale degli album più venduti nel 1968, nelle posizioni che mi appassionano e coinvolgono emotivamente. Vi auguro buona lettura di quello che verrà fuori, dopo aver ringraziato coloro che fanno il sito http://www.hitparadeitalia.it/ per la loro maniacale precisione e grande scientificità.
E' il caso di iniziare con un nostalgico "Che tempi!", perché nelle due prime posizioni troviamo due lp di Fabrizio de Andrè, ma soprattutto perché i "discofili" e "discomani" italiani compravano prevalentissimamente musica nostrana.
Entrando nel vivo la prima posizione è occupata da "Tutti morimmo a stento", secondo album del cantautore, che io, lo dico da deandreiana impenitente, non ho mai amato, eccezion fatta per "La ballata degli impiccati", "Inverno" e "Girotondo". Non mi è mai andata molto a genio, ma non è un problema di De Andrè, è generale, la tendenza a fare della musica cantautorale, che oltre che dare messaggi dovrebbe sempre fare compagnia a chi la scolta, un qualcosa di "altro" da sé con roboanti arrangiamenti e strutture. Per gli stessi motivi, anche se sono album toccati da altri tipi di suggestioni, non riesco a digerire dischi come "Radici" o "Stanze di vita quotidiana" di Francesco Guccini.
Sono felicissima della seconda posizione, appannaggio del primo vinile di Fabrizio de Andrè, che poi è una raccolta di alcuni 45 giri usciti precedentemente. Il disco, intitolato "Volume 1" o "Tutto Fabrizio de Andrè" nell'edizione contenente il brano "Caro amore", è forse, insieme ad "Anime salve", il mio preferito in tutta la discografia del cantautore. Trovo insuperabili, per semplicità e bellezza, quasi tutte le canzoni, incluse le traduzioni da Brassens ed il "pastiche" medievaleggiante di "Carlo Martello".
Al terzo posto troviamo quella che, fino all'arrivo sulle scene di Fiorella Mannoia, che l'ha sicuramente superata negli anni come classe interpretativa e coscienza di repertorio, si poteva comodamente considerare la più grande interprete femminile italiana. Ovviamente ci si riferisce a Mina, che troviamo innanzitutto con questo "Mina alla Bussola dal vivo", primo live dei due incisi dalla cantante, entrambi registrati nel locale viareggino, oggetto anche di una canzone di contestazione, scritta negli stessi anni da Pino Masi ed il Canzoniere Pisano del Proletariato. L'album in questione, che non conosco approfonditamente, è comunque molto bello, specialmente quando tocca canzoni come "La voce del silenzio", uno dei tanti brani ignorati di quella, meritevolissima come molte delle edizioni storiche, edizione del Festival di Sanremo. La versione di Mina mette insieme una pronuncia schietta dell'italiano, con un'interpretazione che miscela benissimo tocchi jazz a una certa assonanza operistica, d'altronde queste sono due grossissime passioni, entrambe palesate di recente dalla cantante.
In quarta posizione ci si trova con Patty Pravo, un'artista a cui non sono legata, ma su cui voglio comunque spendere due parole. L'album trovato in classifica, che porta il nome d'arte della cantante come titolo, contiene almeno tre canzoni famose e degne di essere citate. Da un lato troviamo la melodicissima "Se perdo te", brano difficilissimo e corposo; dall'altro "La bambola", forse il maggior successo della cantante, insieme a "Ragazzo triste". Quest'ultima, lo si sente pure troppo, è una delle tante ispirate ad un certo folk americano che in quegli anni aveva contagiato un po' tutti. I tre brani citati sono abbastanza buoni, ciò che non mi piace di Patty Pravo è questa sua necessità di biascicare le parole, cosa che odio di principio (cambiando genere, dio sa quanto mi arrabbio quando sento i brani degli Officina Zoè e non capisco le parole!).
Quando torniamo a cantare in italiano, dopo la prima sosta durata appena il tempo d'un quinto posto, troviamo il cantante di Monghidoro Gianni Morandi, che come saprete tutti gode di una buona stima da parte mia. L'album che troviamo è "Gianni Quattro", scritto proprio così, con il numero tradotto a parole. E' un disco pieno di brani che, anche se non tutti entrati nella "grande storia della musica leggera", ne fanno sicuramente meritatamente parte. Lo spirito sessantottesco, è sicuramente incarnato da due canzoni emblematiche e bellissime: innanzitutto "C'era un ragazzo che come me amava i Beatles e i Rolling Stones", scritta dal cantautore umbro Mauro Lusini, e da "Un mondo d'amore". I due brani sono meravigliosi, del primo è stupenda, divagando, la versione di Joan Baez, interpretata anche durante Woodstok. Quello che mi ha sempre colpito di "Un mondo d'amore" è la semplicità del ritmo binario, molto italiano ed europeo, che prende nella parte minore e nel finale del brano. E' anche interessante l'accompagnamento ad accordi lunghi del resto della canzone, segno che all'epoca non si scriveva per accompagnare gente che non si poteva permettere di cantare con pochissimo sostegno musicale.
Andando avanti troviamo il "medicantautore" Enzo Jannacci, una colonna sonora fondamentale della mia infanzia perché mio zio ha molti suoi vinili. L'lp che troviamo non credo abbia fatto particolarmente parte della mia infanzia, anche se contiene alcuni brani che l'hanno fortemente segnata, come le insuperabili "Vengo anch'io", che dà il titolo al disco, ed "Ho visto un re". I due brani sono esempi lampanti di uso moderno e modernizzato, senza tradimenti, di schemi popolari. Se ragioniamo da un punto di vista propriamente e freddamente strutturale, infatti, i due brani sono filastrocche più o meno caratterizzate dall'ironia e dalla giocosità. Ho visto un re, poi, la si può considerare, e io ce la considero, una grandissima satira sul livello di rassegnazione della classe popolare e subalterna (scusate questo termine antiquato e ormai tabù!) alle proprie disgrazie. Musicalmente, per quanto riguarda "Vengo anch'io" trovo geniale il fischio che si alza ogni volta che si sale di un semitono.
In ottava posizione troviamo un album di una cantante che io amo molto, anche perché ha segnato in maniera incontrastata un vero ponte tra varie culture, mi riferisco a Dalida, cantante di origine italiana nata in Egitto ma diventata famosa a partire dalla Francia. L'album che troviamo, ancora segnato da numerose "cover", come tutta la sua produzione migliore, porta come titolo il suo breve ma evocativo nome d'arte. Contiene, ben mischiate, cover di brani inglesi ed italiani, incluso un tango all'italiana molto bello scritto e lanciato da Jimmy Fontana ed intitolato "Pensiamoci ogni sera". Bisogna riconoscere che la cantante, almeno fino a tutti gli anni Sessanta, ed anche in gran parte dei Settanta, ha avuto una coscienza incredibile delle effettive caratteristiche della sua voce, limpida ma segretamente sofferta.
Al nono posto ritroviamo Mina, con una raccolta di successi che spazia in tutte quelle che erano le direzioni che la cantante prendeva. Troviamo, infatti, oltre a numerose cover di brani di varia provenienza, anche riletture di brani ingiustamente ignorati in varie edizioni del Festival, che grazie alla cantante sono diventati classici indiscussi della migliore musica leggera nazionale. Nella tracklist del vinile, infatti, figurano brani come "E se domani", Festival di Sanremo 1964, "Se tu non fossi qui", Sanremo 1966. L'unica canzone che non mi convince quasi per niente, anche se ne riconosco la validità e dico un "brava!" a Mina per aver pensato di inciderla, è "La banda", brano frutto della traduzione italiana, abbastanza fedele in verità, della canzone di Chico Buarque "A banda". Ciò che non me la fa amare, è l'anima esageratamente sambistico-carnevalesca data al brano, che nella versione originale è invece un compromesso tra questi ritmi e la malinconia, quella che prende subito dopo la festa.
La prima decina si conclude con le "Hits" dello Zecchino d'oro, manifestazione che non ho mai approvato, perché mette in mostra dei bambini che cantano completamente allo sbaraglio. Fra le canzoni che figurano in questo lp, sono da ricordare almeno "Il torero Camomillo", "Quarantaquattro gatti" e "Il valzer del moscerino", che ha fatto iniziare la promettentissima carriera della cantante per bambini che più di ogni altra ha traumatizzato la mia infanzia, Cristina D'avena.
Quando si torna in Italia, dopo l'undicesimo posto affidato al grande gallese Tom Jones, si sente cantare Brassens in Milanese. L'lp in questione, inciso con un accompagnamento più ricco rispetto alle versioni originali del cantautore francese, è di Nanni Svampa, grande musicista e cabarettista milanese che, dopo la fine dell'avventura con i Gufi, si è dedicato anima e corpo alla traduzione del cantautore provenzale sia in vernacolo che in italiano. Va specificato, però, che questo lp è ancora del periodo in cui questa attività non era predominante nella vita di Svampa. Tutte le traduzioni vernacolari di Brassens operate da Svampa, si possono comodamente reperire in un doppio cd meraviglioso intitolato "Il canta Brassens", mentre quelle italiane, incise prevalentemente di recente, sono raccolte nel doppio, secondo me meno riuscito, "donne, gorilla, fantasmi e lillà". Continuando la divagazione, voglio ricordare che Nanni Svampa è stato artefice dell'unico spettacolo mai realizzato in Italia con tutti gli interpreti di Brassens nelle varie lingue europee. Lo spettacolo, realizzato a Milano e ripreso dalla rai per il decennale della morte del cantautore francese nel 1991, contava tra gli altri con Paco Ibáñez, musicista spagnolo che si è concesso le traduzioni di Brassens, edite poi nel 1980 in un intero vinile, come unica divagazione dalla sua missione di divulgatore della letteratura nella sua lingua.
Nel periodo storico a cui ci stiamo dedicando, fortunatamente non esisteva una sola compilation dedicata al Festival di Sanremo, ma ve ne erano varie differenti a seconda delle case discografiche che le producevano. Al tredicesimo posto, innanzitutto troviamo quella della CGD. La maggiore curiosità di queste compilation è data dal fatto che, laddove i brani portati al successo al Festival fossero stati cantati da cantanti che non militavano nella rispettiva casa discografica, questa ricorreva ad artisti del proprio catalogo per far loro incidere versioni dei brani. In questo caso, oltre a trovare ad esempio la versione di Roberto Carlos di "Canzone per te", completamente normale dato che il brasiliano aveva fatto effettivamente coppia con Endrigo a quel Festival vincendolo (che tempi!), ci si trova con una versione, che sarei sinceramente curiosa di sentire, di "Casa Bianca" da parte dei Camaleonti, o de "La tramontana" da parte dei Profeti. Mi viene già più facile immaginare Massimo Ranieri che canta "Canzone", anche se trovo talmente mirabile la versione di Don Backy che sarebbe difficile che io me ne innamorassi, nonostante la mia notevole passione per il periodo giovanile del napoletano.
Anche il quattordicesimo posto è appannaggio di una compilation dedicata al Festival di Sanremo, quella prodotta dalla Fonit Cetra. Vi ritroviamo la canzone vincitrice nella versione originale, quella di Endrigo, "Casa Bianca" la ritroviamo nella versione di Marisa Sannia, mentre di curiosità vi sono quantomeno la versione della cantante sarda di "Quando mi innamoro" o quella di Gianni Pettenati de "La tramontana.
Il quindicesimo posto è un'altra piccola vacanza dall'italianità, quindi non ce ne occupiamo. Quando si torna a cantare in italiano, o meglio a parlare di dischi frutto di programmi della Rai, troviamo questo sunto della "Hitparade", edito dalla Cgd. Non è un gran disco, non c'è un granché da segnalare, segnalerò solo "Ho difeso il mio amore", uno dei tanti brani frutto di "traduzioni adulterate", qui reperibile nella versione dei Profeti.
Subito dopo troviamo l'album dei Camaleonti, il cui titolo prende spunto dalla canzone "Io per lei", che non ha neanche lui un granché da segnalare. Troviamo solo due brani che amo moltissimo, che sono "Applausi" e "L'ora dell'amore", versione italiana di un noto brano di un altrettanto noto gruppo inglese, di cui non posso riportare il nome sennò sbaglio la scrittura (ho un po' fretta, ve lo dico in sincerità).
Andando avanti, bisogna arrivare al ventunesimo posto per riparlare in italiano, questa volta grazie ad Ornella Vanoni, cantante che a me, come ho già detto, non piace molto. Le uniche due canzoni da segnalare nell'album presente, per lo meno per quanto lo conosco io, sono "Tristezza", comunque abbastanza deludente, e "La musica è finita", capolavoro scritto da Franco Califano ed Umberto Bindi. L'album, mi ero dimenticata di dirlo, si intitola "Ornella Vanoni".
Ritroviamo, andando avanti, un'altra volta la "tigre di Cremona", con un lp di cover intitolato "Dedicato a mio padre". Non conosco nessun brano dell'lp, quindi non ne posso parlare.
Al ventitreesimo posto, ed è per questo che mi ci soffermo, troviamo il gruppo inglese di cui prima non ho riportato il nome, l'ottimo gruppo di rock progressivo e sinfonico Procol Harum, con l'album omonimo, che non contiene nessuna delle canzoni che i gruppi italiani portavano al successo in quello stesso anno, segno che erano già state pubblicate in lp precedenti.
Al venticinquesimo posto si reperisce una compilation di brani estivi, intitolata sintomaticamente "Musica d'estate" ed edita dalla VDP, che va segnalata per la presenza all'interno della sua tracklist, di un brano di Francesco Guccini che si ritroverà, in versione live, nell'lp del pavanese "Opera buffa" (1973). Il brano in questione è "Il bello", tango "all'italiana", tra le cose più simpatiche mai scritte dal cantautore. Se ne ricorda, anche, una versione da parte di Lando Buzzanca.
Così finisce questo percorso, perché l'ultimo lp presente è un disco strumentale, genere che allora aveva perfino spazio nelle classifiche, cosa che oggi avviene solo se ci si chiama Giovanni Allevi e si fa una delle musiche meno interessanti da me mai sentite.
Spero che vi sia piaciuta questa mia idea, ogni tanto un po' di storia non fa male.

martedì 23 febbraio 2010

Sulla moderna "poesia per musica.

Carissimi lettori, oggi voglio riflettere sul rapporto tra musica e poesia, che in Italia non c'è, a meno che non si vogliano considerare dei progetti un po' discutibili come quello che da settembre sarà distribuito nelle scuole medie di sei regioni italiane. E' un disco dove alcuni cantanti, inclusi alcuni di "X factor", dànno voce ad alcune di quelle poesie obbligatorie ed obbliganti da studiare a scuola. Durante il Tg 2 delle 13, che ha dedicato un servizio all'iniziativa, si è potuto sentire un pezzettino di "Meriggiare pallido e assorto", cantato da Mario Venuti, e "A Zacinto" cantata da Luisa Rossi, che dice sia stata una delle partecipanti di "X factor" (che non seguo!). I due brani ascoltati, quantomeno i due frammenti, erano molto simili, se non uguali. L'iniziativa forse è lodevole, ma a scuola si potrebbero anche far sentire quei pochi tentativi fatti in Italia, quantomeno il "S'i fosse foco" di Fabrizio de Andrè su testo di Cecco Angiolieri, o il "Ninna nanna nanna ninna", testo di Trilussa, poeta dialettale romano che in alcune antologie sta insieme ai migliori poeti contemporanei in lingua, musicato da Claudio Baglioni.
Molto meglio stanno, per quanto riguarda il rapporto con la poesia, i due paesi della penisola iberica. In Spagna, addirittura, c'è un grandissimo cantautore e chitarrista, chiamato Paco Ibáñez, che dal 1956, non fa altro che musicare tutti i principali poeti di lingua spagnola. Va detto, a quasi totale giustificazione della pigrizia degli autori italiani nell'approcciarsi alla poesia come materiale "per musica", che la nostra lingua, quantomeno il suo approccio più comunemente letterario, è difficile da vestire di note.
Il nostro paese, e qui siamo giganti!, ha dato grandissimi poeti vernacolari, che spesso sono vestiti di stupende note da musicisti di vario genere. Fuori da ogni graduatoria ci sono tutti i grandi napoletani nati tra il XIX ed il XX secolo, da Di Giacomo, a Murolo, ai De Curtis, ai Bovio.
Se questa si può definire poesia "semicolta" o colta, nelle altre regioni del Sud, specialmente in Puglia, sono notevoli poeti come Giuseppe de Dominicis, contemporaneo dei napoletani citati prima, di cui è stato musicato molto repertorio sia da gruppi maggiori che minori (Dalla "Ulia bessu" degli Officina Zoè del "Live in Japan" ai "Martiri d'Otranto" musicati dai Cantacunti).
Una poetessa contemporanea notevolissima, di cui solo gli Officina Zoè che io sappia si sono accorti musicalmente parlando, è la tavianese Daniela Liviello, della quale il gruppo, nel suo ultimo bellissimo cd intitolato "Maledetti guai", interpreta "Spattannu", il miglior brano di tutto il disco.
Naturalmente qui non si sta parlando della poesia scritta da cantori, come i meravigliosi versi del carpinese Antonio Maccarone, scomparso qualche mese fa, ma di poesia non nata per il canto, che però ci è stata più o meno felicemente portata.
In Italia, tra le isole, la Sicilia ha un poeta notevolissimo, che fu stimato dai maggiori intellettuali italiani, da Sciascia, a Quasimodo, a Pasolini, il palermitano Ignazio Buttitta. Il poeta "dalla voce di ferro", è stato una fonte inesauribile di repertorio per tutti i cantastorie, da Otello Profazio, a Rosa Balistreri, da Nonò Salamone a Mauro Geraci.
Come avete visto non ne ho approfittato per tirare "mazzate pesanti", ho solo voluto fare un piccolo confronto tra la situazione dell'Italia e quella della Spagna. Non ho parlato del Portogallo, perché lì, da quando nel 1945 Amália Rodrigues ha cantato dei versi colti su melodie di Fado, si è iniziato a cantare tutti i poeti possibili e non si è smesso più, quindi non avremmo mai finito!
on questo articolo, carissimi letttori, ho solo voluto darvi la possibilità di avvicinarvi in modo diverso a quest'arte che io amo tanto e si chiama poesia.

domenica 21 febbraio 2010

Commento alla puntata del 21/02/10 di "Canzonenapoletana@rai.it".

Carissimi lettori, dopo aver tirato un sospiro di sollievo causato dalla mancata vittoria di Pupo e compagni al Festival di Sanremo, torniamo alle cose che ci sono più consuete, ossia ai commenti napoletani domenicali.
Finalmente si parte, dopo aver ascoltato due chicche del sanremo storico. Si continua a parlare, come ricorderete, di Alessandro Cassese.
Si inizia un po' male, perché questa marcetta carina intitolata "'o sargento cannoniere", viene ascoltata da un vecchio disco frusciante con la voce di Pietro Mazzone.
E' un brano, come già ne avevamo trovati, dove un personaggio, credo femminile, dichiara il proprio amore per questo militare avvolto nella bandiera.
La musica è di Gaetano Lama, l'autore che nel 1917 musicherà quella "Reginella" che tutt'ora noi cantiamo con piacere. La melodia, pur avendo delle caratteristiche di marcia molto militaresca, ha un gran bel fascino. Il testo, purtroppo, è difficilissimo da capire, quindi non ve ne posso dire di più.
Sempre dallo stesso disco d'epoca di Mazzone, stiamo ascoltando questa "Carulì", marcetta molto più raffinata, paradossalmente, anche se non l'ha musicata un musicista noto, bensì uno sconosciuto Agostino Magliani. E' una lettera d'amore di un militare, che dice alla propria amata, una delle tante Caroline che popolano la canzone napoletana, che "è bbella e cara 'a Patria ma troppo aggi'à suffrì", ossia è bella e cara la patria ma mi fa troppo soffrire.
Siamo nel 1912 e Cassese scrive questa "Parto per Tripoli". Il cantante è Diego Giannini, che con la sua voce baritonale dà una grande imperiosità a questo saluto che il militare fa alla propria amata che piange. Il militare, va da sé, è allegro e convinto di tornare vincitore. Non è particolarmente bello questo brano, anche se ha delle "fioriture" interessanti soprattutto durante il ritornello.
Purtroppo verso la fine del brano il testo si fa incomprensibile.
Una delle poche composizioni di Cassese di ispirazione non militaresca, è questa carinissima "Sturnellata napulitana" che si ascolta dalla voce di Gennaro Pasquariello. Sono una serie di stornelli, tramite i quali l'uomo si lamenta dell'instabilità dell'amore della propria amata. L'interpretazione di Pasquariello, forse, è un po' teatrale, ma comunque è bella e dovrebbe portare a rivalutare questo tipo di repertorio.
Siamo nel 1914, ed arriva un altro esempio di brano dove un militare saluta la propria amata prima di partire per la guerra, che ormai era imminente. Il brano, intitolato "Turnarrà" ed interpretato da Luigi Marcarella, è semplicemente accompagnato da una chitarra ed un mandolino. E' molto bello e raffinato, d'altronde conta con le note del già oggi incontrato Gaetano Lama. La voce di Marcarella è potente ma discreta, molto bella.
Nel 1916, già con Cassese al fronte, Giuseppe Capolongo musica questi versi che ci vengono interpretati da Nina de Charny e sono intitolati "'O marenaro". E' un raffinatissimo brano in minore, con interessanti richiami arabi, collegabile ad una certa rielaborazione della stornellata da parte di musicisti non propriamente popolari.
Il testo, ovviamente, è incomprensibile, quindi non ve ne posso parlare.
La trasmissione ed il ciclo si chiudono con una "Lettera 'e surdato", brano interpretato da una sciantosa dell'epoc achiamata Teresa de Matienzo. Non si sa esattamente di quale anno sia, ma si può facilmente intuire che è di qualche periodo guerresco. E' una marcetta, musicata da Vincenzo Melina, che non disdegna raffinatezze incluse alternanze di accordi maggiori e minori. Il testo è abbastanza incomprensibile, quindi non ve ne posso parlare.
Mi auguro che il prossimo ciclo sia su qualche autore più recente, così se ne parla un po' meglio.

sabato 20 febbraio 2010

Commento alla quarta serata del Festival di Sanremo.

Carissimi lettori, ecco il promesso commento alla quarta serata del Festival di Sanremo. Ovviamente, e non poteva essere altrimenti, ci si occuperà dell'aspetto musicale, perché nonostante tutte le incursioni stupido-comiche che lo caratterizzano in qualche edizione, come adesso, questo è pur sempre il Festival della canzone italiana.
Si inizia con la canzone di Malica Ayane, una delle più buone cantanti uscite negli ultimi anni. Il brano, intitolato "Ricomincio da qui", ha una bella melodia, in maggiore, ma senza disdegnare alcune raffinatezze date da settime minori ed aumentate. La voce della Ayane è perfettamente intonata, con questo timbro così caratteristico, dolce ma tirannicamente potente. Mi ricorda vagamente una canzone di Fabio Concato, ma è giusto un'associazione portata da alcune caratteristiche della ritmica della batteria, che è compatibile con un certo jazz pop degli anni Sessanta.
Simone Cristicchi, cantautore interessato alla musica tradizionale che sfrutta per arricchire i propri orizzonti culturali, ha invitato un gruppo di voci "etniche" per infiorettare il suo brano. La canzone è iniziata con delle cadenze di saltarello, eseguito dai Minatori di Santa Fiora, località toscana dove è nato questo gruppo di grandi voci popolari.
Venendo propriamente alla canzone di Cristicchi, invece, è un rock molto forte, dedicato ad una serie di atteggiamenti tipicamente italiani, tutti votati all'evasione, infatti il ritornello, che potrebbe riecheggiare il bennatiano "Meno male che non c'è Nerone", è un "Meno male che c'è Carla Bruni".
Leggermente più veloce, continuando, arriva questa "La cometa di Halley", che è cantata da Irene Grandi e Marco Cocci. Le voci stasera sono intonate, forse l'emozione si inizia un po' a dissipare, o quantomeno smette di inficiare le prestazioni canore.
La canzone è d'amore, che per nascondere la banalità del tema, lo tratta in maniera pseudoinnovativa. Io salvo di questo brano solamente la musica, che è impregnata di interessanti suggestioni beateggianti, un po' anni Sessanta, anche se "tradotte" con il linguaggio dell'elettronica.
Ed ecco, accolti dall'"inno nomade" "Io vagabondo", arrivano i Nomadi, che interpretano, insieme ad Irene Fornaciari, ad un dj tedesco ed a Susy (che non si sa chi è!), una canzone intitolata "Il mondo piange".
E' una ballata un po' "abolerada", che non va ignorata, ma abbiamo sentito di meglio. Ed ecco un pezzo tradotto in inglese, dove si sente la voce di Susy, che non ha un timbro particolarmente interessante, tipica voce potente, ma niente di più.
Le due voci femminili, dopo essersi "fatte la guerra" per un pochino, si sono alternate per dare più spazio alla ripetizione della asfissiante domanda del testo: "Il mondo piange! Vorrei sapere perché!". Non mi piace!
Il Festival è provvisoriamente interrotto, e si assiste ad una "cavaqueira" abbastanza insopportabile. Il prossimo artista, altrettanto insopportabile che la chiacchierata informale che io ho chiamato con la parola portoghese "cavaqueira", vincitore dell'ultima edizione di "X-factor", talent show da cui si ritiene di estrapolare il futuro della canzone italiana (l'unica cantante davvero azzeccata è stata Noemi!) è Marco Mengoni. Il brano, scritto dallo stesso Mengoni ed interpretato insieme ai Solis string quartet, quartetto strumentale napoletano che sperimenta con successo l'uso degli strumenti classici suonati "classicamente" nella musica leggera e contemporanea, si chiama "Credimi ancora". E' un brano d'amore dove un uomo prega una donna di crederlo ancora, con un patetismo rispetto al quale rimpiango le vecchie canzoni "amore-cuore". la sua voce è senza basse, da donna, terribile.
E purtroppo arriva l'amore per l'Italia di Pupo, Emanuele Filiberto e Luca Canonici, "condito" dalla partecipazione delle Divas, soprani insopportabili, e dall'intervento, che la Clerici ha perfino tentato di troncare, di Marcello Lippi, che rappresenta l'Italia della nazionale e di una Coppa del mondo vinta ormai quattro anni fa.
La prima strofa l'ha fatta Pupo, sulle sue basse stonatissime, poi è arrivato il "principe" che dice che, siccome lui crede nella sua cultura e nella sua religione, ha tutto il diritto di stare qui. Ed ecco, dopo un intervento di Luca Canonici, tenore insipido, che nel tenere il re centrale, nota normale per chi ha questa voce, trema e quasi stona. Pupo, nella sua seconda apparizione, questa volta sulle "alte", ha citato questa mitica finale di Berlino con la quale Lippi ci ha regalato appunto questa bellissima Coppa del mondo.
E' una canzone vergognosa, cosiccome è vergognosa la non distinzione tra "grandi eventi" ed "emergenze" votata dal nostro caro premier a cui, sinceramente, alla maniera di Cinzia Marzo, dico un'altra volta "A mammata!".
In questa prima parte, va detto, l'unica veramente degna, è quella di Malica Ayane, bellissima, semplice, corposa ed innovativa, l'unica è "ricominciare da qui".
E' buona anche quella di Simone Cristicchi, che però, sinceramente, sperimenta una contaminazione che io trovo un po' forzata, quella tra rock britannico e musica popolare italiana allo Stato "Puro".
Siamo con J.Lo, Jennifer López, cantante nulla, questo lo posso dire senza paura di essere smentita.
La cantante sta cantando, in play back perché diversamente non può fare, un suo pezzo da discoteca ma in minore perché fa chic.
C'è un'intervista con la J.lo, mamma mia che noia, che patetismo, che vergogna, il Festival di Sanremo sembra un talk show, veramente brutto!
Ed eccoci a Valerio Scanu, con cui riprende la gara, dopo queste cose troppo intime, sentite con la López. Ed abbiamo anche il piacere di riascoltare la voce di Alessandra Amoroso, che riesce davvero a dare molto con questa melodia corposa. Le due voci sono moderne ma orgogliosamente melodiche, il testo, forse con qualche gioco di parole di troppo, ha comunque una semplicità che cattura.
Ecco la canzone di Arisa, intitolata "Ma l'amore no", che nella versione originale è un simpatico tempo binario. Stasera diventa un swing anni Trenta, che porta all'evidenziazione dell'esilarante comicità della cantante. L'interpretazione è acustica, gustosa, la sua voce non è magari perfettamente intonata, ma il brano è comunque gradevole. Il brano è stato interpretato con la Lino Patruno jazz band, che permette di vedere un grandissimo jazzista, già componente dei Gufi.
Ecco Enrico Ruggeri, che viene accolto con un pezzettino di "Mistero", che vinse il Sanremo 1993 (ripeto: che tempi!).
Il brano di Enrico Ruggeri, intitolato "La notte delle fate", è, almeno in questa occasione, caratterizzato da un ritmo binario un po' simile a "Primavera a Sarajevo", almeno per quanto riguarda la sua prima parte, anche se qui le atmosfere etniche sono sostituite da atmosfere più sinceramente rock. Interessante è l'inizio del ritornello, affidato ad un assolo della sporca ma perfetta voce di Ruggeri. Il testo del brano è un po' criptico, ma si parla sempre di questi personaggi femminili con cui, ormai lo si può ben dire, il cantautore milanese ha fatto pace.
E' un bel brano, che nel finale viene colto da suggestioni arabe, meticciato interessante perché fatto con rispetto.
Ecco un'altra artista che si è guadagnata sul campo la mia stima, Noemi, l'unica che quelli di "X-factor" sono riusciti ad "azzeccare".
Il brano, intitolato "Per tutta la vita", è stato scritto dagli stessi autori della meravigliosa "l'amore si odia", che la cantante ha interpretato insieme alla Mannoia, e forse in parte la ricorda.
Quello che stupisce sempre nella voce di Noemi è l'intonazione perfetta, nonostante che il timbro, non limpido e non puro, potrebbe volentieri portare a fare delle "stonature artistiche".
E' uno di quei brani sui problemi dell'amore, ma non su coppie scoppiate o riappacificate, bensì sui problemi che dà un amore in crisi o finito (il tema è sicuramente meno banale!).
Ecco Fabrizio Moro, che è tornato con un'altra canzone di lotta, che però interpreta insieme a Jarabe de palo, gruppo spagnolo di pop "desentendido". Il cantante, evviva, è completamente stonato, canta come se fosse un romano "borgataro" in un bar con qualche cricca (solo che siamo a Sanremo, e stiamo in diretta con tutto il mondo tramite almeno tre canali radiofonici oltre alla rai tv!).
Ed eccoci a Giuseppe Povia (oh!). Anche questa volta, come quando ci aveva comunicato che i bambini fanno "Oh", ci dà un messaggio veramente brutto, il brano è patetico. Marco Masini, il cantante scelto per il duetto, forse dimostra il livello di bruttezza a cui è arrivato il "canta-cameriere".
Si sta assistendo, ora, ad una esibizione raccapricciante di Jennifer López, che sta facendo un medley dei suoi vecchi successi, rigorosamente in playback, si sente lontano un miglio.
Comunque, questa interruzione della gara, ci permette di fare un commento generale su ciò che si è finora sentito: brani più o meno buoni, bellissimi quelli di Malica Ayane, Enrico Ruggeri e Noemi, accettabili quelli di Ariza e Simone Cristicchi, anche se trovo ingiusto l'utilizzo di un coro popolare in un contesto completamente diverso.
Non parlo, perché già l'ho fatto prima e nell'articolo precedente, della dichiarazione "ufficiale" del "principino".
Si arriva ai giovani, e si inizia con Jessica Brando, che porta un brano in minore, dalla ritmica particolare ma non pesante, intitolato "Dove non ci sono ore". E' un brano un po' "dark", ma armonicamente e melodicamente corposo. Anche il ritornello, che potrebbe ricordare un qualcosa di più "cantabile", non permette alla senaszione di entrarci nell'anima.
Ritmicamente, direi che la canzone è un terzinato lento, una "traduzione" in linguaggio moderno di certe atmosfere anni Sessanta.
La voce della Brando, potente ed equilibrata, è in grado di avere un'intonazione quasi impeccabile, quindi voglio augurarle di poter maturare e continuare a lavorare.
Siamo con il secondo giovane in gara, Tony Maiello con "Il linguaggio della resa".
E' un altro terzinato lento, ma molto più semplice e legato ad una certa melodicità italiana più cantautorale. Devo dire che non mi sta emozionadno particolarmente, ma non mi è neanche del tutto indifferente.
Purtroppo, problema di molte canzoni degli ultimi Festival anche se non particolarmente reperibile in questo, l'orchestra riesce ad insinuarsi male, infatti forse andrebbe abolita. Dovremmo infatti ricordarci, forse, che quando questa manifestazione è nata, nel lontano 1951 su idea del fioraio Amilcare Rambaldi, un'orchestra ben fornita era l'unico modo possibile di eeseguire la musica. Oggi, forse, basterebbe far esibire ognuno con il proprio gruppo, cosiccome avviene ad ottobre durante il Club Tenco.
Eccoci a quella che è la mia canzone preferita in assoluto di questo festival, la ballata, melodica e semplice ma con venature giampierettiane interessanti, intitolata "Tu non mi dài pace", interpretata da Luca Marino. Sono molto felice di essere qui per ascoltare un'interpretazione live che, anche se non impeccabile perché si perde sulle alte, specialmente sul soldiesis, è comunque bella e non artefatta. Sono talmente stanca di stranezze, che preferisco questi brani alla vecchia maniera, queste che rivalutano le chitarre, questa sonorità così antica e piena di storia, che l'elettronica aveva quasi mandato in pensione.
Ecco un'altra grande giovane scoperta tramite questo Festival, Nina Zilli che ci interpreta "l'uomo che amava le donne". E' un brano dalla struttura antica, d'altronde in tutte le sue interviste la cantante ha confessato la sua grande passione per la musica anni Sessanta ascoltata da vinile. Ed è questo mondo che si ritrova in questa canzone dalle venature bacarackiane e jazz, interpretata da una buona voce, anche se non d'intonazione perfetta, soprattutto nella prima parte del brano. Ormai, in questo finalino, sembra essersi sciolta.
Ora Antonella Clerici sta intervistando Cristiana Capotondi, attrice che sta interpretando una riproposizione di Sissi, ruolo che fu di Romy Snaider.
Ecco la sigla del Festival di Sanremo che, pur essendo il Festival della canzone italiana (dicasi FESTIVAL DELLA CANZONE ITALIANA!), ha una sigla in inglese, completamente orribile.
E' stato appena proclamato il vincitore della categoria "Nuova generazione", purtroppo è Tony Maiello, che con un brano insipidissimo e terzinato, veramente brutto, ha superato tutti. Veramente, non so perché, ma è tipicamente sanrmese dare delle vittorie ingiuste.
Il vincitore sta ora ricantando, stonandola completamente, la sua canzone. Il microfono ha pure fischiato, anche l'ambiente si ribella alle scelte della giuria!. E' un brano banale, che non meritava assolutamente di arrivare dove è arrivato, ma va bene!
Ed ecco il secondo ospite internazionale, i Tokyo Hotel, gruppo rock, che sta cantando rigorosamente in playback, è veramente una vergogna.
Secondo me, ormai, ci si dovrebbe convincere che il Festival dovrebbe essere una vetrina per l'italianità, dove gli stranieri dovrebbero solamente cantare nella nostra lingua, così potrebbe essere veramente l'ultimo rifugio d'Italiaa in una televisione completamente colonizzata. So che queste logiche sono completamente aliene alla televisione globalizzata, che toglie ogni distinzione, che fa sì che ogni programma sia rigorosamente uguale a qualsiasi altro, e dove non ci sono più distinzioni tra sservizio pubblico e canali privati.
Secondo me, invece, il Festival dovrebbe tornare ad essere uno spettacolo fatto in un teatro, che la televisione dovrebbe solo portare nelle case degli italiani.
Siamo al momento topico, si sa chi passa ed è eliminato tra i big. Incrociamo le dita, spero di potermi liberare da Pupo e i compari dell'amore all'Italia.
Purtroppo, mamma mia, la liberazione sperata non avviene, ci resta augurarci che non vinca!ovviamente, purtroppo, di conseguenza rimane fuori Enrico Ruggeri, che d'altronde ha fatto un brano troppo bello per questa orgia indecente.
Sono felice dell'altro escluso, Fabrizio Moro era indegno.
Carissimi lettori, non vi commenterò la finalissima, probabilmente domani, come cappellino al commento alla puntata di "Canzonenapoletana@rai.it", si tirerà qualche conclusione.
Quello che mi sento di dire è che, comunque, qualsiasi genere di musica è più ascoltabile della maggior parte di ciò che passa a Sanremo!

venerdì 19 febbraio 2010

Commento a parte della serata del 18 febbraio 2010 del Festival di Sanremo

Carissimi lettori, questa sera, 18 febbraio 2010, voglio scrivere il post più strano ed inaspettato che si possa trovare in questo blog, un commento alla terza serata del Festival di Sanremo, quella dedicata ai duetti e alla festa per i sessanta anni della manifestazione. (Dopo c'era anche la gara, ma era troppo tardi e non potevo restare!).
Ed eccoci ad Antonella Clerici che ci presenta questa serata particolare, tra passato e presente.
Io, come vi potrete immaginare, commenterò a caldo, senza pietà come sempre, ogni brano, ogni interpretazione, tutto ciò che riguarda il Festival. Mi dispiace che sia il calcio che le Olimpiadi non permetteranno un ascolto fluido.
L'inizio diciamo che non è dei migliori. Si parte con i cinque brani che si possono far "tornare in corsa", ed il primo è quello di Toto Cotugno, che come sapete mi piace poco e mi traumatizza tutte le volte che lo sento. Sta cantando una tipica ballata, un bolero cubano, insieme ad una cantante nulla come Belén Rodríguez, nota per aver presentato una versione un po' edulcorata di "Sarabanda".
I due cantanti fanno a gara a chi stona di più, una melodia che, in fondo, non è poi così indegna, anche se il testo, pur di essere innovativo, è veramente inenarrabile.
Ed eccoci qua alla famosa e contestata canzone di Pupo, Emanuele Filiberto e Luca Canonici. La mia contestazione è ovviamente piena, anche solo per il fatto che il "principino" è tra gli autori del brano, insieme al signor Ghinazzi, il quale sembra interessato, da due anni a questa parte, a sfogare la propria passione musicale con brani pieni di retorica. Questo brano, con belle orchestrazioni, non a caso sono opera del grande Renato Serio, è addirittura una difesa del "principino", il quale così ha palesato il proprio amore per un paese che ama solo a parole.
Ed ecco il primo brano di cui mi sento di poter parlare bene, una ballata melodica interpretata da Valerio Scanu insieme alla grande giovane Alessandra Amoroso. Non si può dire che i due cantanti, soprattutto lui, siano perfettamente intonati, ma quantomeno il brano è assolutamente sanremese, semplice e romantico. Il brano non pretende di dare messaggi politici, è una bella ballata.
Siamo ora con un gruppo giovane, chiamato Sonora, che presenta una ballata melodica che, però, viene introdotta da un tediosissimo assolo di chitarra elettrica distorta, di cui non si capisce l'utilità.
I cantanti cantano questa melodia, semplice ma buona, con un canto che si potrebbe compatibilizzare meglio con un rock duro, infatti oggi, anche se l'Italia non riesce a staccarsi dalla melodia, essa viene sentita come profondamente vecchia.
Il testo è inenarrabile, è una dichiarazione d'amore dove l'uomo, piantato dalla propria amata, le dichiara il suo continuo ed incondizionato amore.
Nino D'Angelo, dopo essersi "pentito" delle sue prime canzoni, semplicemente pop melodico, anzi "neomelodico", si è "convertito" al "pop etnico", che ha portato alla presenza di Ambrogio Sparagna, organettista che ormai si è dato alla musica pop, "travestita" da musica tradizionale. Il pezzo è veramente patetico, peccato che abbiano partecipato voci come Peppe Barra, Elena Ledda e Consiglia Licciardi. Dico "peccato" perché, sinceramente, queste voci vanno apprezzate in altri contesti, ed esperienze così non portano a niente di concreto, tantomeno ad una maggiore popolarità.
Subito dopo abbiamo il primo momento "storico" del Festival, con Elisa che, dopo aver interpretato la bella "Luce", che la fece vincere nel 2001, interpreta una bellissima versione di "Canzone per te". L'interpretazione è stata meravigliosa, rispettosa ma personale. Infine, la cantante sta interpretando un accenno della recente ma ormai famosa "Ti vorrei sollevare" seguita dal suo ultimo successo in italiano e da un suo pezzo in lingua inglese.
Il Festival riprende con uno dei momenti più belli, forse il più bello per ora, ossia con l'interpretazione, da parte di Fiorella Mannoia, del capolavoro di Giorgio Calabrese e Carlo Alberto Rossi "E se domani", uno dei brani "ignorati" del Sanremo 1964, che divenne un classico nella versione di Mina. L'arrangiamento del brano è più classico e meno jazzistico, prende quasi delle andature di "bolero", ma la batteria, con le sue sinuose spazzole, insinua la presenza della versione di Mina. L'interpretazione della Mannoia non si lascia andare a sentimentalismi e patetismi, è "confidenziale", profonda, raccolta, impeccabile.
Fiorella Mannoia continua la sua "ospitata" al Festival di Sanremo con "Estate" dei Negramaro", che è una delle canzoni contenute nel suo ultimo cd intitolato "Ho imparato a sognare", primo dedicato completamente alle canzoni non scritte per lei. L'interpretazione, forse, rispetto a quella presente nell'album, di cui qui si è già parlato, è un po' più tremula, ma sempre grande. Suona particolare sentire la Mannoia, padrona di una voce dalla potenza e limpidezza impari, utilizzare il "falsetto", che per lei è un po' innaturale.
Il secondo ospite è un cantante italo-spagnolo, quel Miguel Bosé che in Italia è conosciuto per canzoni come "Se tu non torni" o "bravi ragazzi". Il cantante sta interpretando "Non ho l'età", brano che vinse la mitica edizione del 1964.
L'interpretazione non è delle migliori, forse qui gioca anche una questione di cuore, nella mia famiglia c'è un forte legame con quella della Cinquetti, uno dei brani che ha rappresentato l'italianità durante i dieci anni d'emigrazione in Francia (1958-1968).
Miguel Bosé ora sta cantando un brano inclassificabile, con tanto di rumore di vinile campionato, intitolato "Por ti". E' una canzone dove un uomo dice ad una donna che farebbe qualsiasi cosa per lei, insomma le dichiara amore eterno. E' un brano che non mi convince, ma va bene, io Miguel bosé lo stimo molto di più come conduttore di un bellissimo programma, ormai dieci anni fa, sulla televisione spagnola, dal titolo "Séptimo de caballería". Questo programma, di cui sinceramente mi piacerebbe trovare delle puntate da rivedere, ospitava cantanti che cantavano dal vivo e si raccontavano.
Si continua con Edoardo Bennato, che interpreta la bellissima "Ciao amore ciao" di Luigi Tenco. L'interpretazione, forse, tra quelle sinora sentite, è la più deludente, perché la sento senza cuore e stonata. Comunque voglio dire un "bravo" a Bennato, per il coraggio dimostrato.
Stiamo assistendo ora ad un medley dei più grandi successi del partenopeo, ora sta accennando "Il rock di Capitano Uncino", mentre prima, a quanto si dice, ha interpretato "Un giorno credi". Ora stiamo ascoltando "E' lei", l'ultima canzone del napoletano, ballata rock dolce e bella. E' un brano politico, come può fare brani politici chi pensa che "tra Destra e Sinistra si deve solo scegliere il buon senso" e si sente addirittura "al di sopra delle parti".
Divagazione: ognuno di noi, in qualsiasi gesto compia, mette un po' di sé, una propria verità, quindi basta con le parole "obbiettività" ed espressioni "al disopra delle parti".
Ed eccoci a Massimo Ranieri, che ci offre un'interpretazione, che io purtroppo ascolto solo da metà, di "Io che non vivo". Il brano, lanciato nel 1965 ed interpretato da moltissimi interpreti anche internazionali, nella voce di Ranieri acquista una bellissima teatralità che gli si addice molto.
Massimo Ranieri, per continuare a farci impazzire, interpreta "Perdere l'amore", che vinse (che tempi!) il Sanremo 1988. Bisogna dire che nel "crescendo" che lo porta verso l'ottava centrale del pianoforte, il cantante inizia ad avere problemi. Il brano, comunque, a me fa venire i brividi, anche perché è stato uno dei primi che io ho sentito in quei Festival di Sanremo che ho visto da bambina (avevo cinque anni!).
Sono abbastanza pietosi, non ne avevo parlato e non volevo farlo, gli interventi del pubblico, ma anche questo chiede lo spettacolo televisivo.
Carmen Consoli, lanciata dal Festival di Sanremo 1996, sta ora interpretando una commoventissima "Mandaci una cartolina", brano molto tenero, ritratto di suo padre. E' un brano bellissimo, che, se possibile, con le sonorità acustiche dell'orchestra, diventa davvero un capolavoro. Voglio dire un "brava" a Carmen Consoli, perché è veramente difficile avere il coraggio di lasciare la strada del rock, sicuramente più commerciale, e tuffarsi nel mondo del più puro, ed ormai molto bisfrattato, cantautorato italiano.
Ed eccoci ad una bellissima interpretazione, che comincia a cappella e poi ha un leggero sostegno orchestrale, di quello che fu il primo brano sanremese della Consoli, la notevole "Amore di Plastica".
Carmen Consoli, compatibilmente con questa sua strada italiana, sta interpretando una versione di "Grazie dei fiori". In verità ci sono delle venature alla Mark Ribot, che però non mi dànno per niente fastidio.
E' salita ora sul palco dell'Ariston Nilla Pizzi, la quale, nonostante i suoi novantun anni, riesce ancora a cantare. La Pizzi ora ha accennato dei pezzettini di "Grazie dei fior" (recitato) e "Vola colomba".
Il Festival continua con Riccardo Cocciante, che torna a cantare dopo diverso tempo ritirato, perché preso dai suoi numerosi musical. Se devo dire la verità, questa "Nel blu dipinto di blu" è la versione più deludente, anche perché il cantante non si è nemmeno imparato bene il testo di questo capolavoro, ha fatto una serie di errori grossolani. Anche la ritmica, rallentata, non dà assolutamente l'idea del volo di Modugno, che era una sferzata d'energia.
Ora Riccardo Cocciante ci sta ricordando uno dei suoi capolavori, quella "Se stiamo insieme" che vinse (ancora una volta: che tempi!) il Sanremo 1991 (me lo ricordo!).
Ora sì che mi sto emozionando, per la grande semplicità e passionalità che sprigiona il brano. E' entrata l'orchestra, che sta facendo acquistare un respiro ancora più teatrale al canto di Cocciante, sempre così vissuto.
Ora stiamo ascoltando un brano tratto da "Giulietta e Romeo", ultimo musical di Cocciante, che girerà il mondo in lingua italiana. Si nota che sono melodie corpose, come lo erano quelle del bellissimo e meritatamente famoso "Notredame de Paris". Si può dire che Cocciante, e bisogna fargli i complimenti, è riuscito a creare un compromesso tra la melodicità italiana e la struttura del musical, che, d'altronde, è sorella della nostra opera ottocentesca.
Ed ecco un accenno di "Bella", tratta da "Notredame de Paris", che secondo me è una delle più belle canzoni mai scritte. L'atmosfera di questo musical fastosissimo, viene anche perpetuata da "Il tempo delle cattedrali".
Si continua con Francesco Renga, che interpreta, innanzitutto, "La voce del silenzio", uno dei brani più difficili del repertorio sanremese. Il cantante, comunque, bisogna dire che ha una voce potente ed è veramente intonato, cosa che oggi è sempre più rara.
L'orchestrazione è bellissima, per niente roboante, solo classica, infatti manca completamente ogni forma di riferimento ritmico leggero.
Ed eccoci all'omaggio, tardivo e meritato, che il Festival rende ad uno dei più grandi autori della musica italiana, il toscano Aldo Caponi in arte Don Backy. Questo omaggio non poteva essere fatto meglio, perché si sceglie "L'immensità", che per me è la più bella canzone italiana di tutti i tempi.
Ed ecco che Francesco Renga ci ricorda il brano che vinse il Sanremo 2005, quella "Angelo" che il cantautore ha dedicato ad una figlia che era appena nata.
La melodia del brano è molto corposa, quindi interpretata solo con un'orchestra classica, forse riesce a trovare la sua migliore veste.
Ed eccoci ad un altro momento emozionantissimo, Fiorella Mannoia ed Elisa che ricordano Mia Martini, con uno dei capolavori assoluti interpretati dalla calabrese "Almeno tu nell'universo".
La prima parte è stata affidata alla cantante romana, che l'ha porta con la sua "passionalità confidenziale". Il ritornello, invece, è appannaggio di Elisa, che lo canta in un modo che a me è sempre sembrato inadatto, perché esso è un grido d'amore, tra i più forti che ho mai sentito, mentre lei non ha quel sentimento.
Chiedo scusa per le lacune che potrete reperire in questo commento, ma non si poteva fare meglio date le circostanze. Vi prometto che anche stasera, serata dei duetti dei "big" ancora in gara, scriverò un personale commento.
P.s I ripescati di ieri: Valerio Scanu (Evviva!) e... Pupo e i compari dell'"Italia amore mio" (vergogna!).
Questa sera, quindi, forse dovrò risentire quel brano favoloso? Ditemi di no!.s.

giovedì 18 febbraio 2010

Riflessioni su "Dialetti d'Italia" (Warner music, 2010)

Carissimi lettori, è da tanto, troppo tempo che non scrivo un articolo veramente cattivo (poi non lo è tanto!), ogni tanto nei blog anche la cattiveria trova spazio (sono sempre triste quando gliene devo dare!).
La Warner music ha appena sfornato un doppio cd intitolato "Dialetti d'Italia", nel quale in maniera sommaria ed indecisa si ripercorre un indefinito repertorio "regionalistico" nazionale.
Voglio innanzitutto disquisire sul titolo: "Dialetti d'Italia". Avrei gradito, e probabilmente la gradirei davvero se uscisse, in vari volumi monografici e non raccolta in un unico disco, un'antologia di brani cantati nei vari dialetti italiani, ma qui, signori miei non si parla di questo, si parla di fare un "Giro d'Italia" tra brani dedicati a tutte le regioni, mischiando in un unico minestrone canti usciti da penne buone ma pittoresche e fantasiose come quella di Odoardo Spadaro o di Eldo di Lazzaro, con brani scaturiti dalla nostra più profonda tradizione, perfino con dei canti di lavoro. Sinceramente mi fa rabbia che si prendano le canzoni come ex libris turistici, anzi mi imbestialisce il concetto stesso di ex libris turistico.
Voglio comunque dare un'occhiata insieme a voi alla track list, che ho qui sotto mentre scrivo, per tirare un po' di "Mazzate pesanti", tanto sono sicura che capiterà.
La prima arriva subito: questo disco, che dovrebbe essere di omaggio ai dialetti, si apre con l'inno nazionale italiano, forse per far capire che anche questo cd "federalista" rispetta l'unità nazionale. Sinceramente, "Fratelli d'Italia", lo vedo meglio inserito in un discorso sui canti patriottici, anche se poi ho le mie idiosincrasie personali che me ne fanno amare molto di più altri.
Iniziando dalla Lombardia, partiamo con una delle più brutte canzoni che si possano dedicare ad una città, la "Madunina" che, anche se è diventata popolare, è comunque d'autore in quanto l'ha composta il grande maestro D'Anzi, autore tra le altre di "Ma le gambe" o "Bellezza in bicicletta", brani che negli anni Trenta hanno fatto sognare un'intera generazione. Il brano, e qui voglio gridare un "Evviva", è interpretato da uno dei più grandi interpreti di "jazz italiano" (come lo intendo io!), ossia dal milanesissimo Alberto Rabagliati.
Sinceramente mi ci vuole un po' per accostare ad una canzone così pittoresca, come comunque è "Madunina", una "Ma mì" scritta da Giorgio Streler. Comunque il brano è bello, anche se c'è sempre una puntina di razzismo antimeridionale, che ai lombardi piace molto (non me ne abbiano!). L'interpretazione che troviamo nel cd è di Ornella Vanoni, cantante che a me non piace, anche per le sue esagerazioni "bossanovistiche" con Toquinho e De Moraes. Vorrei consigliarvi di riscoprire la versione dei Gufi, gruppo musical-cabarettistico attivo tra il 1964 ed il 1969, composto da eccellentissimi artisti.
Arriviamo a "Crapa Pelada", brano che negli anni Quaranta fece muovere il piedino a più d'uno, grazie alla scintillante musica scritta da Gorni Cramer. Lo si ascolta, e mi fa piacere, dai grandi componenti del Quartetto Cetra, che ha perso l'anno scorso il grande Virgilio Savona. Meravigliosi sono gli impasti vocali e mirabili le risposte della swingante fisarmonica dell'autore.
Devo riconoscere che quantomeno si va per regioni, ma ciò non toglie che i passaggi bruschi da concezione a concezione musicale mi dànno fastidio. Dopo lo spumeggiante Quartetto Cetra, si arriva al buono duo di Piadena che interpreta il primo canto veramente tradizionale presente nella compilation, il piemontese "L'uva fogarina".
Il secondo brano piemontese, altro salto, lo si ascolta interpretato da una buona voce come quella della Cinquetti, che forse, però, non riesce poi a ritrarre atmosfere popolari con la vivezza dovuta (preferisco "Alle porte del sole" o "Quelli eran giorni", musica leggera di buonissima qualità!).
Il terzo brano, dedicato alla città della F.I.A.T., non lo posso commentare, né posso esprimermi sul suo interprete, quindi veramente "Ciao Torino".
Subito dopo si ricorda una buona voce piemontese, il cantautore e cabarettista Gipo Farassino, uno dei partecipanti al mitico girone "Folk" del cantagiro '69. Il brano che interpreta è "Montagne del me piemunt".
Si arriva, come è giusto che sia, ad un canto alpino eseguito da un tipico coro tra i più famosi, quello delle "Penne nere". Il canto in questione è "La pastorala".
Sempre dallo stesso coro, si ascolta "Quel mazzolin di fiori", uno di quei canti che "a cappella" ha il suo innegabile fascino.
Ispirati sempre da questa atmosfera alpina, ritroviamo Gigliola Cinquetti con "La valsugana".
Arrivando in Veneto, si è piacevolmente sorpresi dalla presenza di Licia Morosini, che interpreta, e non poteva essere altrimenti, "La biondina in gondoleta".
In veneto, anche qui immancabile in un disco che più che presentare il folklore regionale ribadisce gli stereotipi che rendono insana la vita di ogni regione, arriva "I goboni", altrimenti conosciuta come "La famiglia dei gobon".
Il brano successivo mi è completamente sconosciuto, quindi non se ne parla (non riesco neanche a trascrivervelo, scusate!).
Arrivando a Trieste ci troviamo davanti "La mula de Parenzo", bellissimo canto, che qui trova la voce di Lorenzo Pilat (non so se è il Pilade che conosco io...).
Si prosegue con un canto di mondine, il più noto fra tutti, quel "Sciur padrùn da li beli braghi bianchi" che io vi consiglierei di ascoltare nella meravigliosa versione della mondina-cantante esimia Giovanna Daffini. Nella raccolta, nelle cui presentazioni è spesso usato il termine "popolare", il brano è interpretato da Gigliola Cinquetti, sulla cui carriera e sulle mie preferenze non voglio tornare.
Arrivando in Romagna, si trova un brano in dialetto bolognese che disconosco, intitolato "La raza buloneisa".
La Romagna, e non poteva essere altrimenti, è rappresentata anche dall'Orchestra Spettacolo Raool Casadei, la quale interpreta un brano che, nonostante la sua grandissima notorietà quindi il suo essere "popolare" tra la gente, non è per niente tradizionale, in quanto composto da Secondo Casadei, fondatore dell'ensemble. Il brano, valzerino sicuramente coinvolgente, è un inno pittoresco alla "Romagna mia, Romagna in fiore", ma non so quanto rappresenta l'identità effettiva della regione.
Continuando, arrivando alle nostre amate Marche, si riscopre il Canzoniere internazionale, uno dei tanti attivi in Italia nel periodo del folk revival politicizzato. Sono felice perché credo che non si trovi in giro molto materiale ristampato, ma sono scettica...
Ora iniziamo ad avere qualche problema... Ci troviamo con un salto della regione Umbria che recupereremo più avanti, infatti si arriva in Abruzzo. L'unico pezzo in dialetto abruzzese presente, anche perché è l'unico veramente famoso, è "Vola vola vola", che ascoltiamo cantare ad un barese (il grande baritono Gino Latilla) ed alla recentemente scomparsa Carla Boni, di provenienza milanese (filologia: zero!). Ciò che smorza leggermente la mia critica a questa traccia, è il fatto che si riportano alla luce due grandissimi interpreti.
Sempre di tematica abruzzese, ma né tradizionale né tantomeno scritto da un abruzzese, arriva questo bellissimo e inossidabile "Reginella campagnola", nato dalla fantasia di quell'Eldo di Lazzaro che ha lodato con parsimonia molte ragazze d'Italia ("La romanina", "Piemontesina", "Rosa bella del Molise"). La canzone in questione la scoltiamo dalla voce del "reuccio", ma io, nonostante la mia grande passione per Claudio Villa, soprattutto per quello delle origini, mi sento di consigliarvi l'ascolto della versione del toscano Carlo Buti.
"E vola vola si sa... sarà perché ti amo". La Liguria mancava all'excursus settentrionale, ma la ragione è molto semplice. Il cd contiene due versioni di uno dei più bei brani della musica d'autore in lingua genovese, "Ma se ghè penso". La prima, però, è cantata dai Ricchi e Poveri, i quali, dopo essere nati come gruppo di "trallalleri" genovesi, si sono dati al pop più commerciale, appunto la "Sarà perché ti amo" citata ad introduzione.
Il dialetto genovese ha spesso ispirato meticciati con il portoghese, con cui effettivamente ha delle somiglianze, così ecco questa sambettina anni Sessanta del grande Bruno Lauzi, che però forse stempera esageratamente il clima che comunque il brano precedente riesce a creare con la sua profonda "saudade".
Oggi sembra che se nelle compilation non si mette una "bonus track", non ci si trovi davanti ad un bel raccoltone. Il brano che chiude il cd, concepito come traccia "speciale" perché recitato, è "Ma se ghè penso" dalla voce di Gilberto Govi.
Il secondo cd inizia con il Lazio, anzi con la capitale d'Italia, e la prima traccia a lei dedicata, effettivamente in dialetto ma popolare solo perché famosa(infatti è di Garinei e Giovannini e tratta da Rugantino) è "Roma nun fa la stupida stasera". Nonostante la mia passione per il "Reuccio", già qui ampiamente confessata, lasciatemi dire che non concordo con questa scelta, perché così si è escluso un artista, che credo potesse essere contemplato dato che ha inciso questo brano prima degli anni Ottanta, come Lando Fiorini. La versione di Villa, che conosco e possiedo, non mi convince molto, perché è un po' troppo urlata.
Negli anni Settanta, nell'ambito del già ricordato folk revival, anche la canzone romana ebbe nuova linfa con brani come "Lella" (Edoardo de Angelis e Schola cantorum) o "Semo gente de borgata", scritto ed interpretato da Franco Califano. Sono felice della sua presenza in questa compilation, perché se non altro è uno dei pochi romani veri che ha cantato la città.
Capisco che ci sarebbe qualche problema di filologia se facessimo cantare "Tanto pe' cantà" a Nino Manfredi (ovviamente sono ironica!). Il direttore artistico di questa antologia ha scelto di pubblicare la versione di Claudio Villa, che nelle prime quattro tracce del disco ne interpreta due (è un grande ma basta!).
Evviva! Non si sono scordati i signori della Warner music dell'esistenza di Renato Rascel, voce vellutata della città di Roma, "piccoletto" ma grandissimo interprete. Il cantante ed attore ci interpreta un brano da lui scritto insieme a Garinei e Giovannini intitolato "Arrivederci Roma", bellissimo e tenero ritratto della capitale vista con gli occhi di un'"inglesina".
Geograficamente siamo un po' sballati, perché solamente adesso troviamo la Toscana, che, innanzitutto, è giustamente rappresentata da uno dei più toccanti brani mai scritti da Odoardo Spadaro, grande chansonnier fiorentino della prima metà del Novecento.
Il brano è sull'emigrazione e forse tengono il confronto con la sua tenerezza solo alcuni brani napoletani, molto più patetici e teatrali, sempre basati sul racconto di una profonda nostalgia della propria terra.
Per quegli sbalzi ggeografici di cui sopra, che d'altronde erano completamente normali negli anni Quaranta, il secondo brano dedicato alla toscana, o meglio alla città di Firenze, è "Mattinata fiorentina" interpretata dal milanese Alberto Rabagliati. Il brano è molto bello, il suo "E' primavera, svegliatevi bambine" mette sempre allegria, ma io ne avrei approfittato per fare un omaggio al grande Narciso Parigi, altro ottimo interprete e stornellatore toscano autentico.
La parte toscana si chiude come si era aperta, con un altro grande classico del repertorio dello "spadaccino" (Odoardo Spadaro), che interpreta "Sulla carrozzella", swing travolgente basato sull'imitazione dei tempi di una camminata di cavallo che "tanto non c'è fretta".
Finalmente si arriva alla mia regione, rappresentata da un'"Uccellin del prato" interpretato dai Cantori di Assisi. Conosco bene il canto in questione, ma non so se sia giusto prenderlo ad esempio dei canti umbri. Per avere un'idea sui canti della zona del perugino, anche se non filologicamente corretta, si può ricorrere all'album di Franco Radicchia "C'eri na volta". E' vero che il modo di cantare è un po' troppo da coro da chiesa, ma è buono. Per chi fosse invece interessato ad una "riproposta" filologica del repertorio umbro, vi consiglirei di cercare i due lp della Brigata pretolana, che si accompagnava con cucchiai, coperchi e padelle. Infine, chi è interessato ad una "riproposta" moderna, spesso anche troppo "ripulita", anche se non disdegna alcuni momenti di filologismo altrettanto esagerato, consiglio il lavoro dei Sonidumbra.
Arrivando in Sardegna, come si è visto non sempre si segue l'ordine geografico di venuta delle regioni, si ascolta una "No potho reposare", eseguita da un interprete a me sconosciuto. Vi consiglio, da sua fanatica impenitente, la versione di Maria Carta, per me la migliore interprete sarda in assoluto.
Si prosegue con "Zitta mugliera me'", brano interpretato dal Nuovo Canzoniere Molisano, ma io non ve ne posso dire niente, come della successiva "lu squartare".
Arrivando in Calabria lasciatemi gridare un "Evviva!". La regione infatti è rappresentata da quello che tutt'ora, da cinquant'anni a questa parte, ne è il più grande ambasciatore il chitarrista, cantante e ricercatore Otello Profazio. Il suo momento è costituito da una tarantella calabrese, inverità abbastanza fiacca, intitolata "E ballati e ballati" e da una meravigliosa "Calabrisella". Su quest'ultimo brano, secondo testimonianze dello stesso Profazio nel libro "Otello Profazio" edito dalla Squilibri di Roma nel 2007, si può dire che è un brano di studenti universitari, raccolto ed inciso dal cosentino proprio in quel suo particolare periodo.
Arrivano ora due belle spine nel fianco di questa antologia, la Puglia e la Sicilia. Per la prima regione, si è deciso di ignorare tutto ciò che è Salento leccese, ma questa può essere anche una lacuna giustificabile, pensando che negli Anni Settanta non si è prodotto materiale sufficientemente "digeribile" dentro simili operazioni. Quello che non giustifico, anche per la presenza di brani settentrionali credo sconosciuti ai più, è l'assenza del grande garganico Matteo Salvatore, di cui almeno si sarebbe potuta mettere "Lu sovrastante", che partecipò al "Cantagiro". La regione è qui rappresentata da Tony Sant'Agata, che presenta uno dei più conosciuti canti tradizionali intitolato "Quant'è bello lu primm'ammore" e Domenico Modugno, di cui è presente "Notte chiara", brano che non conosco.
In Sicilia, e non poteva essere altrimenti, si è andati a prendere "Vitti 'na crozza" e "Ciuri ciuri" nell'interpretazione di Franco Licausi (che non conosco). Non posso giudicare i singoli brani, voglio dire che trovo quantomeno ingiusta l'assenza della grandissima Rosa Balistreri, la quale negli anni Settanta godette di una certa popolarità, che la portò a tentare di partecipare ad un Sanremo (cosa che non riuscì perché si scoprì che la canzone era già stata edita) e a prendere parte alla Canzonissima 1974.
Si conclude, come forse è giusto che sia, con la Campania, la cui rappresentazione inizia con una bellissima canzone napoletana intitolata "Malafemmena" ed interpretata da Giacomo Rondinella, che ne fu effettivamente il primo traghettatore verso il successo (complimenti!).
In rappresentanza del repertorio comico, si trova questa "Dove sta zazzà", che si ascolta dalla voce di quello che ne fu uno dei più convincenti esecutori, il grande "cantattore" Nino Taranto.
Si continua, e non poteva essere altrimenti, con "'O sole mio", brano che ascoltiamo nella versione di Massimo Ranieri, che io ritengo poco convincente. Io consiglio, a chiunque voglia sentire una versione pronunciata correttamente e ben cantata, quella del grande ma dimenticato tenore napoletano Tullio Pane.
Sempre dalla voce di Massimo Ranieri, subito dopo si ascolta "'O surdato 'nnammurato", di cui il nostro ci ha dato una versione unica nel suo primo album dal vivo dedicato alle canzoni napoletane (1972).
Il cd si chiude con una "bonus track", ossia con la più bella poesia scritta da Antonio de Curtis (Totò) e da lui recitata, la difficilissima e profonda "'A livella".
Non so cosa dirvi su questo disco, ci sono delle cose che non solo apprezzo ma approvo ed applaudo, altre così così, altre discutibilissime. Fate voi, io vi ho solo voluti avvisare della sua uscita.