venerdì 28 agosto 2009

Arrivederci Virgilio!

Carissimi lettori, questa sera aggiorno il mio blog per dare un arrivederci ad un grande musicista ed intellettuale italiano, che ci ha lasciato oggi all'età di ottantanove anni.
Mi riferisco aVirgilio Savona che, insieme al grande paroliere Tata Giacobetti e alla splendida voce di Lucia Mannucci,, è stato l'anima di una delle più grandi esperienze della storia della musica italiana: il Quartetto Cetra.
Non vi racconterò la storia del gruppo perché in Internet potrete reperire molto materiale, voglio semplicemente ricordare chi, in anni di sofferenze vere, ha permesso all'Italia di avere quel po' di ludicità che dà il giusto senso alla vita.
Vorrei anche dire una cosa su come è stato ricordato: come sempre in maniera incompleta. Infatti, e questo a chi legge i miei scritti potrebbe interessare, Savona è stato anche studioso di canti popolari e politici. Ha curato, ad esempio, insieme a Michele Luciano Straniero, il libro "Canti della Resistenza italiana", uscito nel 1985. Chi volesse approfondire questo aspetto, nonché scoprire alcune sue canzoni politiche, potrebbe andare su http://www.ildeposito.org/.
Infine, chi volesse lasciarsi prendere dalla gagliardia palermitana della sua voce, potrebbe ascoltare un'intervista rilasciata al programma di Rai International "Notturno italiano": www.international.rai.it/notturnoitaliano/mostra.php?id=6740.
Scusatemi la brevità, ma queste sono cose sempre difficili da fare.
Virgilio, grazie di tutto quello che ci hai dato, non te ne importare se pretesi sociologi bollano la tua arte come semplice "reperto da studiare"...

lunedì 24 agosto 2009

Intervista a Luca e Carlo Rizzello dei Ballati TuIl ritorno della taranta (aggiornatoIntervisa ai fratelli Rizzello di Spongano (Ballati tutti quanti)

Carissimi lettori, dopo tanto tempo, pubblico un'intervista telefonica, fatta a due componenti del grande gruppo salentino "Ballati tutti quanti", che si può scoprire ai seguenti indirizzi internet: http://www.ballatituttiquanti.com/, www.myspace.com/ballatituttiquanti, oltre che su Youtube, dove loro stessi pubblicano i loro video.
Quasi tutta la chiacchierata è con Luca Rizzello, grande violinista salentino, già componente degli Alla Bua.
D: Quali erano le musiche che circolavano nella vostra famiglia quando eravate molto piccoli, a parte la musica popolare salentina?
R: Ovviamente nella nostra famiglia non circolavano solo le musiche legate alla tradizione, perché noi siamo stati bambini negli anni '80, epoca in cui, specialmente nella nostra zona, non c'era molta attenzione per la musica tradizionale. Noi abbiamo avuto un approccio alla musica completamente conforme a quello "normale" in quegli anni, ossia abbiamo ascoltato molta musica leggera, rock e classica, ma abbiamo anche avuto la fortuna di scoprire la musica tradizionale, perché questa rallegrava i ritrovi di famiglia e la si suonava insieme ai nostri zii e nonni. Infatti, nella nostra famiglia, non c'è mai stata interruzione nella trasmissione del repertorio.
D: Queste "altre" forme di musica da che cosa erano rappresentate?
R: Beh, si potrebbe anche pensare alle canzoni di Sanremo, che eseguivamo insieme a nostro padre, che suonava sia il pianoforte che la chitarra, comunque qualsiasi cosa, il tutto filtrato dalla sensibilità dei nostri genitori, grandi musicofili.
D: Quando avete iniziato a suonare musica popolare?
R: In realtà abbiamo iniziato, sin da quando abbiamo cominciato a strimpellare i nostri strumenti, ad accompagnare i canti che i nostri zii non si stancavano mai di ripetere nei ritrovi di famiglia: io personalmente studiavo il violino, ed i miei fratelli prendevano familiarità con i tamburelli e le chitarre.
D: La tua prima esperienza di "musicista" di musica popolare sono stati gli Alla Bua?
R: No, c'è stato qualcosa prima: ho suonato con un gruppo molto interessante del mio paese che si chiama "Menamenamò". Il bello di questo gruppo è che la sua musica non è necessariamente "masticata" e rielaborata artificialmente. Oltretutto in questo gruppo ci sono ancora due dei nostri zii, all'epoca ce n'erano anche tre, quindi, anche grazie alla fusione di generazioni, si riusciva a creare un clima molto amichevole. Non era come suonare in famiglia, ma quasi.
D: Quando, come e perché sei entrato negli Alla Bua?
R: La collaborazione con gli Alla Bua è nata perché ci siamo conosciuti nelle piazze, magari non direttamente, ma tramite lo scambio dei nostri rispettivi recapiti. Inizialmente, è ovvio, questa è stata una collaborazione di prova, sia da parte mia che da parte loro, poi questa unione ha funzionato e sono restato dentro quasi otto anni.
D: Come è cambiato il tuo stile sul violino da quando hai iniziato con i "Menamenamò" fino a quello che ti sei portato con gli "Alla Bua"?
R: Intanto il periodo in questione è stato un periodo di studio sullo strumento, quindi di evoluzione tecnica, la quale, però, poteva diventare un pericolo. Infatti, sono profondamente convinto che la musica popolare non si esprima con un alto livello tecnico, ma con una "coscienza del repertorio". Quindi, anche a livello professionale, ho tentato sempre di lavorare su questa "coscienza", anche in vista della "spettacolarizzazione", del fatto di doversi esibire.
D: Se faccio un confronto tra i vostri e quelli degli Alla Bua, trovo che il secondo ed il terzo cd del gruppo siano infinitamente più moderni. Con i "Ballati tutti quanti" siete per caso voluti tornare "indietro"?
R: Sì, diciamo che l'ho fatto intenzionalmente. "Ballati tutti quanti" mi sta particolarmente a cuore proprio per questo motivo. Non abbiamo avuto l'angoscia della carriera discografica, dello spettacolo necessariamente organizzato come un concerto a tutti gli effetti. Questo è un gruppo nato per la divulgazione di questa musica in festival poco noti ma molto interessanti, dedicati magari alle danze o alle musiche popolari del mondo, dove quindi poi l'esecuzione musicale finisce per non essere la fase più importante. Così ci siamo potuti dedicare alla divulgazione del ballo, nonché ad incontri di "dimostrazione" del nostro repertorio. Ecco perché non abbiamo voluto cercare uno stile che fosse vendibile o moderno. Tramite questo progetto abbiamo avuto la fortuna di esprimerci come ci saremmo espressi a casa nostra.
D: Come sono nati i Ballati Tutti Quanti?
R: Siamo nati un po' in sordina per invito di questi festival di danze tradizionali che esistono tutt'ora in Italia, anche se si preferisce rendere noto un evento mediatico che non cito. Noi, infatti, ci interessiamo ad un aspetto che in questi festival più rinomati viene trascurato: alla ricerca sul campo del repertorio, e alla sua riproposizione nella maniera più semplice possibile, dove "semplice" non sta per grossolano o riduttivo, ma per filtrato meno possibile dall'esigenza professionale dell'esecuzione sul palco. Siamo nati perché invitati ad alcuni festival dopo essere stati notati come ballerini o musicisti di altri gruppi, spesso per tenere corsi di divulgazione della danza della "pizzica pizzica" (nome tradizionale della "pizzica" n.d.r.). Così abbiamo iniziato un'attività che ci è subito piaciuta molto, sia perché potevamo esprimerci come ci esprimevamo in casa, che perché potevamo raccontare ciò che avevamo visto in strada. Sfugge, infatti, che la "pizzica pizzica" e le altre danze tradizionali del mondo, vanno imparate per strada, e che sarebbe un errore etnomusicologico oltreché morale raccontare delle cose che non si sono viste.
Nessuno di noi è etnomusicologo, ma sia io che i miei fratelli ci siamo dedicati a tematiche di questo tipo, ed abbiamo acquisito un minimo di metodo anche solo con l'esperienza. Ovviamente ci sono approcci diversi, ma la cosa più importante è ascoltare sempre il più possibile le fonti viventi. Noi ad esempio abbiamo la fortuna di avere nostra nonna che è stata giovane cinquant'anni fa, ma questi cinquant'anni ci sembrano un'eternità perché lei viveva una vita completamente diversa dalla nostra. Noi continuiamo ad imparare da lei tutti i giorni, e sempre "ci sorprende essere sorpresi", sia canti, ma anche aspetti della socialità contadina, dove la vita e la musica erano concepite in modo completamente diverso da oggi.
D: Vedo che oggi c'è una disonestà dilagante nei confronti dei contadini, spesso si ha paura anche di dire che si fanno testi tradizionali.
R: Su questo ti posso delucidare per quanto riguarda l'indirizzo dei ballati tutti quanti: che esista la contaminazione musicale è ovvio, è umano e non è la prima volta nella storia che succede, se non esistesse la contaminazione musicale oggi non avremmo il jazz. Quello che ci dispiace è che nel Salento, ormai, sia decaduto l'interesse per quello che c'è prima d'un certo limite temporale: c'è un completo disinteresse, in fondo, per la musica tradizionale in sé. Io mi immagino un panorama musicale completo nel momento in cui c'è chi si dedica alla contaminazione e alla modernizzazione di una musica, e, allo stesso tempo, chi la riscopre tradizionale.
Una cosa che tengo a dire è che mi dispiace molto che, ormai, nel Salento, mettendo insieme tutti i gruppi di musica popolare più o meno contaminata, si arriva ad una quindicina di brani e non di più, ripetuti in tutte le salse, mentre, se ci si ferma ad ascoltare gli anziani o chi ha memoria del repertorio, si scopre che esso è molto più vasto.
Spesso la musica salentina è ritenuta povera perché fatta di poche armonie, ma la sua ricchezza è altrove, sta nei dettagli. Solo che, per coglierli, le fonti vanno ascoltate più volte anche per lo stesso brano, prima di riprodurre.
Quello che spesso diciamo durante i nostri corsi è che la "Pizzica pizzica" non è una canzone con un inizio ed una fine definite: noi nei cd, come tutti, siamo costretti ad incidere brani di quattro minuti, ma, quando ci capita di suonare ai festival, quando si tratta di "feste a ballo" dove veramente si viene a sentire la "musica tradizionale salentina", molto volentieri suoniamo anche pizziche di un'ora alternando strofe di varia natura.
La "coda" di questa intervista è affidata a Carlo Rizzello, chitarrista e cantante dei "Ballati tutti quanti".
D: I vostri cd ve li autoproducete. Come funziona l'autoproduzione?
R: L'autoproduzione è una cosa che funziona se uno non ci vuole lucrare. Noi, infatti, non vendiamo i cd nei negozi, non abbiamo distributori, e, anche se dal punto di vista economico questo non è conveniente, ci rende sicuri del fatto che chi vuole qualcosa di diverso da ciò che trova sulla bancarella o nel negozio, ci può comunque trovare. Questo ci permette di fare davvero ciò che sentiamo di fare.
Spero d'avervi aperto gli occhi, sarebbe meglio dire riaperto gli occhi, su uno dei pochissimi gruppi che ritiene interessante ricercare anche nel passato nuovi brani popolari, preferendo questa strada anche a quella di raccontare la modernità, che, nonostante qualche volta sia percorsa con grande qualità, è comunque più facile e rassicurante.

Dialogo tra la musica salentina e la modernità.

Carissimi lettori, finalmente riesco ad aggiornare il blog.
Ora voglio farlo in maniera particolare, proverò ad inventare un dialogo, quasi teatrale, tra la Musica Salentina e la Modernità, per spiegare, ancora un'altra volta, come, secondo me, si comportano i salentini con la loro musica. (Sarò ripetitiva, ma gli unici che non hanno gli atteggiamenti che condannerò sono gli... Zoè!).
Farò parlare la Musica Salentina nella sua lingua, il nobile dialetto leccese, mentre la tracotante e stupida Modernità parlerà in italiano standard.
MUSICA SALENTINA: Osci sta casa a postu aggiu mintire, peccé forse nu veru amicu have vinire...
MODERNITA': Io non sono amica di nessuno, a te ignorante contadina neanche ti considero uno.
MUSICA SALENTINA: A li tiempi mia, ossignuria, a ci ve trattava comu amicu se tinia rispettu:ci vui nu lu sapiti dicitime: ce teniti 'ntra lu piettu?
MODERNITA': Io ho un cuore nel petto, ma è diverso dal tuo: non ha spazio per i sentimenti, pensa solo al denaro.
MUSICA SALENTINA: E uliti puru cu ve se 'nvidia? A mie sta vita vostra me pare na tragedia! Sienti nu picchi beddrha amica mia: peccè ti ni si vinuta a casa mia?
MODERNITA': Sono venuta perché purtroppo la gente ti cerca, e allora sono venuta a rubarti la saggezza e la sapienza.
MUSICA SALENTINA: Vui ve chiamati Modernità, ma a mie me pariti cchiui disonestà. Ieu pozzu puru cu ve dau nu consigliu piccinnu, d'altra parte vivu a tantu tiempu e tegnu dirittu: senza ca tie te minti 'n competizione, poi cu cunti le novità cu la mia canzone e lu sonu meu (vidi quiddi amici de lu Capu ca ieu tegnu, ca 'ntra n'"Officina" lavoranu puru a quistu cu lu 'ngegnu).
MODERNITA': Mamma mia questi Zoè, ancora con i tamburelli e il vaso delle baccanti, ora ci illudono di cantare gli immigrati che giungono qua, ma questi "Maledetti guai" sono una grande solfa!
MUSICA SALENTINA: Stau felice ca li canusci, me piace ca puru hai 'ntisu lu lavoru de iddi ma... sienti nu picchi: pe tie qual è la modernità ca ieu aggiu tinire?
MODERNITA': Tu devi diventare una musica come le altre, non ti si deve riconoscere, la gente deve solo "zumpare" ma non deve soffrire e tanto meno pensare.
MUSICA SALENTINA: None! Ieu a quistu nu cedu: a mie pe' tantu e tantu tiempu hannu cantatu, e sempre le pene sofferte cu mie hannu 'ncurdatu. E poi sientime bona, ca ieu puru ci su cuntadina nu picchi de cultura la tegnu. A mie m'ha cantatu puru lu Titu Schipa, ddu grande tenore leccese, ca era de Lecce l'usignolu, e iddu m'ha tinutu tantu e tantu cchiù rispettu de tie.
MODERNITA': Sua Eccellenza Tito Schipa, signora mia, viveva negli anni Cinquanta, quando ancora, le persone che la sentivano come la loro musica esistevano effettivamente. Oggi chi vi cerca non vi vuole più con la sofferenza e le pelli di tamburo, vi vuole come il pop, solo con "Pizzicarella mia pizzicarella".
MUSICA SALENTINA: E ieu stu pop lu canuscu, pensa ca già 'ntra l'anni Cinquanta n'imu 'ncuntratu, perché nc'erane delle tarantate ca nu me uliane cchiui, e puru ci l'aggiu cercate cu le curava, idde addù stu signore se nde sciane cuntente.
MODERNITA': Assolutamente no! Tu hai incontrato quella musica leggera cretina che ancora rispettava il passato della cultura italiana, adesso il pop sono io, anzi, io sono peggio di lui, mi chiamo World music.
MUSICA SALENTINA: Matre santa! E ci siti, me pare ca puru lu nome n'inglese teniti.
MODERNITA': Io sono una musica che unisce tutto il mondo in un'unica ed insostituibile miscela meticcia. Non mi importa né della geografia né della storia, voglio semplicemente sfruttarti per quel che mi serve. Ho vari amici che ti conoscono, ma con i tuoi Zoè non se la spartono.
MUSICA SALENTINA: Mo' oju te cuntu nu segretu: l'"Officina" già mescola nu picchi li strumenti tipu comu dici tu, puru ci lu face cu lu rispettu ca se deve a nu veru amicu... ma ieu tinia nu custode, nu difensore doratu ca alla mia tradizione tinia chiu de ogni autra cosa: se chiamava Roberto Raheli. Mo' iddu nu lavora cchiui, proprio perché t'ha 'ncuntrata e s'have stizzatu cu tie.
Mo' oju te fazzu na dimanna, 'nprima ca cunti e dici n'autra cosa de le tue: ieu moi su cantata de gente ca pozzu puru cu fazzu li nomi. Pensane quisti ca me cantane a mie?
MODERNITA': Beh, signora mia, non so se sa che il mondo cambia, e non so se si ricorda che lei nel XVII secolo era diversa da come è ora.
MUSICA SALENTINA: Comu ieu era 'ntra quiddu tiempu, ete nu segretu ca pozzu me tegnu pe mmie. Quiddu ca sta ve dicu ete: na fiata, quannu se cangiavane gli strumenti cu me se sunava, cangiavane mutu. Moi, lei, signora Tracotantità, nu vole me cangia nienti, puru ci ole me cangia tuttu. Moi ca ci pensu, ieu l'amici soi l'aggiu ntisi nu saccu de fiate. Puru sabatu passatu iddi me cantavane cu la solita superficialità. Pensa ca iddi tenivane nu sacciu quanti tamburieddi, nu beddrhu tamburru chiu grande ca ni tinia vari addintru, poi nc'era nu strumentu bassu, poi nc'erane tutti li vecchi amici mei, inclusi autri ca su cchiu novi comu la chitarra battente. La canusciti?
MODERNITA': Ma allora lei ha una coscienza, mi rimangio tutto quello che ho detto di male su di lei, e da ora in poi diventiamo amiche.
MUSICA SALENTINA: Pozzu ve dau nu consigliu moi? Ieu nu dicu ca vui nu m'iti fare "alla muderna", dicu sulu ca iti essere nu picchi chiu nobili de core. Quannu quarchiduno nu se canusce, unu nu se pote subitu minare allu mare a 'nchina avventura. 'Mprima, have a canuscire la mia storia, poi have a pensare: "Ieu, ca vegnu de nu munnu cusì diversu: comu m'aggiu comportare?". Cusì, nu picchi dannu e nu picchi pijannu, la modernità na vera amica me vene.
MODERNITA': Sono pentita di ciò che ho detto prima, ti ringrazio di tutto mia nuova amica, ma purtroppo credo che non potrò evitarti il "tempestone".
MUSICA SALENTINA: Finalmente nu picchi de rispettu te l'aggiu 'nparatu, e oju te ringraziu ca te l'hai pijatu. Ieu nu pretennu ca tutti me fannu tradizionale, ulia sulu tantu ca ci face autre cose, magari puru usandu stu dialettu ca sacciu cu cuntu, lu diciane cu la massima umiltà. E ulia, sempre da sti signori, ca me purtavane nu picchi de modernità puru cantannu cose nove, no solu cu li strumenti de recente fabbricazione. Mo' tie te stizzi e st'idilliu finisce, ma viva Zoè ca sta cosa la capisce.
MODERNITA': Guarda: l'idillio con te non finisce per niente, i tuoi amici Zoè, ora l'ho capito sono molto brava gente.

sabato 15 agosto 2009

tutto svuotato!

Carissimi lettori, questa sera mi va di scrivere un articolo che, suppongo, conoscendomi un pochino, sarà molto polemico. Lo spunto me lo dà il servizio di Vincenzo Mollica, giornalista per il quale io non ho mai nascosto la mia infinita stima, su un dj autore della canzone più banale e terribile di questa estate.
Mi andava di riflettere su come tutto, perfino il telegiornale della tv di Stato, d'altronde in niente diversa dalle private, sia stato svuotato dei propri contenuti base.
Da questo, ovviamente, essendo l'arte specchio dell'epoca in cui viene prodotta, non si è salvata neanche lei che, nel suo nome, avrebbe il concetto nobilissimo e spesso dimenticato di artigianato.
Oggi non si riesce più ad ascoltare niente, si pretende, e si raggiunge l'obbiettivo, di fare programmi, siano televisivi o artistici, che non informino ma facciano tacere la coscienza.
Anche le canzoni, che d'altronde possono essere fatte con il computer senza più l'uso o l'ausilio degli ingombranti strumenti acustici, smettono di essere qualcosa che richiede pazienza auditiva, per essere un qualcosa di cui non ci si accorge più, un tappeto naturale come la nostra pelle. Orribile!
Anche l'arte diventa una forma di pubblicità in se stessa, messaggio di asservimento e sottomissione, che è quello che moltissimi, i più forti, vogliono.
Non so che gusto ci sia nell'avere tanta musica intorno, io sono ancora alla vecchia maniera: ascolto moltissima musica, ma deve sempre essere quella che voglio io.
Non accetto i messaggi subliminali dall'arte né da nessuno, odio chi si proclama difensore di un'arte libera e poi si vende al miglior offerente, perché non ha capito che non appena questi troverà qualcuno che gli darà più di quanto gli stia donando lui, il cantante sarà lasciato perdere come una cosa inerte e abbandonata.
L'arte deve essere respiro dell'anima, vento che depura, soffio rigeneratore, silenzio meditabondo, allegria sfrenata ma voluta dalla persona.
Viva l'arte vera, quella non elaborata da calcolatori, quella che il mercato se lo conquista a malapena, ma che lascia alla gente la speranza di essere se stessa.

martedì 4 agosto 2009

Un po' dei "Maledetti guai" dell'"Officina".

Carissimi lettori, finalmente, "Spattannu" e con tanti "sospiri" di mezzo, mi è arrivato "Maledetti guai" l'ultimo disco, per me un capolavoro, degli Officina Zoè.
E' un cd che, forse, si ascolta meglio se si scorda tutto ciò che si sa dell'"Officina" anche se magari non è adatto ai non conoscitori, perché sono cambiati molto tutti (soprattutto Cinzia).
Innanzitutto, generalizzando, direi che è un cd dove le influenze di vari paesi, dal Mediooriente al Giappone, al Mali, "condiscono" con un "tempero" specialissimo tutto. Non pensate che il Salento si sia perso, va solo un po' cercato, va solo un po' meditato, più che esserci tirannicamente è un'eco fortissima ma spesso silenziosa.
Credo che di preliminari ne ho già fatti troppi, allora eccoci alle nove magiche tracce che lo compongono.
Della prima, "A mammata", vi ho già parlato in un articolo precedente, perché è uno dei "miracoli" bellissimi compiuti da Berlusconi con la sua proverbiale stupidità.
La versione da studio è ancora più pungente, per alcuni particolari che possono colpire solo se ascoltati e non descrivibili, proprio perché è "strascicata", e della pizzica non resta che un eco.
L'"officina", secondo me, magari non volendolo, ha omaggiato un grandissimo musicista salentino, il tricasino Aldo Nichil, uno dei "colpevoli" per la strepitosa colonna sonora del bellissimo "Pizzicata" di Edoardo Winspeare.
In questo brano, a livello di canto, si viene credo subito colpiti da certe vocali di "naso" che non erano molto tipiche del precedente stile di Cinzia Marzo.
Subito dopo eccoci a quella che io ho definito "tarantella africanata", ossia a "Maledetti guai". Sono evidenti le influenze non di un'Africa sognata ed indefinita, ma di quel Mali che ha tanto tenuto compagnia all'"Officina" ultimamente, grazie alla tournée con Baba Sissoko.
Nella versione "ufficiale", più lunga di quella presente nel myspace dell'officina www.myspace.com/officinazoe, si sentono molti rimandi al jazz, che nell'altra versione si potevano solo "sospettare".
Se vogliamo fare un paragone "officiniano", questa, e quasi tutto questo cd, rimandano a quel capolavoro assoluto, purtroppo non capito, intitolato "Il miracolo".
Lì gli strumenti "tellurici" della nostra tradizione erano meno presenti piuttosto che qui, ma qui vengono sfidati a trovare un'anima "eterea" che li rende quasi irriconoscibili (si pensi alla lira calabrese suonata da Cinzia, che emette delle dissonanze contemporanee insospettabili).
Il testo dei primi due brani è in lingua italiana, e questo permette alla voce di Cinzia di essere portata da venti nuovi, che noi ammiratori degli Zoè di sempre, dobbiamo scoprire se vogliamo tentare di capire questa nuova opera.
Questa tarantella sguscia via, senza quasi averti dato la possibilità di fare quella festa così inebriante a cui porterebbe questo ritmo in condizioni "naturali".
La stessa sensazione si ha, se possibile ancora più forte, nella terza traccia, una "Pizzica mistica" che è molto più "mistica" che "pizzica".
Il suo inizio è lentissimo ed è completamente strumentale, affidato a chitarra, violino e mandolino.
La seconda fase, ancora non a pizzica, neanche lenta, è caratterizzata dall'aggiunta di una tammorra, che viene sfidata a terzinare completamente, anzi a fare anche degli accenti in più, creando, sia prima che durante il canto griko di Cinzia, un miscuglio enigmatico tra i ritmi di certe regioni del Portogallo, altre suggestioni mediterranee, nonché altre variazioni moderne sulla pizzica stessa.
Ad un certo punto, finalmente, la pizzica si materializza, ancora "muta" grazie alla tammorra, ma finalmente alla sua velocità normale.
La parte più a pizzica, che comunque porta molto più a meditare che a ballare, inizia durante un lunghissimo "la" di Cinzia, in cui la tammorra si quieta per fare spazio ai due indiavolati, ma comunque meditabondi, tamburelli di Lamberto e Danilo.
A questo punto del brano l'ensemble dell'"officina" arriva alla sua conformazione più normale: tamburelli, chitarra, organetto e violino. Non credete di trovarvi davanti ad una pausa nelle sperimentazioni perché, soprattutto nell'ultima parte, il violino esegue note dissonanti (che capisco poco).
Ed ecco la pizzica più "sospirata" dell'"Officina". E' sospirata sia perché si chiama "Cu lli suspiri", che, soprattutto, perché io ho aspettato un anno intero prima di poterla avere, dopo averla sentita al Concertone di Melpignano dell'anno scorso. (Vi ricordate della "pizzica de Santu Sebastianu"? Eccola!).
E' un tipico brano pisanelliano, di quelli in tonalità minore dove gli strumenti contano molto più delle voci, anche se Cinzia, con il suo notevole fiuto per i bei testi, ci ha messo delle parole tradizionali che, oltre a starci benissimo, obbligano l'ascoltatore a farci più di un pensierino.
La parte cantata, composta qui da almeno quattro parti, è tradizionale quindi accompagnata con un bellissimo giro in tonica e dominante (re minore-la), intervallato da un bellissimo giro di organetto che, per fare un altro paragone officiniano, ricorda "Don pizzica".
In mezzo al brano c'è un bellissimo dialogo tra organetto e violino che riesce ad unire la sensualità del tango argentino con la forza della pizzica, ma l'unione viene bene perché niente sopraffà (imparate contaminatori da strapazzo!). Prima di concludersi, questa "Cu lli suspiri", ci presenta un'"Officina" che gioca con le percussioni e le sue voci dorate, in maniera del tutto indescrivibile, come è ogni vero gioco quando è vero e spontaneo.
Ed eccoci ad un altro capolavoro nel capolavoro, la milonga argentina, scritta da Pisanello, "Spattannu", dove Cinzia, facendosi i controcanti da sola, canta una bellissima poesia vernacolare intitolata, come il brano stesso, "Spattannu".
Interessante è il dialogo tra due mandole, una che suona all'italiana, con note tremolate, e una che esegue gorgheggi mediterranei ed aperti come un oud arabo (forse c'è l'influenza del grande Ruggero Inchingolo, suonatore di liuto arabo in "Terra", primo ed indimenticato lavoro dell'"Officina").
L'organetto, che si sente pochissimo, scopre un'anima segreta di sé, credo causata da qualche accorgimento tecnico che, per la mia proverbiale ignoranza, non so rilevare.
Il testo è struggentissimo, è il racconto, dolcemente dettagliato, dell'annullamento di antiche aspettative d'amore, rappresentate da una canzone che non viene mai cantata.
La voce di Cinzia, dopo aver cantato in maniera dolcissima il testo, dialoga con se stessa, tramite le sovrincisioni, con terze e quinte interessantissime. Così il brano si chiude lasciando spazio ad un'altra perla: "Liknon".
E' un brano che, in dialetto salentino, traccia un ritratto di ciò che sentono gli immigrati che arrivano qui, che poi era quello che sentivamo noi quando ce ne andavamo dalla nostra Italia "china 'i fami e china 'i guai" (la citazione è di Otello Profazio, da "Mannaja all'ingegneri").
Scordatevi però il racconto lineare, preparatevi a quei viaggi allucinati e criptici così tipici di Cinzia Marzo, immaginate di sentire "Fracidde", magari un po' meno mistica, ma "lu ientu" che soffia è quello.
Il brano è in tono minore, ma la tristezza è "tiepida" e non si può combattere, ci si può solo lasciare avvolgere da lei come da un incantesimo improcrastinabile.
Il contrabbasso, che suonato con l'archetto spesso acquista toni apocalittici e scuri, qui arriva ad una cantabilità quasi umana, ed arriva ad usare in maniera modernissima i tipici "quarti di tono" della più pura musica popolare.
Questo assolo, è poi seguito da quello della magica mandola mediterranea che, come ho già detto in "Spattannu", fa risoffiare quel vento bellissimo e a me particolarmente grato dell'oud di Inchingolo.
Queste stesse atmosfere, forse con meno effetti mediterranei ma con altrettanta efficacia, sono poi ripresi dalla chitarra acustica di Luigi Panico, che porta il brano verso lidi più anglosassoni, ma l'effetto si interrompe subito, perché riprende, finalmente, il canto di Cinzia e Rachele, che si fa ora un dialogo tra la durezza di Cinzia, che comunque è diventata solo uno dei tanti colori che sa usare, e la dolcezza mistica di Rachele. Interessantissimo, nel canto di Cinzia, il contrasto tra il significato della parola "uraganu" e il modo con cui viene pronunciata. Il brano ora ci sta illudendo di voler finire, ma sta solo prendendo un altro ritmo, tramite un interessantissimo dialogo tra le terze tipiche salentine delle voci e i virtuosismi moderni del contrabbasso. Il ritmo, secondo me, è una tammurriata campana, che, forse, viene velocizzata un po'. Il testo che si canta in questa parte di brano è molto ripetitivo ma è pieno di caratteristiche pienamente "tradotte" dal canto (non posso dirvi niente delle parole perché sbaglierei qualcosa). Poi, sinceramente, credo che questo cd ognuno debba scoprirlo e farselo penetrare dentro molto istintivamente, quindi queste righe vogliono solo essere un invito ed un piccolo racconto di ciò che ci vedo io, non una decriptazione di nessun segreto.
Ed eccoci ad un momento balcanico, completamente strumentale quindi scritto da Donatello Pisanello, intitolato "Ciao rom". E' una congiunzione ideale tra una quasi accennata terzina di pizzica, che non viene mai eseguita per intero, e influenze balcaniche, per omaggiare i Rom, questo popolo con cui i salentini, da ormai molti anni, hanno legami indissolubili.
Ed eccoci a "Pizzicannella", pizzica interiore, la cui introduzione potrebbe ricordare il finalino di "Macaria", brano contenuto in "Sangue vivo", album di cui questo disco sviluppa e migliora molte idee.
Abbiamo percussioni e flauti che dialogano in maniera molto meditabonda, ma di una meditazione che porta alla ricerca di un equilibrio interiore, ricerca a cui Cinzia, autrice del pezzo, ha sempre puntato nella sua musica e nei suoi testi (si pensi a quella parte di "Menevò" che dice:
E' na parte de munnu
ca è puru piccinna
ca de tutta la terra
cu vai cerchi na linia.
E' na linia suttile ca passa de lu core
ca è comu nu specchiu
addù lassu lu core).
Qui, forse, si ritrova una maggiore rabbia, anche se la si interpreta perché ormai, quando arriva questa "Pizzicannella", si è entrati in pieno in questa atmosfera allucinata e criptica, di cui Zoè ci vuole ubriacare.
E il canto si interrompe per lasciare spazio alla magia dei flauti, che non dialogano più solo con i tamburi ma anche con le corde, che velocemente rispondono con un mirabile assolo di mandola, la cui dissonanza non disturba, il cui finale ricorda un pezzettino di una "guitarrada" del grande suonatore di chitarra portoghese Jaime Santos" precisamente il pezzettino più virtuosistico delle "Variações em re".
Il cd si chiude con un commovente canto griko, sempre di matrice popolare, che Cinzia riprende dal libro dell'attore e ricercatore brizio montinaro "Canti di pianto e d'amore dell'antico Salento".
Qui il canto delle "prefiche" scompare per dare spazio ad una dolcezza quasi desolata, profonda.
Spero di avervi fatto venire un po' di curiosità, ora tocca a voi immergervi in un mare di bellissimi ma "Maledetti guai".

domenica 2 agosto 2009

Malicanti a Trevi

Carissimi lettori, è con molto piacere che torno a scrivere questa mattina. Vi parlerò, andando un po' a zig zag, del bellissimo concerto dei Malicanti, gruppo di cui si è già parlato ma che conviene ricordare.
Il concerto si è svolto a Trevi nel giardino d'una villa costruita tra XVII e XVIII secolo, all'interno del World music festival.
La piazza era quasi piena, eravamo poco più di centottanta persone ma c'è stato un clima da vera festa popolare.
Il gruppo, che contrariamente a molti ensemble popolari attuali è didattico e insegna a distinguere le varianti senza annoiare, per ogni brano raccontava una storia con cui ti permetteva di capire o parti del testo, o da dove provenivano certi stili contadini che poi venivano usati, o, comunque, le atmosfere tipiche delle zone della Puglia da cui i suoi componenti provengono.
Va ricordato infatti che il gruppo tiene molto a precisare d'aver imparato tutto ciò che sa dagli anziani, e chiaramente si limita ai repertori delle zone di provenienza concreta dei suoi componenti (non essendoci nessuno della Grecìa, ad esempio, ogni riferimento al griko è mancato).
Il concerto si è aperto con una "Oi rosa", solo apparentemente simile a quella incisa nel cd "Canti tradizionali delle Puglie", unico disco inciso dal gruppo. Nei due casi, e in generale per tutto il concerto, si è avuto un uso massiccio della chitarra battente, ma le strofe che si cantavano erano spesso e volentieri diverse (d'altronde sono anche passati quattro anni dall'incisione in questione). Il brano, essendo di provenienza brindisina, è stato interpretato magistralmente da Daniele Girasoli, nato in provincia di Brindisi a San Pancrazio salentino.
Subito dopo si è potuta apprezzare la bravura di Anna Invidia, grande nuova voce della musica popolare salentina, in uno dei classici indiscussi di questa tradizione, la bellissima "Pizzicarella". Se dovessi paragonare questa versione a qualcosa di pubblicato, citerei la stupenda rielaborazione del brano presente nel cd "Opillopillopì" degli Aramirè. L'interpretazione, come tutte quelle del gruppo, è basata su stilemi contadini, rispettati profondamente ma anche un pochino "ripuliti" (non edulcorati).
Subito dopo si è fatta la prima capatina nel Gargano, terra di cui i Malicanti subiscono molto profondamente il fascino, anche perché varie persone che ruotano intorno a questa compagine musicale provengono da quella zona.
Quando si pensa a quelle tarantelle, inevitabilmente il ricordo vola ai Cantori di Carpino, il cui maggiore leader e fondatore, il grande chitarrista Andrea Sacco, è stato maestro diretto di Enrico Noviello, colui che coordinava tutto il concerto con una semplicità ed una tenerezza disarmanti.
Il primo esempio carpinese offertoci è stata una "Montanara", quel giro d'accordi che ormai tutti credono legato ad un testo solo, quel bellissimo "E comme je ja fà pe' amà sta donni" reso famoso trent'anni fa dalla Nuova Compagnia di Canto Popolare.
I Malicanti, nell'interpretazione del repertorio garganico hanno due voci ben distinte. Oltre ad Enrico Noviello, anche esimio battentista, chi era a Trevi ha potuto scoprire Adriano (scusate se non so il cognome, loro l'hanno sempre presentato così). Se lo stile di Noviello pur nella sua profonda ruralità è pulito e personale, lo stile del secondo cantore ricordava quello quasi gridato dell'appena deceduto Antonio Maccarone.
Del Gargano il gruppo ci ha poi offerto anche una "rodianella", presentata come il ritmo preferito da Andrea Sacco per la sua giovialità, ed una "viestesana" basata su interessanti "calate" di quarti di tono, a cui oggi non siamo abituati ma che erano l'essenza del vero canto contadino.
I testi dei "sonetti" carpinesi sono, e non poteva essere altrimenti, in moltissimi casi di tematica romantica, perché a Carpino, ed in parte succede ancora oggi, la serenata era talmente importante che era il solo mezzo, o il più convincente, che un amante aveva per far capire alla propria amata quanto fosse grande il suo amore.
Da quelle terre viene anche una "Sangiuvannara", tarantella di San Giovanni rotondo, di tematica più piccantina e meno romantica, caratterizzata anche dall'uso dell'organetto (che in teoria nel folklore carpinese sarebbe assente, anche se i Malicanti hanno fatto uso dello strumento durante la "viestesana").
Dedichiamoci ora, sempre a zig zag ma con maggiore dovizia di particolari, al repertorio di zona brindisino-leccese, portato prevalentemente da Daniele Girasoli e Anna Invidia.
Sono rimasta piacevolmente colpita, mentre me la cantavo a squarciagola come ho fatto con tutto quel repertorio, dalla presenza in scaletta di "Mieru". Questo brano, a me prevalentemente noto nelle versioni di cantanti che fanno "liscio alla salentina" come Bruno Petrachi, sia in questa versione che in quella di Uccio Aloisi in "Mara l'acqua", acquista un fascino ed un'autenticità disarmanti. Il brano, valzerino spassoso, è un inno al vino e al suo potere di far scordare le fatiche (sicuramente è meglio delle droghe sintetiche con cui in molti, oltre a scordarsi ciò che li circonda, si ammazzano!).
Passando alla zona brindisina, notevole è l'interpretazione della "Pizzica di San Vito", imparata dai Malicanti direttamente da "mesciu" Vincenzino Vita, barbiere che suonava sia violino che mandolino.
Interessante è stato il quarto di tono del violino durante la parte meno terzinata del suo intervento, positiva è stata, finalmente, l'introduzione del terzo accordo d'accompagnamento che nell'incisione su cd manca, provocandomi un senso di profonda insoddisfazione.
La versione dei Malicanti è partita lenta, per poi arrivare al ritmo medio d'una pizzica, quello che molti gruppi, purtroppo anche Zoè, ogni tanto ritengono troppo lento.
Presentato da Enrico Noviello con moltissima tenerezza, è arrivato anche il momento del ricordo di "Zimba". Il brano che ci ha permesso di ricordarlo è stata un'"Aria caddrhipulina" interpretata da Anna Invidia con maestria e sentimento. Nel ritornello, sintomatico della personalità sofferta ma gioviale dell'aradeino, io mi sono divertita a cantare, per la verità l'ho cantata tutta. Il brano, contenuto nel primo cd degli Zimbaria, è diviso in parti lente (strofe) e in un ritornello a tarantella (non a pizzica pizzica), dove questo ritmo si vive in maniera festosa.
Notevole, io la avevo sentita solo in versioni deludenti, la "Pizzica di Torchiarolo", che ha avuto in Anna Invidia un'interprete meravigliosa. Il ritornello, basato su vocalizzi, era semplicissimo da seguire, difatti, dato che riprendeva la melodia della strofa, io l'ho subito cantato.
Meravigliosi anche gli stornelli "salentini", secondo la denominazione di Uccio, interpretati dall'Invidia alla maniera di Anna Cinzia Villani, anche se in modo meno marcatamente rurale.
Interessantissima, perché costituiva un esempio di pizzica parte in minore e parte in maggiore, la "disputa" tra la "Pizzica di Carovigno", interpretata da Girasoli, e una delle varianti leccesi (che non riesco a ricordare) interpretata dall'Invidia.
Per tutto il concerto l'organetto di Valerio Rodelli ha dimostrato il suo virtuosismo, semplice ed accattivante, virtù ormai abbastanza persa dai signori dell'organetto da "conservatorio".
Enrico Noviello, grande interprete garganico, ci ha dato, alla fine, la buonanotte alla Andrea Sacco, riprendendo il giro di montanara in mi minore, interpretando il "sonetto" noto come "Chi nun capisce l'amore nun capisce nente".
Subito dopo, dato che noi scalpitavamo perché avevamo amato molto tutta la serata, si è avuta una bellissima "Pizzica tarantata", brano che il gruppo, al contrario di Zoè, esegue cantando le strofe proprie di Luigi Stifani, il musicoterapeuta che utilizzava questo nome per definire la sua pizzica.
Citazione a parte, merita il momento dedicato ai "canti alla stisa", quelli che veramente accompagnavano il lavoro dei contadini. I Malicanti ce ne hanno offerto un commovente esempio con "La rucita di mare", versione specifica di San Pancrazio salentino de "Lu rusciu de lu mare". Purtroppo non ve la posso descrivere, posso solo dirvi che è molto bella.
Altrettanto a parte, forse perché mi ha commosso particolarmente, cito "E malidettu lu cinquanta", canto che veniva direttamente da "Le memorie della terra". Il brano è costituito da un documento inciso da Alan Lomax nel 1953 a tempo di tarantella, alle cui strofe sono intervallate altre eseguite lentamente. Non è forse un brano sspudoratamente politico, ma ci ricorda che questa gente, dato che soffriva, con la sua musica ci cantava anche le sue sofferenze. Se noi amiamo il folklore come cosa viva, dobbiamo tornarlo a fare.
Non pretendo di avervi dato neanche lo zero per cento di quello che vi siete persi se non c'eravate, spero solo di farvi venire la voglia di vedere i malicanti quando passano dalle parti vostre: vale davvero la pena!