mercoledì 28 novembre 2012

Francesco Guccini: L'ultima Thule

Carissimi lettori, ieri 27 novembre è uscito l'ultimo (è veramente l'ultimo o così sembra) album di Francesco Guccini. Sinceramente, da subito, grido al capolavoro. Il cd ha quella tenerezza poetica e folgorante a cui Guccini ci ha sempre abituato, ma che, nonostante questo, resta sempre miracolosamente nuova. La prima traccia, "Canzone di notte n. 4", è la definitiva sulle sue esperienze notturne, dedicata prevalentemente alle notti pavanesi, sia rivissute teneramente e crepuscolarmente dell'infanzia, sia quelle attuali. Si inizia con la riproduzione del rito dell'interruzione della lettura notturna, abitudine che il bambino Guccini portava avanti quasi con caparbietà. Se dovessi descrivere il brano musicalmente lo definirei una rivisitazione di "Canzone delle osterie di fuori porta", ma il parallelismo è per una parte minima. La voce di Guccini è profonda, forse non perfetta ma penetrante come scure. Qui c'è un tempo che oscilla tra il passato e il futuro, quello che una nuova politica miope avrebbe voluto o vorrebbe farci dimenticare. I testi hanno sempre quella tensione tra il semplice ed il letterario, tra il colto ed il popolare, insomma è tornato il Guccini migliore. La stessa tenerezza crepuscolare, forse anche più accentuata, la si ritrova in "L'ultima volta", dialogo con una persona che non si vede ma si immagina lì vicina. Anche qui i "valichi dell'Appennino" sono i protagonisti, ricordando e aggiornando un classico gucciniano come "Incontro" (in fondo, riducendone molto lo spessore e la complessità potremmo affermare che questo cd ricorda molto il mitico "Radici" del 1972, disco che quest'anno compie quarant'anni). "L'ultima volta" è uno di quei brani "fra la Via Emilia e il West", dove quel limite tra realtà e fantasia si sfiora, ma stavolta lo si fa tramite la musica, caratterizzata la fortissimi richiami al bob Dylan folk, anche grazie all'armonica a bocca. Particolare, alla fine del penultimo giro melodico, sentire il rumore del Limentra, fiume che scorre al Mulino dei Guccini, dove il cd è stato registrato (particolare che lo lega ancora una volta alle "Radici" del cantautore. A proposito di "Radici" Guccini ha una grande passione per tutto ciò che è tradizionale appenninico, incluso il dialetto, da cui ha tradotto la terza traccia di questo cd, la commovente "Su in collina", narrazione di un incontro tra partigiani che si trasforma in lutto e funerale improvvisato. La musica, di juan Carlos "flaco" Biondini, è una ballata che, almeno a me, ha fatto venire una lacrima agli occhi. Si sente il cammino nel ghiaccio sulla collina, la batteria e tutta la ritmica simula quei passi, forse con una canzone così uno potrebbe riavere rispetto per la Resistenza (cosa che ci hanno fatto dimenticare in questi vent'anni bui). Il brano ha due particolarità puramente musicali che ne caratterizzano l'inizio e la fine: all'inizio si sente una ghironda, che porta una melodia che potrebbe ricordare certe ballate celtiche, mentre il finale rimanda alla "Primavera di Praga" in "Quasi come Dumas" (1989). La quarta traccia continua il discorso, raccontando, tra tenerezza e allegria, il 25 aprile 1945, dove un padre ritorna finalmente a casa, anche se la sua vita non è più la stessa. In questo 24 aprile, ritorna una gran parte del XX secolo, dalla carezza di Giovanni XIII allo sbarco sulla luna. La quinta traccia è una tarantelluccia circense dal titolo "Il testamento di un pagliaccio", che in molti casi ricorda Berlusconi. Il brano l'avevamo già sentito negli ultimi anni ai concerti, cosa che vale anche per la bellissima "Su in collina". "Il testamento di un pagliaccio" è un miscuglio tra l'Apocalisse che diventa paradosso e una descrizione impietosa di questi vent'anni che credo siano stati fortemente traumatici per chi abbia vissuto invece quelli della forte creatività del boom economico. Non so se pensare che il pagliaccio è Berlusconi oppure qualcuno che abbia lottato contro di lui. Subito dopo si torna alla tenerezza e si torna a cantare la notte. Su un giro di accordi in maggiore che non disdegna passaggi in minore che fanno da ponte, si raccontano le notti vissute in vario modo, ma rispetto all'iniziale "Canzone di notte n. 4" è meno personale. L'accompagnamento è cantautorale, diventa leggermente pop solo in una parte intermedia a metà brano, anche laddove è moderno sgorga sempre quell'odore di ballata americana così tipico a Guccini, che gli permette di far defluire il suo fiume di parole godute, quello che manca a questo rap che, se da una parte riporta una socializzazione della musica, dall'altra distrugge l'italiano e la sua poesia. Particolare è l'esperienza di sentire una chitarra elettrica leggermente "effettata", ma l'atmosfera prevalentemente è quella di un pop che si impregna di jazz e folk, due mondi che, insieme all'America Latina, forse costituiscono i perni della musicalità del "maestrone". Con un pianoforte accompagnato da leggeri canti d'uccello (o qualcosa che sembra un canto d'uccello) inizia un ritratto ironico e tenerissimo degli artisti, tra cui Guccini, forse per civetteria, non si conta definendosi "umile artigiano" (dopo essersi definito "piccolo baccelliere" in "Addio", brano che chiudeva "Stagioni" cd del 2000). Il brano "Artisti" è un valzer al limite tra argentina e Francia, ed è caratterizzato da una chitarra classica quasi magica nonché dal bandoneón Dubito che noi, ammiratori di Guccini, possiamo condividere l'ultima parte del testo, ma ognuno sente la propria arte come vuole (dovete ascoltare per capire se darmi ragione o no). L'ultima traccia de "L'ultima thule" (questo è il titolo del cd di cui abbiamo parlato) è, musicalmente, un miscuglio tra "Cristoforo Colombo" (2004, "Ritratti") e "Bisanzio" ("Metropolis", 1981). Il protagonista è un navigatore disincantato, che non ha più interesse nel presente, che forse è l'incarnazione metaforica del Guccini che con questo cd saluta la musica come arte a cui dedicarsi costantemente, ma forse saluta anche altro (e non è la mania alla Vasco Rossi per stare sempre sotto i riflettori). C'è comunque la speranza che il protagonista faccia qualcosa, ma è come se si tendesse verso l'intimo ed il privato. Credo sia raro avere la sensazione che in un cd tu non avresti cambiato niente, a me questo l'ha data. Guccini ci saluta in maniera sublime, da godere e da tenere da conto per quando ci vorremo ubriacare di un'essenza che probabilmente non odoreremo più.

lunedì 26 novembre 2012

Qualche parola sulle primarie del centrosinistra

Carissimi lettori, oggi voglio aggiornare il blog, anche se non si parla di musica.
Mi va di parlare un po' di ciò che emerge dalle primarie del centrosinistra.
Avevamo la possibilità di cambiare la maniera di fare e di respirare la politica, votando Nichi Vendola, non l'abbiamo fatto per il nostro atavico senso del conservatorismo.
Abbiamo preferito votare per un Bersani "crozziano", e dare uno spazio ad un pervertito come Matteo Renzi, che fa paura e che oltretutto non ha niente di sinistra.
Renzi è colui che dà questa politica di stretto respiro che abbiamo avuto per decenni tramite Berlusconi. Se quest'ultimo usava il linguaggio del calcio, il fiorentino utilizza quello delle macchine, come se le persone fossero cose ssenza valore, quando ogni persona porta in sé una storia ed una cultura, che è ciò che ci ha fatto diversi dalla destra.
Quello che Vendola ridà alla politica, che ad un paese così pieno di pregiudizi fa paura, è il sogno, è il guardare oltre, è l'utilizzare la propria cultura ed il proprio passato come mezzo per riavere un nuovo respiro nel futuro.
Questo concetto fondamentale ci è stato negato, ormai chi ci lo vuole ridare ci fa paura.
Vogliamo rottamare tutto, come se non capissimo che noi, quelle poche volte che contiamo, lo facciamo ancora guardando, rispettando ed utilizzando il nostro passato.
Auguri a Bersani, che sosterrò, ma che mi deve convincere, smettendola di parlare come un automa televisivo. 

lunedì 5 novembre 2012

Parlando ancora di "Pizzica e dintorni".

Carissimi lettori, avevo pensato che non sarebbe stato utile tornarci, mentre vedo che ancora non si è capito, quindi ci torno. Voglio tentare di spiegare ancora meglio il perché della scelta del nome della mia ultima "creatura", il sito e (soprattutto) la web radio monotematica "Pizzica e dintorni". La pizzica, ballo e genere musicale di tradizione contadina della Puglia centromeridionale (diffuso anche in Lucania), è oggi il ballo e genere musicale contadino con maggiore diffusione e notorietà (basta con la definizione di "moda", il suo perpetuarsi ed il suo espandersi dovrebbe far riflettere sul fatto che forse dietro a tutto ciò c'è qualcosa di più). Non starò qui a spiegare come la penso su come debba essere divulgata, anche perché questi sono discorsi stantii che spesso denotano purismo velleitario e simile alla morte. Il mio canale è monotematico su repertorio popolare (in verità più di una volta vado nel colto, con dischi come "Pace e non più guerra" di Riccardo Marasco), comunque tutto è visto da un'ottica popolare, per quanto moderna. Il progetto iniziale aveva altre dimensioni, che si sono dovute rimpicciolire anche per colpa di leggi ed attori miopi. Comunque, con l'enfatizzare la "pizzica" nel nome, si è solo voluto riconoscere al Salento (e alla Puglia tutta) la sua mole di investimento culturale, che ha fatto sì che questa musica fosse reperibile e conosciuta da un numero di persone notevole (ripeto che qui non è il caso di discutere su certe divulgazioni poco accettabili, ognuno in fondo è libero di fare ciò che vuole). Se avessi chiamato il mio progetto "Tarantella e dintorni", sicuramente avrei potuto generare più equivoci, perché non si può prescindere nella storia della tarantella dai contributi colti (come Rossini) o semicolti (come la grande canzone napoletana dell'Ottocento). Essendo che il mio canale, orgogliosamente trasmette solo repertorio contadino (o comunque interpretato da ricercatori di repertorio contadino) mi è sembrato giusto dare risalto a quello che, lo si voglia o no, lo si voglia condividere o no, è il ballo contadino più famoso oggi. Con la definizione di "ballo contadino" non sto ovviamente dicendo che la pizzica sia rimasta ciò che era, sto solo dando risalto alle sue radici. Perché non ho voluto inserire il "folk leccese". Innanzitutto non ho voluto inserire niente che ricordasse il cosiddetto "nuovo liscio", quello che va da Casadei in poi, che nel Salento è rappresentato da gente come i Petrachi (Enzo e Bruno), Ginone, Gino Ingrosso, Gigetto da Noa, Cesare Monte. Sinceramente ciò che andava divulgato era il folklore suonato con strumenti contadini che, paradossalmente, pur essendo quello che riempie le piazze e che si sta conquistando uno spazio crescente nel circuito della "world music" (termine odioso, ambiguo e per me di significato nullo), non ha uno spazio di divulgazione nei media, nel web c'era solo qualcosina fra l'altro abbastanza superficiale. Per il liscio, come è giusto che sia, invece vi sono fiumi di canali, di vario spessore ma devo dire, nella maggioranza dei casi, di grandissima qualità. Perché non metto gruppi che rileggono la musica popolare in altra chiave. Quello che mi interessava era (ed è, lo sarà sempre) dare voce a chi non ce l'ha, a chi si fa un saccodiconcerti in giro per il mondo ma non è considerato dai media. Credendo di aver dato una spiegazione abbastanza buona della scelta della parola "pizzica" nel nome (non c'è la "taranta" da nessuna parte perché sono contro questa visione limitante dell'uso della parola "pizzica" solo legata al tarantismo), andiamo a spiegare cosa vuol dire il "dintorni". Nei "dintorni" della "pizzica" ci si situano un sacco di generi, alcuni dei quali (purtroppo non tutti, ma questo non interessa nessuno) sono stati rivitalizzati insieme a quest'ultima e possono suonare. Si pensi agli altri ballabili o brani con ritmiche veloci che spesso risuonano da queste parti, dagli stornelli alle tarantelle, passando per i valzer ed i brani in ritmo binario (polkettine e dintorni). Nei "dintorni" del Salento ci si situano altri territori con un folklore altrettanto degno di essere divulgato, e piano piano arriveremo, superando la miopia di moltissima gente, a divulgarne più possibile. Perché ho scelto solo produzioni indipendenti? Non volevo cappi e, sinceramente, non mi pento per niente, credo che il trasmettere solo brani tradizionali dia una leggerezza che i brani d'autore non darebbero mai! Se volete sapere se mi manca qualcosa, assolutamente sì, molti dei miei dischi preferiti non li posso suonare, ma dati gli ascolti non mi lamento. Dopo questa difesa accorata del mio progetto, che non deve piacere a tutti, figuratevi, grido una cosa su cui spero concordiate: viva la musica popolare! Per chi ancora non conosce il sito in questione, do il link: http://www.pizzicaedintorni.it.

domenica 4 novembre 2012

Qualche parola sui social network che frequento

Carissimi lettori, è da diverso tempo che non scrivo su questo blog, mia prima ed indimenticata creatura virtuale. Vorrei oggi parlare di Facebook e Twitter, due mondi che ho conosciuto grazie al fatto che li uso per pubblicizzare "Radio pizzica e dintorni". Nessuno dei due mi soddisfa completamente, per quanto so che la perfezione è un miraggio fortunatamente irraggiungibile. Facebook ha di bello che è utilizzato dai principali operatori culturali che si dedicano alla musica popolare, ma è inaccessibile. Immaginatevi di leggere qualcosa che sparisce sotto i vostri occhi, immaginate di essere sballottati da un posto all'altro senza avere possibilità di tornare dove volevate trovarvi. Twitter ha di bello che è accessibilissimo, ma di musica popolare se ne parla praticamente pochissimo. Solo Enza Pagliara, la Irma records e gli Alla Bua hanno un canale Twitter, ma solo questi ultimi lo utilizzano in maniera abbastanza copiosa. Ottimo, di Twitter, è il fatto che sia utilizzato da molti giornali, ma disdicevolissimo è che nei giornali si parli di musica popolare solo per la Notte Della Taranta, che ormai è diventata il "Sanremo dei proletari". Sarebbe segno di civiltà da parte dei media mostrare l'offerta culturale italiana in tutta la sua complessità. Adesso dice che Facebook cambierà la bacheca, vediamo quando e come.

lunedì 10 settembre 2012

Un paio di riflessioni

Carissimi lettori, oggi mi va di fare una riflessione su quanto i nomi possano sfogare i nostri più profondi preconcetti, che nemmeno un'esperienza diretta delle cose che portano quei nomi può far regredire. Mi è capitato di divulgare la mia iniziativa legata al folk con una e-mail ad un'associazione di salentini dai quali mi sono sentita rispondere che loro vogliono divulgare il passato e la pizzica nel passato aveva un ruolo secondario mentre, secondo loro, nel mio canale avrebbe un ruolo primario. Voglio quindi tentare di chiarire una volta per tutte, spero di non doverci più tornare né qui né in qualsivoglia altra sede, il perché della scelta del nome "Pizzica e dintorni". La pizzica, lo si voglia o no, è il ballo più rappresentativo di tutta la tradizione centromeridionale italiana, tra quelli di origine propriamente contadina. Questo nome quindi non poteva che far capire (avevo pensato io e tutt'ora lo penso) che il mio canale caparbiamente avrebbe emesso solo brani di tradizione contadina suonati del tutto o in prevalenza con strumenti contadini. Avevo pensato che si potesse capire un concetto così semplice, sarebbe poi ora che coloro che tutelano i patrimoni tradizionali non si dedicassero solo a tutelarli in contesto tradizionale, ma ne tutelassero la riproposta rispettosa, evitando magari eventi come Melpignano, che sinceramente con la musica popolare c'entra pochissimo. Difatti la Notte Della Taranta mi sembra diventata un "Sanremo dei proletari", dove chi è già famoso per altri motivi, magari anche nobili e di qualità, viene a farsi una passerella prendendo però in mano qualcosa che non gli appartiene. Io sinceramente non mi dedico ai puristi, ma nemmeno al pubblico della Notte (ma poi siamo sicuri che questa gente ami così tanto ed abbia così bisogno di questa musica contaminata?). aIo mi dedico a tutti coloro che si vanno a vedere i numerosi concerti che portano la musica popolare in giro per l'Italia e per il mondo, a tutti coloro che si vogliono divertire al suono degli strumenti tradizionali, con consapevolezza ma senza chiusure. Il mio canale quindi è per la non musealizzazione del folklore e per far capire a qualcuno che, forse, non tutto quello che si fa adesso è da condannare od esecrare, come non tutto quello che si faceva una volta è da ritenere buono solo perché antico. Scusate lo sfogo e se potete andate su www.pizzicaedintorni.it/radio.html e fatevi il viaggio.

domenica 9 settembre 2012

Canto remolino

Carissimi lettori, già torno perché ho il cuore dolcemente aperto da un acquisto fatto ieri sera a quella fantastica rimpatriata con gli Inti di cui ho parlato nel post precedente. Mi va di parlare del cd "Canto remolino" che José Seves pubblicò nel 2002, due anni prima di rimettersi con Salinas e riprendere l'avventura degli Inti. La prima canzone ha un testo ed una musica perfettamente equilibrate, entrambi quasi surreali. Nonostante ciò la realtà c'è tutta anche nella sua cruda tragicità. Sono curiosi, qui e in molti altri brani, i numerosi canti staccati così tipici di quella cultura africana che ha influenzato tanto la cultura afroamericana che è entrata così profondamente nell'anima di Seves. La seconda traccia è una dolcissima ma durissima dichiarazione di intenti, un manifesto di Seves da solista, ma che in molti casi ricorda le battaglie che gli Inti hanno portato e portano ancora avanti. Musicalmente il brano è uno dei più semplici e cantabili del disco, niente politonalità, un semplicissimo si minore, una melodia festosa ma che lascia trasparire il raccoglimento del testo. Ma la politonalità torna, molto meno presente, in "El eco de ayer", bel ritmo tradizionale dove si canta di speranza e di nostalgia sempre con questo tocco immaginificotipico della penna di Seves (che spero che a questo punto si esprima di più anche negli Inti, magari creando qualcosa musicato dal grande Salinas). E questa forte anima afro di José Seves si sfoga forse in maniera radicale in "Saber mapudungún", brano che è dedicato dal musicista alla gente d'etnia "mapuche" (indigeni cileni). La canzone è in mi maggiore, con bassi ostinati soprattutto nella ripetizione osessiva di "Mapudungún". Molto bel brano, la voce di José è sempre stupenda, poi accompagnata da strumenti che diventano percussioni si staglia in tutta la sua forza espressiva. La traccia successiva, intitolata 2Llover", con moltissimi verbi all'infinito come questo del titolo, è una ballata con una bellissima fisarmonica (penserei perfino ad un bandoneón ma non sono sicura). Il canto di Seves si esprime con quegli staccati che come ho detto prima caratterizzano molti momenti diquesto cd, molto bello, trasognato, raccolto, come però forse oggi non si accettano più. Andando avanti si arriva a "Será la sombra", semplice ritmo popolare in tonalità minore, che ritmicamente ricorda "La charagua" di Víctor Jara", che gli Inti suonaronocon maestria nel 1970, quando fu eletto Salvador Allende. La canzone è tutta incentrata sul tentativo di identificare un'ombra inidentificabile. Il brano successivo è "Velório de un negro criollo", che tramite una secca cronaca di una veglia per un negro creolo, denuncia la condizione d'emarginazione sociale da cui i neri sono usciti ancora in troppo poche occasioni. Il brano è caratterizzato da una bella voce femminile che compensa perfettamente la potenza dolce di quella di Seves. Il finale di questa cronaca amara ed ironica degli atteggiamenti umani nei confronti della morte, è caratterizzato da frasi semplici di fiati che traducono con i suoni ciò a cui si allude nel testo. Altra gemma del cd è un brano intitolato "Cantantes invisibles", nel quale José Seves fa un omaggio a quei cantori che improvvisano i loro testi. Forse simbolicamente si sceglie un ritmo cubano per accompagnare questo inno al canto concepito come grido di libertà, difatti Cuba è una delle zone più attive da questo punto di vista. Senza andare troppo lotnano da ciò che si sente abitualmente per radio, si potrebbe pensare alla parte finale di ogni buon brano di salsa. Però il canto di Seves ricorda coloro che in queste forme metriche libere lanciano anche messaggi politici, sociali. Andando avanti si va verso un classico venezuelano di cui José Seves dà un'interpretazione molto lontana da quelle che conosco io, ma non sono particolarmente affidabile. La voce del nostro, in questa "Tonada de luna llena", è solo è accompagnata solo da una percussione e da un cuatro, strumento tipico del paese d'origine del brano. Molto bella la voce di Seves che si libra in volo tra i suoi atti, a volte in pianissimo altre volte fortissimi, ed i suoi toni gravi, che in pochissimi conoscono se non lo sentono parlare (perché la sua parlata è politonale, espressiva e quasi cantata). Il brano seguente è un altro momento di intimità, difatti la voce del nostro è accompagnata da chitarre che solo molto raramente lasciano l'arpeggio per poi diventare ritmiche. Il brano a cui mi riferisco è "Valdivia en la niebla", in cui si direbbe che la voce ama andare verseo il recitato. Il testo è in quel limite fra realtà e sogno in cui mi sembra trovarsi quasi tutto il cd. E quest'anima africana che aleggia come una guida segreta all'interno del disco torna a farsi respiro evidente in questa "Esperanza y yo". Come brano è in gran parte un son cubano, che racconta, così come la già trovata title track "Canto remolino", la sua autobiografia, ci si ritrovano riferimenti all'esilio e alla tristezza che questa esperienza porta inevitabilmente con sé. Questa traccia, però, sviluppa come nessuna il fatto che nella sua vita c'era sempre la speranza come una bussola. Il brano successivo, "He preguntado por él", sembra dedicato a Augusto Pinochet, difatti vi si racconta con poesia e dolcezza della resistenza clandestina. Il brano L'ultimo brano è un tocco di poesia e ritmiche quasi brasiliane (un po' una "Líneas para un retrato" ante litteram). Il brano è un canto alle radici geografiche di Seves, un sud del Cile tra vissuto e sognato, in quel confine in cui si muove tutta l'opera. Bel cd, caldamente consigliato a chi abbia la fortuna di trovarlo.

Inti-Illimani Histórico alla Stazione Birra

Carissimi lettori, oggi ho l'onore di recensire il bellissimo concerto che gli Inti-Illimani Histórico hanno tenuto alla Stazione Birra di Ciampino (data l'ora tarda non l'ho sentito tutto...) L'inizio è stato folgorante con la bellissima "Danza" che gli Inti riprendono da quel gioiello supremo chiamato "Palimpsesto" del 1981. La versione se possibile è ancora più struggente dell'originale, grazie all'utilizzo della quena, flauto il cui suono sembra riecheggiare in sé tutto il lamento di un popolo. Interessanti le timbriche della fisarmonica che sostituivano il violino, la mano di Salinas qui era perfetta, mentre nel concerto a "Cooperativa en vivo" si erano sentite delle imperfezioni. Quando si inizia a cantare si interpreta "Polo Doliente", brano estratto da un altro dei miei dischi preferiti degli Inti, quel "Canción para matar una culebra" che per me segna la definitiva maturazione del gruppo. In questo brano José Seves, con cui tra l'altro prima del concerto ho avuto una lunga e bella chiacchierata in castigliano dopo averne fatte di brevi con Durán e Eduardo Carrasco muralista amico degli Inti ed autore di "Inti-Illimani storia e mito", ha dimostrato di non avere assolutamente difficoltà nel padroneggiare il suo fantastico timbro in cui potenza e dolcezza si equilibrano in modo magico. Fa strano sentire la parte d'arpa (affidata a Jorge Coulon) nelle mani del prode Camilo Salinas al piano. Non sta male, anzi, nei ritmi centroamericani dal Venezuela a Cuba passando per la Colombia il piano ci sta benissimo. Il terzo brano è stato una commovente "Papel de plata", dove si è potuta apprezzare la bellissima e ruvida voce di Horacio Salinas, che ha conservato il suo inconfondibile timbro arricchendolo con una leggera sfumatura rauca. Molto bello l'uso della batteria ad imitare il pandero andino, molto rispettoso pur nella contaminazione. Continuando il tuffo negli anni '70 si ascolta "La exiliada del sur", brano di Violeta Parra che gli Inti avevano inciso ne "La nueva canción chilena" (1974). La versione è molto fedele all'originale, le parti di Jorge sono state cantate da un'altra voce molto più potente (non la distinguo...), molto bello sentire le profondità del basso allearsi con la percussività grave della parte centrale del bombo. Tornando agli strumentali si è avuto poi il piacere di riscoprire una delle più belle composizioni di "Salinas", quella "Araucarias" che impreziosiva ulteriormente il già di per sé bellissimo "Andadas" (1992). Faceva strano sentire il brano abbassato di un tono (da la minore a sol minore), faceva un effetto molto classicheggiante sentire il pianoforte che eseguiva battute bartockiane sulle gravi. La parte finale, quella che nel cd era eseguita da Renato Freyggang col sassofono, è stata eseguita da Camilo Salinas (figlio dell'autore del brano e direttore degli Históricos) con la sua magica fisarmonica. Poi si è fatto un salto di vent'anni (indietro) con "Ya parte el galgo terrible". Le strofe se le rimpallavano Salinas e Seves, molto bello, stupende anche le altre coloriture sia musicali che vocali. Insieme a Massimiliano Stefanelli, direttore d'orchestra appassionato di strumenti latinoamericani che suona con abilità, il gruppo ha poi eseguito una bellissima versione di "Takakoma" da "Lejanía", disco che non è mai arrivato ai negozi di dischi italiani. Interessante, rispetto a questa versione in studio, unica da me conosciuta perché non possiedo "Esencial" che pure contiene il brano, degli assoli di quena leggere varianti della melodia. Stefanelli in questo brano suonava il charango insieme a Durán, bello. Da "Hacia la libertad" del 1975 viene "El arado" di Víctor Jara, che qui è stata cantata nelle parti soliste da un bravo e forse un po' emozionato Horacio Salinas. La voce del nostro si rompeva leggermente sempre sul sol prima dell'esecuzione dell'ultimo verso di ogni parte solista. Molto bel brano, belli anche gli impasti vocali, anche se forse mancava in parte minima la perfezione degli originali. Il brano successivo ci ha permesso di andare verso quel gioiellino che è "Travesura", cd di canzoni per bambini inciso dagli Históricos due anni fa. Il brano è stato interpretato con maestria, anche io ho contribuito cantandolo a squarciagola, difatti è la mia traccia preferita del disco. Belli gli impasti vocali, non c'è niente da fare ma per me gli Inti si ottengono con voci dolci e potenti equilibrate, non con timbri dello stesso tipo. Dopo due brani de "Los bipolares", gruppo da cui provengono Danilo Donoso (batteria e percussioni), Fernando Julio (basso) e Camilo Salinas (pianoforte e fisarmonica), quando gli Inti sono saliti di nuovo sul palco si è ascoltata un'applauditissima "Alturas". In questo brano c'è stata qualche leggerissima e non fastidiosa smagliatura nella parte di sicus, il resto è stato impagabile come sempre (bombo, charango, chitarra e sicus sono sempre una magia grandiosa). E andando avanti si arriva ad "Arróz con cocolón", brano inciso in "Esencial" del 2006, pezzo dalle forti sonorità afroperuviane, evidenziate dall'abilità di Danilo Donoso al cajón. Molto efficace comunque l'insieme del gruppo, fantastico Camilo Salinas al pianoforte, che veramente nella musica latinoamericana scopre la sua anima percussiva che in Europa è così negletta. Dopo c'è stato spazio per quel divertissement durissimo da suonare dal titolo "La marusa", che Horacio Salinas ha interpretato con Massimiliano Stefanelli al cuatro venezuelano. Veramente bravissimi entrambi, anche qui c'è forse stata qualche leggera smagliatura ma niente di fastidioso. Si è andato avanti poi con "Vuelvo", un inno del ritorno dei cileni dall'esilio, scritto da Salinas e Manns nel 1979 quando ancora mancavano dieci anni alla fine della dittatura. Bellissima l'interpretazione di Seves, che forse aggiungeva alla rabbia dell'esiliato quella dello scontento per come sono poi andate le cose in Cile. Faceva strano, ma non dava per niente fastidio, sentire le parti di tiple affidate al pianoforte di Salinas jr. Qui si potevano ammirare i favolosi impasti vocali unisoni che hanno fatto la fortuna e l'inconfondibilità dello stile Inti (se ascoltate altri gruppi forse difatti la vocalità è più generalizzata, nel senso che le voci si scorporano e si fanno controcanti, pensate al livello di arte a cui i Quilapayún hanno sviluppato questa arte anche grazie a Víctor Jara). Tornando al repertorio più noto in Italia si ha il piacere di ascoltare "Lo que más quiero", testo della cantautrice cilena Violeta Parra egregiamente musicato da sua figlia Isabel. L'interpretazione degli Inti conservava le sue caratteristiche base, cambiava solo la distribuzione delle strofe tra le varie voci. Molto bello il vocalizzo a canone che inizia e conclude il brano. Un altro momento esplosivo, anche per gli assoli di Camilo al piano e Danilo alla batteria, è stato "Mulata", brano a ritmo di salsa che sfrutta una poesia molto bella del poeta cubano Nicollás Guillén. Mancava solo il flauto ottavino, che in questi repertori fa sempre la sua inconfondibile figura, ma comunque è stata un bellissimo pezzo (peccato che il pubblico non ballasse!). Da brividi è stato anche il canto antirazzista "Samba landó", che il gruppo riprende da quel gioiello, già qui pluricitato, dal titolo "Canción para matar una culebra". Le strofe se le rimpallavano Seves e Salinas, dando ognuno il proprio conio, che veramente sapeva dell'autentica storia del gruppo. Anche noi nel ritornello contribuivamo con il coro su "Samba landó, que tienes tú que no tenga yo". Io ero emozionatissima, sinceramente questi sono i miei inti! Gli ultimi tre brani che abbiamo sentito sono stati tre superclassiconi del periodo '70 inizi '80. Il primo è stato "El pueblo unido", che gli Inti ci hanno invitato a cantare, devo dire che molta gente se la ricordava, poi comunque si esplodeva sempre nel ritornello. Il secondo è stata una "Fiesta de San Benito", dove, ancora una volta, la batteria ha fatto le veci del pandero. Io questo brano l'ho ascoltato in piedi ed ho dato anche qualche accenno di danza (per quanto possa permettermelo io!). Comunque cantavo e me la godevo anche se ero mezza afona a forza di commuovermi ed impazzire. L'ultimo brano da me sentito integralmente è stato "El mercado de Testaccio", uno di quei gioielli di gratitudine che i gruppi cileni composero nel periodo del loro esilio europeo ("Vals de Colombes" per i Quilapayún o, tornando agli Inti tra le altre "Una finestra aperta"). Mentre andavo via ho sentito le prime inconfondibili note di "Simón Bolívar", e così gli Inti mi hanno salutata. Fantastico concerto, il consiglio spassionato è di andare a vedere gli Históricos quando passano dalle vostre parti!

domenica 2 settembre 2012

Enrico Ruggeri a Ragusa

Carissimi lettori, questa sera mi va di recensire il concerto di Enrico Ruggeri, che il cantautore milanese sta tenendo a Ragusa in questo stesso istante (miracoli di Internet). Tutto ciò è reso possibile da www.oraziosgarlata.it, che lo manda in streaming. Il primo brano è "Cercami cercami", brano molto rock ma melodico, come solo Enrico Ruggeri ne sa fare. La stessa atmosfera è ripresa dalla "Señorita", brano storico dell'inizio degli anni '80, che Enrico Ruggeri canta tutt'ora con verve invidiabile. Andando avanti si comincia a sentire il mio Ruggeri preferito, quello delle ballate lente e sinuose, come "Prima del temporale". In questa occasione il brano, originariamente tratto da "Peter Pan", acquista una ruvidezza e una durezza che però, almeno secondo me, non disturbano il romanticismo strappacuore di questo brano, tra i migliori del Rouge. Si può dire che interpretato così, seppur abbassato di due toni (da do minore a la minore) il brano riacquista la propria anima di ballad rock, che nella pur pregevole versione di "La vie en rouge" aveva perso, per diventare una bella (ma non perfetta) ballad acustica. E dopo questa rimpatriata con il Ruggeri storico si torna al bellissimo, e purtroppo poco amato, "La ruota", con il brano sanremese "La notte delle fate". Il brano diventa ancora più rock, ma è sempre in quel confine strano, che solo Ruggeri esplora con innata perfezione, tra melodia italiana e sonorità punk-rock. Il brano successivo è "Il portiere di notte", probabilmente la prima canzone del Rouge ad essermi entrata dentro, grazie ad un doppio vinile dei miei genitori, misto di brani d'autore. Questa versione ci permette di apprezzare il valore di Francesco Luppi, tastierista della band di Enrico Ruggeri. Pur non avendo una manualità da pianista (o non avendo difficoltà nel suonare da tastierista) Luppi riesce a trasmettere tanto con pochissime note. Il brano è interpretato in maniera molto simile alla versione di Enrico VIII, ma c'è nel finale un assolo accapponapelle di Schiavone, che traduce con tutt'altro linguaggio, quello della chitarra elettrica, la calda essenza dell'oboe. E dopo un discorso abbastanza forte (sono eufemistica) contro questo governo e lo strapotere delle banche si continua con un brano che parla di carcerati, anzi si mette nella mente di uno di loro e ce ne racconta, dubbi, ansie e frustrazioni. Andando avanti torniamo al Ruggeri migliore, il mio Ruggeri, quello cantato da Fiorella Mannoia alla fine degli anni Ottanta, quello de "I dubbi dell'amore". L'arrangiamento ricalca quello de "La vie en rouge" (live nel 2001 insostituibile per chi volesse conoscere Ruggeri), ma vi aggiunge una ruvidezza data dalle due chitarre elettriche, una delle quali riprende l'assolo che in quella occasione fu di Davide Brambilla e la sua tromba. Ed Enrico Ruggeri continua a navigare tra i suoi successi, riproponendoci "Primavera a Sarajevo", che lo vide arrivare quinto (che tempi) al Sanremo 2002. Mentre nella versione originale, contenuta nel già pluricitato "La vie en rouge", le influenze balcaniche erano evidenti grazie alla tromba del già ricordato Brambilla, qui diventa un brano rock, con l'unica smagliatura data dal 2/4 che accomuna molti ritmi balcanici e la polka tanto amata dai nostri contadini. La versione è bella, Enrico è in grande forma, fa solo strano sentire il refrain di tromba eseguito da uno strumento che non identifico, forse dalle tastiere. E si va avanti con "Il mare d'inverno", accolta dal composto ma sincero delirio della gente. Devo dire che Luppi, il solito tastierista di cui prima, sta eseguendo la parte di piano in maniera ineccepibile (leggere smagliature verso la fine, peccato!). La versione è stranamente vicina a quella del 1983, l'originale. Il brano è commovente, Enrico ne dà una versione a fior di pelle, fortemente emotiva. Da diversi anni l'accompagnamento è assicurato anche da una chitarra elettrica distorta, che dà una sensazione di spettralità abbastanza inusitata. Il brano è finito con uno strano accordo di mi maggiore, tenuto da una chitarra elettrica (probabilmente quella dello storico collega e compagno di Ruggeri Luigi Schiavone). Andando avanti si chiama alla memoria "Punk (prima di te)", traccia del cd "Il falco e il gabbiano", dove Ruggeri rivendica la sua appartenenza al vero movimento punk italiano, di cui lui ha rappresentato un apice con i suoi decibel (quelli di "Contessa", ma soprattutto di pezzi come "A mano armata" o "Il lavaggio del cervello", di un'attualità tragica, quasi profetica). Subito dopo il cantautore esegue due brani che hanno segnato due sue partecipazioni al Festival di Sanremo. La prima è "Rien ne va plus", presentata a quello del 1986. Il brano, che se non sbaglio faceva parte del disco "Difesa francese", è un sinuoso e difficile valzer, nella più nobile tradizione dei vals musette. Nello stesso medley c'è stato spazio anche per la commovente "Nessuno tocchi caino", contro la pena di morte, presentata al Festival di Sanremo 2003. Il brano non ha perso in forza, anzi. Nello stesso medley c'è anche "Peter pan", che abbassata di ben due toni, perde molto. Dimenticavo che in mezzo c'è stata "Si può dare di più", inno della Nazionale Cantanti, presentata al Festival di Sanremo 1987. Sempre nella stessa sessione retrospettiva si ascolta una delle mie canzoni più care di Ruggeri, la ballata piena di tenerezza e nostalgia, uno degli inediti che impreziosiscono "La vie en rouge". Il brano si intitola "Quante vite avrei voluto", qui haacquistato un'anima rock che solo orecchie attente potevano sospettare sotto la patina di dolce folk dell'originale. Dopo questa full immersion nel Ruggeri storico e forse migliore si torna ad un album recente, dal titolo "Rock show". Il brano, omonimo, è un rock che distilla filosofia "on the road", fa piacere vedere che Ruggeri continua a fare questa vita potendoselo permettere. E si torna a "Il falco e il gabbiano", con una delle ballate più belle, profonde e riuscite del rouge. Ilbrano è "Ti avrò" e fa strano sentirla riarrangiata in maniera così rock, dura, ruvida, da strada. Forse la tenerezza del testo va indovinata, sotto la scorza dei suoni distorti, ed è un'esperienza alquanto particolare sentire un groove di batteria che potrebbe ricordare "Tutto subito", collegato a questo momento di supremo romanticismo della produzione di Ruggeri. Dopo un basso ostinato in do, parte "Poco più di niente". Qui il brano perde la sua melodicità, radicalizzando la sua matrice punk. Comunque è bella, e almeno secondo me Ruggeri ancora ha una voce che si può permettere certe cose. Fa riflettere il fatto che affidi le parti del ritornello, particolarmente alte, a dei cori, che non so da chi siano formati. Comunque è un rock corposo, bello, non casinaro. Nel Festival di Sanremo 1987 Enrico Ruggeri era presente anche come autore, per una non debuttante ma ancora sconosciuta Fiorella Mannoia. Il brano era "Quello che le donne non dicono", che permise a Ruggeri di vincere il Premio della critica. La versione conserva la sua melodicità ammaliante (Luigi Schiavone, oltre ad essere uno dei migliori chitarristi italiani, è un autore di musiche fenomenale) ma prende la ruvidezza che caratterizza l'insieme di questo spettacolo. E al secondo ritornello Ruggeri fa dire il "Siamo così" al pubblico, ma sicuramente è più emozionante quando fa cantare intere parti di testo al pubblico (peccato che stasera non sia successo). Comunque il nostro sta in gran forma, da un gran gusto sentirlo. E abbassato di quattro toni torna uno degli inediti che impreziosivano la bellissima raccolta "La giostra della memoria", uscita dopo la partecipazione del cantautore al Festival di Sanremo 1993 (vi ricordate quando vinse con "mistero"? Che tempi ragazzi!). Il brano spacca, è molto ruvido, le chitarre elettriche sono le protagoniste assolute, insieme alla batteria impetuosa di Marco Orsi. Il brano di cui si parla è "Bianca balena". E sul basso ostinato di mi minore, re e do si è snodato un brevissimo ma supremo assolo di chitarra elettrica, prima dell'ultimo refrain (non ritornello, perché questo brano non ce l'ha almeno inteso in senso convenzionale). E con un'intro che ricorda molto quella della versione del sopracitato "La giostra della memoria" arriva "Polvere", brano che dava il titolo ad uno dei fondamentali della discografia di Ruggeri (1983). La versione è assolutamente dura, piena di quell'impeto che caratterizza questa band. Molto bello è sentire come Ruggeri scandisca in maniera particolarmente emotiva il "che la mia condizione mi dà", dimostrando una totale identificazione con queste atmosfere, non cadendo però nella tentazione di nascondere i trent'anni passati e la maturazione da lui avuta. Il concerto sarebbe finito ma ci sono i bis, e credo di sapere già cosa sta per succedere. Si torna al periodo punk, con "Tenax", brano che non mi aspettavo. Il brano è uno di quei pezzi in minore in cui Ruggeri entra nel suo. Il brano ricorda le atmosfere fine '70 e inizio '80. La canzone non mi è particolarmente familiare, ecco perché si resta sul vago nel recensirla. Ed eccola la "Contessa", che perde il mitico attacco a note singole, per entrare subito nell'impietoso giro dance. È abbassata di ben due toni, ma è bella. Qui, come spesso accade, Ruggeri ha sfidato la bravura del pubblico nel tenere il tempo, naturalmente i siciliani non sono rimasti fregati. Il brano è uno degli inni del Rouge, io personalmente non lo amo più di tanto, ma ti soggioga. Bel concerto, Rouge in grandissima forma!

domenica 26 agosto 2012

Riflessioni amare dopo Melpignano 2012

Carissimi lettori, oggi mi voglio sfogare in difesa della vera musica popolare, quella che non ha bisogno di direttori d'orchestra e d'orchestre per essere suonata, né di palchi con connessioni wifi gratuite per esser raccontata e divulgata. Ieri si è assistito ancora una volta al concertone di Melpignano, quest'anno fiera della disorganizzazione e dell'ingiustizia (voglio vedere se un giorno fanno dirigere un festival di musica balcanica in Serbia o in Croazia ad un salentino, e addirittura lo fanno aprire a gruppi salentini!). Questa contaminazione tra Salento e Balcani, così giusta e naturale, perché le culture sono geograficamente e storicamente vicine, sa di stantio e déjà vu, perché già alcuni gruppi salentini l'hanno tentata, e sono anni che la scena salentina conta con preziosi musicisti balcanici al suo interno. Va detto che gente come Redi Asa e Admir Skhurtaj (non so se ho scritto bene i nomi) non attirerebbero cinquantamila o centomila persone, ma farebbero risparmiare milioni di soldi pubblici che potrebbero essere spesi per questioni molto più importanti. Non sono contro le contaminazioni, non sono di quelle che piange sul fatto che i contadini non si spacchino più la schiena nei campi, non sono tra quelle che pensa che la professionalizzazione dei gruppi di musica popolare sia un male universale. Penso solo che la musica popolare è amata perché avvicina all'essenza delle cose, perché riecheggia e riverbera il respiro della natura, la leggerezza d'un volo d'uccello, un canto liberatorio ma interiore, in un tempo fuori dal tempo. Se fosse per me si tornerebbe alla Notte Della Taranta degli inizi, anzi dell'inizio, fatta a misura di salentino, senza orchestre ingombranti. A me piacerebbe vedere a Melpignano un megaraduno di musicisti della tradizione, di diverse tradizioni, che si confrontino in maniera spontanea, tanto ormai questa manifestazione ha preso il volo comunque, non c'è più bisogno di chiamare nomi sonanti per far venire la gente, ormai il pubblico c'è qualsiasi cosa uno presenti davanti all'ex convento degli agostiniani. Poi, secondo me, la musica salentina va ormai innovata nelle sue frontiere, tutti stanno sfruttando fino all'ultimo respiro le stesse contaminazioni, quasi si può prevedere quale struttura avranno i futuri dischi che si acquisteranno. Questo è un peccataccio, si è voluto opprimere una musica che in origine è la libertà resa struttura. Mi piacerebbe vedere a Melpignano i musicisti salentini che suonino spontaneamente tra di loro, sfidandosi e provocandosi, magari regalando così anche nuovi brani alla musica popolare, che se è viva non è sicuramente grazie al concertone, che è anzi una passerella per chi già ce l'ha, che approfitta del folklore in maniera completamente egocentrica. Ciao da una appassionata di pizzica, (non tarantata, grazie!), ma anti Melpignano fino al suo ultimo respiro se l'evento non cambia radicalmente i connotati.

venerdì 24 agosto 2012

Briganti di Terra d'Otranto: Kronos taranta

Carissimi lettori, stasera vi voglio parlare dell'ultimo cd di un gruppo salentino veramente notevole, di quelli che, pur innovando molto, restano altrettanto sinceramente legati alla tradizione. Il gruppo di cui parlo si chiama Briganti Di Terra d'Otranto, è prodotto da sempre dalla Italian World Music di Bologna. Il loro ultimo cd, caratterizzato come tutti gli altri dalla pacifica (troppo pacifica per gli apostoli dell'innovazione radicale come unica forma di coraggio possibile) convivenza tra brani d'autore e tradizionali. I Briganti non compongono perché la tradizione va loro stretta, per loro il comporre è naturale come il respiro e le tecniche e gli stilemi della tradizione sono sangue del loro sangue. Per capirlo basta ascoltare anche solo la prima traccia di questo dolce e diabolico "Kronos taranta". Il brano è "Sullu stradone", una bella pizzica in minore, cantata da Tonino Priolo, una delle due voci maschili del gruppo, con il suo solito (ma sempre strano) misto di ruvidità e dolcezza. Il brano è reso corposo sui gravi dal basso elettrico di Priolo, che però non fa mai male alle orecchie, non inventa mai niente di forzato. Il testo è caratterizzato dalla presenza del titolo in tutte le strofe. Il primo salto nella tradizione lo si fa con un classico (di acquisizione recente) della zona brindisina, quella "Pizzica di Torchiarolo" raccolta e resa celebre da Enza Pagliara anche durante una delle edizioni del Concertone della Notte Della Taranta. La versione dei Briganti, pur essendo rispettosa, disprezza il déjà vu, anche grazie all'energica e bella (ma non limpida né tantomeno lineare) vocalità di Antonella Esposito. L'interpretazione, fino al finale esplosivo, si tiene su un ritmo di pizzica lenta sempre gradevole da sentire (io preferisco questo stile alle "turbopizziche"). E andando avanti si continua con una bella versione di "Na mujere vascia", brano che ultimamente è molto cantato, ma solo ora sta conoscendo notorietà generale. Ancora mi ricordo di una versione live che sentii a San Cassiano (LE) dove Tonino Priolo, grande improvvisatore di testi (ecco dove innovano i Briganti, altri gruppi? inginocchiatevi!) nominò il paese facendomi divertire tanto. Ed eccoci ad un brano in lingua grika, nei cd dei Briganti non mancano mai, ossia la "To, to, to", che in tanti aspetti ricorda la "Nia, nia, nia", così ben cantata dagli Zoè nell'ormai cult "Terra", disco del 1997 che da molti punti di vista inizia la storia moderna della riproposta salentina. Il brano è cantato da Antonella Esposito, sostenuta con dolcezza inappuntabile da Giovanni Esperti (chitarra a dodici corde) e Tonino Priolo (basso). Tornando alla pizzica si ha il piacere (parola abusata ma in questo caso correttissima) di ascoltare i voli leggiadri dell'ottavino di Stefano Blanco, che, partendo dalla "Tarantata" di Luigi Stifani, si avventura in bei giri in tonalità di sol, tono che porta automaticamente lo strumento colto a ricordare l'insuperabile gaiezza dei flauti di canna popolari (vi ricordate quello di Roberto Raheli degli Aramirè in "Pizzica con flauto"?). Tornando alla tradizione cantata, si fa un omaggio al grande e giustamente indimenticato Pino "Zimba". Il brano scelto è ovviamente l'"Aria caddhipulina", che forse come nessuno sintetizza lo spirito dello "Zimba" più vero, la loquacità, anche impudicamente volgare, di questa famiglia di aradeini storici ed autentici suonatori di musica popolare salentina e pizzica. La versione da studio è addolcita, non si direbbe nello stile dei Briganti, soprattutto non lo direbbero coloro che hanno sentito le versioni live in concerto o nel disco "Briganti di Terra d'Otranto live 2010". Qui si rispetta molto Zimba, non si tocca la fonte. C'è solo un "ne preciamu" che sostituisce un troppo neutro (e forse fiacco) "ne sapimu". Tornando alla pizzica e alle composizioni del gruppo si canta "Paese anticu", brano sulla condizione di sfruttamento che una volta affliggeva i contadini ed ora manda in crisi un numero crescente di persone di differenti ceti sociali. Brano bello, la denuncia è velata, non ha la durezza delle canzoni con data di scadenza (molti brani d'autore dell'attuale scena salentina tra un po' non si potranno più cantare, saranno superate per la loro forma forte e rabbiosa, direi perfino frustrata). Il brano successivo è un momento fortemente emotivo, difatti è una tarantelluccia che sfrutta e ricorda gratamente Fabrizio De Andrè e la sua "Volta la carta". Il brano è "composto" con quello stile al limite estremo tra tradizionale e d'autore, difatti alcune strofe sono tradizionali, altre si riconoscono con leggere rielaborazioni. Il brano successivo è una "Tarantella calabrese", che se volessimo essere pignoli si potrebbe accusare di troppa vicinanza col Salento. Il brano in più di una strofa ricorda Otello Profazio, grande e insuperato ricercatore e divulgatore della tradizione di quella terra e del meridione in genere (un po' disonesto, poco filologico con le fonti e un po' ladruncolo). Il gruppo, come già aveva fatto con la bellissima "Pensieri de nu brigante" nel cd "Focu de paja", ritorna a cantare del brigantaggio, cantando stavolta nei panni di un brigante che sa benissimo di essere braccato ("Braccatu" è il titolo della canzone in questione), ma che trova nell'amore la forza di andare avanti. Musicalmente è una bellissima ballata, tra lo stornello e la canzone d'autore, che potrebbe anche segnare il futuro e la rinascita del canto narrativo, uno di quei generi che l'interesse generalizzato per la pizzica ha fatto restare nel dimenticatoio della storia. Quando torniamo alla tradizione lo facciamo avendo il piacere di sentire "Lu scarparu", incisa dagli Alla Bua nel 1999, da allora uno dei loro cavalli di battaglia, ma, almeno per quanto so io, poco sfruttata dalla riproposta. La versione dei Briganti è semplice e leggera, esplosiva come poche, anche grazie all'etereo ottavino di Stefano Blanco, che veramente fa volare via. Il testo non presenta varianti particolari, non per questo delude. L'ultima traccia è una variazione su "Brigante se more", brano di Eugenio Bennato entrato nella "Koinè" della tradizione meridionale, quella musica che si può eseguire in maniera indifferente ed antifilologica dal basso Lazio alla Sicilia. Fortunatamente non c'è il testo, quindi non mi arrabbio (come non amo il Nord secessionista, non amo quel Sud che si vorrebbe libero da tutto il resto d'Italia e vorrebbe tornare al Regno delle Due Sicilie). Il finale, ancora una volta, rimanda a Fabrizio De Andrè e ad una delle più belle tarantelle di cui la storia della musica italiana si vanta: "Bocca di rosa". Il cd è caldamente consigliato, è acquistabile su Itunes o sul sito della Italian World music di Rosario Maffucci che lo ha prodotto.

giovedì 23 agosto 2012

Inti-Illimani Histórico: Ciclo cooperativa en vivo.

Carissimi lettori, così come ebbi il piacere di recensire il concerto che gli Inti-Illimani dei fratelli Coulon hanno tenuto nel teatro Capolicán per i quarantacinque anni, stasera vi parlo di quello che gli Inti-Illimani Históricos hanno tenuto per la Radio Cooperativa, nel ciclo "Cooperativa en vivo". Purtroppo lo streaming video è spesso interrotto, per noi non vedenti è abbastanza proibito mettere i video in pausa, unica azione che consente un caricamento fluido e quindi un ascolto goduto. Il concerto degli Inti di Salinas (i miei preferiti, anche se il mio sogno, come quello di tutti i veri fan degli Inti è quello di non averli mai visti separati o peggio in lotta tra loro, quelli che veramente hanno formato il VERO Inti-Illimani). Il concerto è iniziato con un gioiello che io non ricordo mai di aver sentito dal vivo, ma che so, per i numerosi contributi che lo testimoniano nel web, che è uno dei brani che Horacio Salinas esegue spesso. Il pezzo, di sua composizione e di ispirazione svedese (io per una vita ho pensato e segretamente ancora lo penso che sia di ispirazione italiana) è "Danza", che il gruppo ripesca da quella miniera d'oro che è "Palimpsesto", album del 1981. Il brano è uno di quegli strumentali complicati, politonali, dove la timbrica degli strumenti etnici viene portata ad eseguire carambole molto colte. Il brano, pur con il violino assente, acquista un gran fascino anche per la presenza della fisarmonica. Fa un pochino di tristezza vedere che la mano di Salinas ha perso forse un po' di smalto, ma la bellezza c'è tutta, anche grazie al charango dell'impagabile e carismatico Horacio Durán. La festa comunque c'è tutta, è un brano da riscoprire, bell'inizio. Arriva il primo brano cantato, che è una grandissima e dimenticata (da noi italiani) "Polo doliente". Dispiace forse un po' (tanto più se ci si è innamorati degli Inti per colpa o merito suo) costatare che la voce di José Seves ha perso un po' di quella limpidezza che la contraddistingueva e che la faceva risuonare come fulmine nelle anime di chi l'apprezzava. Comunque è bella, forse un po' troppo allegra in certi momenti, comkunque sempre "Polo doliente" resta. Fa piacere, ad una vera pianista intillimaniaca, sentire il pianoforte che fa parti paragonabili a quelle che in "Canción para matar una culebra" (1979) furono dell'arpa suonata da Jorge. Andando avanti, sempre da quel gloriosissimo "Canción para matar una culebra" viene la title track che gli históricos eseguono sicuramente con una semplicità convincente ma forse con poca verve. Le parti sono divise tra le voci di Salinas e Seves, il piano qui, per ora, è stato ridotto (se così si può dire parlando di un arrangiatore come Horacio Salinas) a produttore di piccoli momenti onomatopeici nell'introduzione. Comunque è bella, poi a me ricorda moltissime cose, non ultima la nostra uscita di scolaresca elementare che interpretò in maniera molto ossessiva questo "Mayombe bombe mayombe". Horacio Salinas, direttore degli Inti-Illimani Históricos, dopo aver parlato e ironizzato sul fatto che tra un po' ad inizio settembre verranno in Europa per risolverci la crisi, inizia un'esecuzione di un suo brano mozza fiato, tratto iriginariamente dal cd "Andadas", dal titolo "Araucarias". Anche qui si tratta di un bellissimo strumentale, che qui ha visto un utilizzo leggero ma particolare del pianoforte sulle gravi, nonché l'introduzione della fisarmonica (che se non sbaglio esegue una parte originariamente affidata al sacx: bello!). Andando avanti, la voce di José Seves, un po' incrinata ma sempre una delle più belle dell'America Latina, ci propone "Canto de las estrellas", sua composizione dedicata a Víctor Jara (cantautore cileno ammazzato brutalmente dal regime di Pinochet nel settembre del 1973). Il pezzo, che concludeva in maniera assolutamente perfetta "Arriesgaré la piel" del 1996, è molto bello nella versione degli Inti-Illimani Históricos, che portano il finale ad un curioso ritmo di controtempo, dove il pianoforte si diverte a svisare sulle alte, a metà tra un mandolino e certi stili jazz. Sempre bella, dolce, irruenta, come la vita. E continuando gli Inti ci regalano una bellissima e indimenticata "Alturas". Sempre bello ascoltare le sonorità di una chitarra classica con corde di nilon, un charango, una zampoña e un bombo, mentre cesellano questa impareggiabile melodia del grande Salinas. Incredibile è notare come gli accordi complicati che riempiono questo brano, costellato di momenti di solo apparente semplicità, non facciano per niente svanire la festa che dolcemente si fa quando lo si ascolta o lo si esegue. E andando avanti in q uesto momento nostalgico delle atmosfere andine, direttamente estratta dal primo volume di "Canto de pueblos andinos" viene "Papel de plata". Dopo anni dà gusto ascoltare la voce di Horacio Salinas, con il coro di quella di Horacio Durán. Il contrabbasso di Fernando Julio, seppur dona al brano nuove atmosfere rinvigorendo il registro grave, non disturba, idem dicasi per la batteria di Danilo Donoso, che imita perfettamente il suono del pandero (credo si chiami così), percussione andina. (Questo esempio di inclusione razionale della batteria dovrebbe essere seguito da tutti i gruppi italiani che invece la usano in modo dissennato). E facendo un salto di venticinque anni, gli Inti Históricos ci ricordano una traccia del pregevole (ma sconosciutissimo in Italia) "Lejanía". Il disco, credo concepito per il mercato statunitense, raccoglieva in prevalenza brani strumentali, tutti provenienti o ispirati dal folklore andino. In occasione del concerto a "Cooperativa en vivo" gli Inti eseguono una bella "Takakoma". Qui gli strumenti che gli Inti Históricos hanno incorporato alla sonorità del gruppo, d'altronde completamente radicati nella tradizione ad eccezione del pianoforte, dànno un buono e forte contributo alla sonorità del brano. Fa piacere riascoltare il lamento magico della quena (flauto a canna singola), che si mescola con la dolcezza della fisarmonica, a cui risponde l'irruenza (anche se anch'essa dolce) del charango. Belle emozioni, molti ricordi sgorgano come un fiume impetuoso dalla mia anima. Andando avanti, sicuramente aiutati dal fatto che Camilo Salinas oltre che suonare bene la fisarmonica suona bene il pianoforte, gli Inti Históricos riprendono "Palimpsesto", una melodia dove Patricio Manns (poeta e geniale collaboratore degli Inti senza distinzioni da anni) mette un testo politico con aperture alla filosofia e a metafore poco popolari, per evidenziare l'anima colta della catabilità. Molto raramente purtroppo in questa versione si riescono ad intuire i fantastici controcanti della versione del 1981, ma è pur sempre una grande emozione (io come repertorio e modo di suonare preferisco gli Históricos). E si arriva al passato recente degli Históricos con la "Danza negra" tratta da "Travesura", penultimo album del gruppo ed ultimo in studio, che in Italia non è mai arrivato ma si può facilmente comprare tramite Internet anche in cd fisico (tramite www.amazon.it, come ho fatto io!). La versione dal vivo è leggermente meno perfetta di quella da cd, ma è gradevole e ti viene una voglia di ballare che non puoi rigorosamente frenare. José Seves, credo autore del brano, lo guida con un misto di allegria e segreta sensibilità messicana (se sento delle note rotte penso sempre agli stili delle rancheras messicane, più forte di me!). Comunque è bella, viva gli Inti Históricos che hanno dedicato un cd ai bambini senza renderli stupidi, cosa che in Italia non fa ipù nessuno. E arriva Camilo Salinas che, prima del finale del canto, esegue uno dei suoi brevi e folgoranti assoli di piano. E il viaggio dentro travesura continua con quella che da sempre è la mia preferita di tutto il cd, la storica (ma a me sconosciuta "Quinteto del tren"), bella composizione di Luis Advis (quello di "Canto para una semilla" e "Santa María de Iquique", quest'ultimka opera interpretata dai Quilapayún). Bella la parte di fisarmonica, strumento a cui qui tocca fare la parte principale nell'imitazione onomatopeica del treno. Le voci si rincorrono, probabilmente gli Inti sono un pochino stanchi, dovrei essere meno impietosa, comunque è un bel concerto, mi piace sempre come dirige Salinas. ?? Andando avanti gli Inti Históricos ci propongono la "Drume negrita", un classico della musica afroamericana (le influenze africane hanno toccato tutto il nord e il centro America). Il brano nelle mani degli Inti una ninna nanna che senza minacce ricorda comunque al bambino che se non dorme il suo destino potrebbe riservargli brutte sorprese. Rispetto alla versione del disco si sente la mancanza del flauto traverso, che con la sua monumentale dolcezza dà, forse come nessuno strumento, idea di atmosfere notturne. Dopo aver lasciato gli Inti senza distinzioni Horacio Salinas incise alcuni cd da solista, da uno di questi, dal titolo "Remos en el agua", viene ripresa in "Travesura" nonché nel concerto che ci interessa, "Mi papá y mi mamá". Bel brano, che nella prima parte, doves i descrive il padre, è dolce. Quando si parla della madre la dolcezza cede spazio ad un ritmo binario che potrebbe anche essere paragonato ad un swing, anche grazie alla bella ritmicità del piano di Camilo Salinas. Salinas e Seves si divertono anche in una specie di scat nel finalino, bel momento anche questo. Gli Inti, lasciando "Travesura", riprendono tra le mani il loro precedente lavoro "Esencial", da cui estraggono "Llanto de luna", bolero strappatutto che il gruppo affida, come no, alla voce di José Seves, che da sempre ha dimsotrato di possedere ed euqilibrare dolcezza e potenza, le due virtù principali per cantare bolero. Il pianoforte di Camilo, e signori sa suonare è innegabile, si fa sentire in tutta la sua cantabilità, facendo leggere ma ben fatte variazioni sul brano, forse più adatte ad un brano di salsa, ma comunque fortemente compatibili anche qui. Ed eccoci alla mia preferita di tutto il repertorio degli Inti, quella benedetta "Medianoche" che me li fece scoprire ormai sedici anni fa. Qui sicuramente la si sente cantata meglio rispetto al concerto degli Inti-Coulon, poi va detto che amo moltissimo i boleros col pianoforte. Forse solo poche volte il canto di José Seves raggiunge quella potenza tremenda che me la fa amare tanto in "Arriesgaré la piel" (1996), ma è bella e forte. Ed eccoci all'assolo rituale, qui interpretato dal pianoforte, che almeno in questa prima parte si limita, se non in brevi momenti, ad esporre il tema. Il secondo assolo, più libero, è della chitarra di Horacio Salinas, mentre il suo posto viene brevemente preso dal pianoforte (padre e figlio dialogano tra lroo...). José canta il testo quasi con dolcezza e sopraffatto dal dolore per la fine di un amore che il protagonista non avrebbe voluto mai veder finire. Continuando si interpreta "Vuelvo", altro classicone del repertorio degli Inti, scritto da José Seves, e tratto da quella fucian di brani indimenticabili che è il giàripetutamente citato "Canción para matar una culebra" del 1979. La cosa più sconvolgente è forse che il pianoforte interpreta le parti che furono dle tiple (anche se i due strumenti sono compatibili e perfino facilmente intercambiabili). Gli Inti-Illimani históricos continuano (e credo concludono) il loro concerto a "Radio coperativa en vivo" con "El mercado de Testaccio", altro gioiello tratto da "Palimpsesto", questa volta indubbiamente di ispirazione italiana. Molto bella, sembra di sentire un misto tra gli Inti e una banda paesana delle nostre, anche senza i fiati. L'italianità è rappresentata da una bella fisarmonica, che permette anche l'esecuzione di bei ghirigori molto difficili da eseguire con gli strumenti latino-americani. Il brano, per chi non lo conoscesse, è un semplice tempo binario, con innesti di controtempi che non disturbano minimamente. Nell'insieme è un bel concerto, il mio sogno, come ho già detto sopra, è quelo di una reunion ufficiale tra i VERI Inti-Illimani.

lunedì 13 agosto 2012

Sono anche su Twitter

Carissimi lettori, un'altra piccola comunicazione di servizio. Mi sono iscritta anche a Twitter, scrivo delle "parole in libertà" prevalentemente sulla musica popolare. Chi volesse vedere questo dovrà andare su www.twitter.com e digitare Valentina Locchi.

venerdì 10 agosto 2012

Qualche parola sui quarantacinque anni degli Inti

Carissimi lettori, oggi provo a recensire il concerto che gli Inti-Illimani hanno tenuto per festeggiare i quarantacinque anni di carriera. Il concerto è stato trasmesso da Radio 1 música chilena (www.radio1chile.cl), lo streaming è stato messo a disposizione di tutti da Discoteca Nacional Chile (www.discotecanacionalchile.blogspot.com) e a noi italiani la sua esistenza è stata segnalata da quell'impagabile segugio che è Stefano Abulqasim, direttore del blog Una finestra aperta, reperibile all'indirizzo www.intiabul.wordpress.com. Il concerto si è aperto con "Sobre tu playa", brano scritto da Manuel Meriño, attuale direttore del gruppo, credo su testo di Patricio Manns. La canzone è stata interpretata da Efren Viera, estroso membro cubano degli Inti, con più verve spettacolare che perfezione canora (musicalmente è un mostro su tutto ciò che suona...). Dopo si è avuto il piacere di ascoltare una bellissima "Bailando bailando", brano risalente agli anni Ottanta, all'album "De canto y baile" del 1986. Il brano purtroppo non è stato eseguito perfettamente, i flauti stonicchiavano! Subito dopo si è avuta una "Candidos" abbastanza buona, ottimo il ritmo di cajón peruviano. Il brano è stato scritto da José Seves, ispirato dalla lettura de "L'autunno del patriarca" di Gabriel García Márquez, siamo ormai negli ultimi anni d'esilio del gruppo. Subito dopo si è avuta una "Longuita" fantastica, con la sorpresa dell'inserimento del violino, che il gruppo ha usato solo in maniera sporadica sino al 1999, anno dell'entrata di Daniel Cantillana, violinista classico. Subito dopo si ascolta una "Malagueña", tratta da "Lugares comunes", che interpretano rimpallandosi le strofe Jorge Coulon (unico membro fondatore rimasto negli Inti) e Cristián "El buho" González. Il brano è un huapango messicano che i cileni riprendono dal repertorio del notevole gruppo Los folkloristas". Ora insieme agli Inti sta suonando Alexis Venegas, che sta suonando tre cuecas cilene di sua composizione. I brani sono strani, molto sviluppati, gli Inti dànno un tocco etnico, portano però rispetto alla creatività armonica del musicista, che mai fa smettere di battere la tradizione (imparate musicisti italiani di musica etnica e simili!). Ora Alexis Venegas sta eseguendo una versione di "Juanito Laguna remonta un barrilete", che è leggermente troppo lenta ed elaborata. Il brano, in questa parte è portato verso ritmi di ballata, che non concedono nessun tipo di spazio alla Zamba argentina a cui si rifà originariamente il brano, ripreso dagli Inti dopo il loro primo viaggio in Argentina alla fine degli anni '60 (lo aveva inciso Mercedes Sosa). La seconda parte, quella interpretata dal gruppo, è sicuramente migliore ma vi sono i soliti problemi con gli strumenti e anche con la vocalità! Gli Inti eseguono "El mercado de Testaccio" (brano di Horacio Salinas di ispirazione italiana, tratto da quell'opera suprema che è "Palimpsesto" del 1981, da cui avevamo già ascoltato "La fiesta de la tirana", bella versione ma lontana dalla perfezione). Qui addirittura qualcuno s'è perso, che figura! Comunque dà da riflettere il fatto che i cileni all'attacco di questa canzone delirano, la sentono propria, mentre noi, forse, se la suonassero ancora, non saremmo che freddi (che peccato!). E gli Inti tornano a tirare fuori gioielli da "Lugares comunes" (ultimo disco veramente bello da loro inciso!). La poesia "Tú no te irás" è di Rafael Alberti ed è dedicata all'Aniene, suo luogo degli ultimi anni d'esilio, quando voleva già essere più vicino alla sua patria. La musica di Meriño ha forti tinte afroperuviane, è un bellissimo valzer peruviano. Ed arriva Joe Vasconcellos, preceduto da un musicista brasiliano che ha fatto gli auguri agli Inti in portoghese (stupendo). Ora si sta cantando una canzone dedicata alla donna, a metà tra la tenerezza e la denuncia delle situazioni ingiuste dove la donna è ancora coinvolta. Il brano ha quella poesia che la musica di protesta italiana ha perso da un pezzo. Nelle mani degli Inti il brano diventa una bellissima ballata andina, fa piacere ascoltare questa orchestrazione latina, che gli Inti hanno insegnato al mondo, mostrandoci un Sud America unito e senza frontiere. E così si torna al repertorio dei nostri amici, riprendendo a saccheggiare "De canto y baile" (e come no!). Il brano che si esegue è un bello valzerino scritto DA Nicolás Guillén per il testo e da Horacio Salinas (il geniale direttore degli Inti dal 1967 al 2001). La versione che ascoltiamo è festosissima, coinvolgentissima, forse solo un pochino "intiepidita" rispetto alla prassi degli Inti del passato (anche quelli che ho potuto vedere qui a Perugia diverse volte!). E nello stesso brano si passa a "El carnaval", composizione strumentale dello stesso Salinas, che da ormai anni prevede l'inserimento del violino. Sempre bella e festosa, con la sua fusione di elementi andini e afroperuviani, suonandola si fa visita ad un bel cd inciso con Paco Peña (chitarrista flamenco) e John Williams (chitarrista classico inglese) dal titolo "Fragments of a dream". Bellissimo il duetto-duello tra le congas e il cajón peruano, due anime africane d'America. Nella versione originale c'è un interessante finale andino che il gruppo ha sempre snobbato nei concerti (purtroppo!). Continuando si omaggia Víctor Jara, musicista cileno grande vittima della ferocia della tirannia di Pinochet (fu deportato allo Estadio Chile, che oggi porta il suo nome, e lì tenuto cinque giorni e torturato). Gli Inti interpretano "Charagua", brano che il musicista aveva composto come sigla delle trasmissioni della televisione cilena (si ascoltava durante il governo della Unidad Popular di Salvador Allende, durato dal 1970 al 1973). Continuando l'omaggio a Víctor Jara il gruppo interpreta "A Luis Emilio Recabarren", canzone che era stata pubblicata in Italia nel vinile "Chile resistencia", raro gioiello di politica, poesia e maturità (credo che da noi "Charagua" non sia mai arrivata, si trova in "Antologia en vivo", un disco che ripercorreva trentacinque anni di concerti, risalente al 2002). La versione dell'attuale gruppo è molto buona dal punto di vista musicale, abbastanza deludente da quello vocale (le stonature non si contano!). Con Luís Lebert di Santiago Del Nuevo Extremo (noto gruppo rock cileno) gli Inti eseguono "El aparecido", classico di Víctor Jara, che nelle mani del cantante rock diventa quasi ballata folk-rock, interessante ma siamo lontani dalla perfezione. Anche qui, come in "Juanito Laguna", la seconda parte è portata allo stile normale degli Inti, è curioso ascoltare il violino in questo pezzo, nonché il sassofono soprano. Bella ma forse una maggiore cura nel suono non ci sarebbe stata male. E ora, per scambio, insieme agli Inti, Lebert sta interpretando "A mi ciudad", una canzone molto bella, un appello alla comunicazione vera e sanguigna, dedicato a Santiago da Lebert, ma sicuramente estendibile a qualsiasi città del mondo. Nelle mani degli Inti il brano diventa un pezzo dalle tinte varie, forse più afroperuviano che andino (non sono una cima per la distinzione tra i vari ritmi latino-americani...). E dopo aver cantato Santiago, quando gli Inti tornano soli eseguono il "Tema d'amore" di "Nuovo cinema Paradiso" (perché nonostante il non aver vissuto l'esilio, anche i giovani sentono l'Italia come un mondo proprio). La versione è molto concreta e scarna, solo una chitarra, un mandolino e un clarinetto. Il brano si trovava in un disco, oltretutto caldamente consigliato già che ne abbiamo l'occasione, dal titolo "Treinta años en vivo, Viva Italia". Oltretutto il cd in questione veniva allegato ad un librettino dallo stesso titolo dove gli Inti di vecchia generazione, coloro che avevano vissuto l'esilio in Italia, ne ricordavano momenti diversi con grande tenerezza (bella anche la lettura che ne venne fatta da Horacio Durán all'interno della rubrica "Storyville" di Fahreneit di Radio 3 Rai). E gli Inti continuano il concerto interpretando "El surco", brano che vede la partecipazione di un sassofonista dalla forte estrazione jazz-punk, cosa che però non fa male, anzi fa quasi piacere. L'incisione originale di questo brano degli Inti si trova in "Lugares comunes", cd pubblicato in Italia dalla Storie di note (grande etichetta indipendente che ha il coraggio di dare voce a persone che altrimenti entrerebbero molto difficilmente nella vita di un ascoltatore attuale di musica, è il caso di Claudio Lolli). E gli Inti continuano con "A la caza del Nandu", brano ancora una volta estratto da "Lugares comunes" (notare come manchino riferimenti sia a "Meridiano" che a "Pequeño mundo". Il brano, scritto da Manuel Meriño è concepito come un omaggio a Francisco Coloane, scrittore cileno. La melodia è molto elaborata, è lontana la semplicità di Salinas. Nella seconda esposizione del tema in la minore torna il sassofono contralto, stavolta con tinte inequivocabilmente punk. Devo dire che è azzeccato, porta respiri nuovi ma coerenti. Il sassofonista è Andrés Perez. E ahi! Gli Inti stanno interpretando la mia canzone preferita del loro repertorio, quella che me li fece scoprire ormai sedici anni fa, solo che me la sta cantando Daniel Cantillana e non ce la fa! Il brano di cui parlo è "Medianoche", che gli Inti avevano incluso in un bellissimo cd dal titolo "Arriesgaré la piel", che fu il primo disco del gruppo che comprai con la coscienza di ciò che stavo facendo, riportando gli Inti in una casa che ne aveva perso le tracce da ormai vent'anni (i miei, come mezza Italia, si erano fermati a "Chile resistencia"). La versione è molto bella, ma solo dal punto di vista strumentale, difatti, secondo me, per cantare il bolero cubano si ha bisogno di una voce potente (e ce l'ha Seves, voce storica del brano, Cantillana purtroppo no!) Gli Inti continuano con "Vino del mar", brano che Patricio Manns (poeta, scrittore e cantautore cileno) dedicò a marta Ugarte, sindacalista cilena le cui ceneri furono buttate in mare ma da questo furono gentilmente restituite alla gente. La versione non ha l'aiuto del quartetto d'archi, che contribuiva moltissimo alla sua bellezza, il flauto prova a dare quelle atmosfere ma non ce la fa (e le voci continuano ad essere l'aspetto più deludente di questo concerto, ahi che male fa!). C'è stata l'ultima strofa a cappella, poi il brano si è completato strumentale. Gli Inti vanno avanti, in questo viaggio nel tempo, con un brano che per i cileni è quasi una bandiera. La canzone si chiama "Vuelvo" e fu scritta da Patricio Manns e Horacio Salinas dieci anni prima della fine della dittatura. Il pubblico l'ha cantata, emozionante davvero. Gli Inti hanno ricevuto il disco d'oro (vinile d'oro?) per le vendite di "Pequeño mundo", dopodiché si è iniziato a sentire alcune note di "Canto para una semilla" ("Canto per un seme"), opera tra popolare e colto basata sulle "décimas" (composizioni su strofe di dieci versi) con cui la cantautrice Violeta Parra (1917-1967) ha raccontato la propria vita. Gli Inti incisero almeno due volte questa opera (nel 1972 con Carmen Bunster che recitava e collegava le canzoni, nel 1978 con l'insuperabile recitazione di Edmonda Aldini in versione italiana). Isabel Parra è stata sempre l'incaricata di cantare le parti principali di molti brani di questo disco, e anche questa volta la commoventissima "El amor" è stata cantata dalla gloriosa cantante cilena. Isabel non ha più quella voce così dolce che mi aveva folgorato quando ascoltai alcuni suoi vinili ("Encuentro" e "Vientos del pueblo), ma tutt'ora è una signora cantante. E con la giusta rivendicazione della paternità della melodia, Isabel Parra interpreta "Lo que más quiero". Sicuramente, come sempre quando i brani vengono cambiati di tonalità per favorire l'ospite, gli Inti non dànno il massimo. Comunque emoziona moltissimo riascoltare la voce di Isabel. E si continua con un altro invitato (che ancora non so chi è...). Il brano che si canta è "Negra presuntuosa", un brano peruviano che gli Inti avevano inciso in quell'altro gioiello meraviglioso della loro discografia che è "Amar de nuevo", che io ebbi in anteprima rispetto all'edizione italiana, quando vidi gli Inti nel 1999 a Bastia (e chi se lo scorda). Fa strano sentire questi leggeri tocchi di zampoña, ma non dà fastidio, anzi! Notevoli gli assoli di Meriño. L'invitato è Nano Stern, un giovane cileno dalla voce potente e roca, un timbro molto strano. Ora Nano Stern sta interpretando una canzone veramente bella, un testo dedicato ad un amore da cui si viene lasciati, o forse a qualcuno che se ne va e per cui non abbiamo fatto abbastanza. Meraviglioso è il sinuoso accordo di mi minore che non dà però il tempo di essere tristi, anzi, io per qualche secondo ho dovuto smettere di scrivere, non si sta fermi! Gli Illapu, notevole gruppo di musica andina nato nel 1972, è salito sul palco con gli Inti e ora insieme stanno interpretando "La partida" di Víctor Jara. Spettacolare, bellissime le zampoñas gravi. Durante questa interpretazione de "La partida" si trova il tempo per accennare a "Calambito temucano", brano di Violeta Parra, che impreziosiva, insieme a "La partida" la track list di uno dei più importanti dischi degli Inti, "La nueva canción chilena" del 1974. Lo stile degli Illapu è un bell'esempio di uso razionale della batteria (dovrebbe essere seguito da un sacco di gruppi salentini...). E andando verso la tradizione andina si interpreta, credo sempre insieme agli Illapu, "Señora chichera", un altro di quei brani che anche noi italiani amiamo molto e ci ricordiamo con più amore. Interessante l'intervento del sassofono, che ricorda gli impagabili assoli che Renato Freyggang eseguiva su questo brano circa una quindicina di anni fa. La canzone ha avuto la particolarità di essere eseguita in due tonalità (credo sol minore e la minore) per permettere ad ogni gruppo di interpretarla secondo la propria sensibilità. E dopo la festa c'è un momento di commozione (perfino io, che non ho mai nascosto di non amare questa canzone ho cantato la prima metà con le lacrime agli occhi e ora mi sto imponendo di scrivere e descrivere ciò che sento). Gli Inti interpretano, in maniera lenta e sofferta, come avviene ormai da moltissimo tempo (sicuramente da quando li seguo io ma forse anche da prima) "El pueblo unido jamás será vencido". Bella interpretazione, non da canto di lotta, ma da chi si è forse usurato ma continua comunque faticosamente a lottare. E gli Inti interpretano "La exiliada del sur", altro brano estratto da "La nueva canción chilena" del 1974. La canzone di Violeta Parra viene interpretata dagli Inti con Manuel García, devo dire molto bene, anche perché la voce di García è particolarmente adatta a questo brano. Ed ora, come sempre, gli Inti accompagnano Manuel García in un brano del suo repertorio. Non so perché ma la melodia mi ricorda moltissimo Silvio Rodríguez, grandissimo esponente della Nueva Trova Cubana, in qqualche modo l'equivalente della Nueva canción chilena per l'isola. Se la dovessi descrivere dovrei parlare di una ballata un po' alla statunitense, dove il tiple viene sfidato a trovare una percussività che solo raramente gli scopriresti in condizioni normali. Molto curiosa, bellissimo testo su un amore finito nell'incomunicabilità. Ed eccoli i brani di "Pequeño mundo", si esegue "Rondombe", strumentale alla Meriño molto complicato e pieno di riferimenti colti. Curioso è l'assolo di batteria (ancora non so di chi), che ha dialogato con le congas. Il batterista era Sidney Da Silva, batterista degli Illapu. Andando avanti si continua ad estrarre gioielli da "Pequeño mundo" (il disco a me non piace ma qualcosa di veramente bello c'è!). Gli Inti ci interpretano "La tarde se ha puesto triste", bellissimo son cubano, la voce di Juan Flores è qualcosa di veramente bello. Bello anche l'assolo in cui ora stiamo sentendo il piccolo, il flauto ottavino. Il pubblico è in piedi, gli Inti stanno credo ora fuori dal palco, sono tornati Manuel García e Nano Stern, che succede non lo so. Dopo aver eseguito un giro di blues, Nano Stern sta eseguendo una versione di "Samba Lando" che per ora è un po' troppo lenta per i miei gusti (e anche troppi vocalizzi, sempre per i miei gusti!). Quando canta Manuel García la situazione sicuramente straipermigliora. Ed ecco gli Inti, ringraziamo Dio! Meravigliosi gli assoli di Meriño, che questa volta esegue gli stili latino-americani in modo più che puro. Fa piacere risentire la voce di Juan Flores, che si prende la terza strofa di questa bellissima canzone antirazzista tratta da "Canción para matar una culebra", gioiello della discografia degli Inti del 1979. Gli Inti e Nano Stern continuano la scaletta con un commovente inedito intitolato "La siembra", a ritmo di chacarera argentina. Il testo è molto bello, si parla della memoria e del fatto che i popoli non dimenticano le proprie tragedie né restano fermi di fronte alle sfide e alle ingiustizie. E si continua con "La fiesta de San Benito", un brano che Meriño si è divertito largamente a arricchire (e rovinare secondo me). Nonostante ciò si fa tanta tantissima fiesta, soprattutto quando entrano le quenas e quel refrain così cantabile che noi italiani intillimaniaci ancora ce lo ricordiamo. Fa piacere sentire il bel violino di Cantillana, che ricorda in molti casi i gruppi andini boliviani. E torna Andrés Perez, che fa un assolo dei suoi e grida con il suo sassofono contralto. Secondo me qui ci sono anche gli Illapu, quantomeno Sidney da Silva ha fatto la sua apparizione. Bel concerto, emozionante, festoso, bei ripescaggi di capolavori, interessante sguardo al futuro.

mercoledì 8 agosto 2012

Alla Bua live 2012

Carissimi lettori, in attesa spasmodica di recensire il concerto che gli Inti-Illimani hanno tenuto per i loro quarantacinque anni di carriera, recensisco il nuovo cd degli Alla Bua. Il cd, dal vivo, ha come curiosità principale, quella di riprendere molti brani della tradizione salentina già incisi dal gruppo con formazioni completamente diverse dall'attuale. Sin dall'inizio i fan di vecchia data (tra cui mi conto nonostante tutto) sono sconvolti (e forse anche un po' spiazzati) dal sentire la chitarra di Marti che esegue la mitica introduzione che nel cd da studio ("Alla Bua" del 2002) era appannaggio di Pierpaolo Sicuro (indimenticato flautista degli Alla Bua!). Sin da subito si ha il piacere di costatare la grande maturità a cui è giunta la voce di Irene Toma, seppure è facile sentirla un po' troppo moderna per questa musica (ma sono particolari molto relativi). Quello che sconvolge è la bravura musicale degli Alla Bua,che non si limitano a sterili giri di pizzica tarantata, ma inventano senza sconti per i ballerini o per i musicisti da strapazzo. Basta sentire la lunga chiusa del violino di Michele Calojuri, virtuoso che da un anno circa ha riportato il violino tra gli strumenti utilizzati dal gruppo leccese. La seconda traccia del cd è un brano che io personalmente connoto molto con il repertorio di Otello Profazio, grande cantastorie calabrese che, però, ha sempre dimostrato una grandissima affinità con la cultura salentina. La versione degli Alla Bua è forse un po' troppo ironica, ma non le si può negare di tradurre in maniera fortemente personale il raccoglimento che il contadino in fondo si impone per piangere la morte del suo vero sostegno. Il terzo brano è un classico della tradizione salentina, la pizzica (perché questa è la versione che ne eseugono gli Alla Bua) "Quant'ave". Rispetto alla versione precedente (incias dal gruppo in "Limamo", fondamentale e insuperato cd del 2004) c'è la parte delle minacce proferite dall'uomo alla donna che lo tradisce. Meravigliosa la parte strumentale che va in su di un tono (da sol a la), per acquistare un impeto che pochi gruppi salentini possono vantare. Anche qu i si sente il grido di venditore ambul ante che aveva dato a Gigi Toma (leader e memoria storica del gruppo) ilmotto per il titolo del cd "Limamo". Il brano è una tempesta come tutti i concerti degli Alla Bua. E si continua andandoancora più a ritroso nel repertorio del gruppo, rirpendendo "Lu scarparu", che dal vivo diventa sempre una tarantelluccia coinvolgente (anche se purtroppo, forse per la formazione non tradizionale di Marti) diventa spesso pretesto per fughe troppo rock (e questo è un peccataccio!). Qua ndo è la fisarmonica a fare da traino si respirano sicuramente atmosfere più folk, in qualche senso anche vicine al liscio, genere con cui è molto naturale contaminare la musica meridionale, perché questa è la vera musica nazionale italiana (i valzer, le polke e le mazzurche e non solo questi balli si suonavano indistintamente dal nord a sud!). La tarantella è coinvolgente e festosa. anche grazie alle continue grida di Fiore (carismatico e ormai storico tamburellista del gruppo). L'unico momento deludente di questo cd è la prima parte di questo pezzo, perché per eseguire "Lu rusciu de lu mare" in versione mediterranea civogliono voci adatte (e gli Alla non le hanno, sono il più grande gruppo sulle pizziche e tarantelle, ma sul resto...). Bello è sentire il pubblico cantare, e ancora migliore è che il gruppo si sia redento dall'idea, avuta l'anno scorso, di eseguire il brano completamente mediterraneo. La parte a pizzica, cantata da Irene Toma come prima lo fu da "Mavi" Antonazzo, è sicuramente infinitamente più riuscita. Vorticosi e leggerissimi gli assoli della fisarmonica di FrancescoColuccia, che è letteralmente impazzita! Curiosissimo (e positivissimo) l'arricchimento armonico che porta all'aggiunta di un sibemolle ed un la minroe al tipico giro di tonica e sottotonica che ha reso celebre questa versione e tutte quelle che vi si ispirano. Gli Alla Bua continuano questo concerto con un caratteristico e buon arrangiamento de "La cesarina", che era già nella track list di uno degli ultimi album del gruppo. La "battuta" canora è affidata a Dario Marti, che pur cantandosenza i pur fondamentali melismi mediterranei, riesce a rendere in maniera molto bella la tristezza dello sfogo del carcerato. Anche gli strumenti melodici, violino e fisarmonica, pur svisando nell'inconfondibile stile Alla Bua, hanno pudore di farsi sentire. Si continua con "'Acaddhrina", brano che gli Alla Bua riprendono dal repertorio di Cesare Monte, esponente di spicco del cosiddetto "folk leccese", genere che consiste nell'applicare gli stilemi del "nuovo liscio" (quello da Casadei in poi) alla musica popolare salentina, una tragedia totale si intende! Il pubblico è invitato a cantare i finali di strofa (e a Strudà l'anno scorso cantavo anche io nonostante la mia proverbiale afonia di quella settimana). E come per associazione il gruppo riprende questa molto meno nota "Azzite mamma" (che il gruppo chiama "Lu capone"). La melodia è quella spesso nota come "T'amai" e le strofe sono quelle che fanno parte, in mezzo a tante altre di tematica varia, della "Ninella de Calimera" cantata dagli Ucci a Luigi Chiriatti per "Bona sera a quista casa". Continuando si arriva forse al brano più forte di tutto il cd (non è il più bello, per quello bisogna arrivare alla fine, almeno per me!). Si riprende, modificandola e rendendola forse meno particolare dal punto di vista testuale, "Santu Paulu", pizzica alla Luigi Stifani incisa su "Stella lucente". Sin dall'inizio si impazzisce per andare dietro ai virtuosismi sia di Coluccia (fisarmonicista) che di Calojuri (violinista). Mai si sente il giro alla Stifani, solo la melodia ricorda il musicista neretino, gli interventi strumentali sono tutti in puro stile Alla Bua, molto veloci e lunghi. Mai si arriva alla ripetizione spasmodica di note particolari, prediligendo sequenze veloci, che permettono di mantenere una grande leggerezza, anche se il veleno della pizzica ti viene fortemente iniettato (e secondo me la pizzica deve contemporaneamente mettere e togliere il veleno dall'anima, è una mia convinzione bislacca su cui però quasi probabilmente nessuno mi farà retrocedere!). Molto bello il salto da la a do, che porta a quei dialoghi serrati così tipici dello stile Alla Bua (quando erano a tre anche col flauto di Sicuro toccavo il cielo con un dito!). Il brano, per il forte attaccamento alla tradizione, secondo la quale il cambiamento di tonalità affievolisce l'effetto curativo, il gruppo torna in la per un giro sfianca ballerini e imitatori da strapazzo! E forse prima mi ero sbagliata,definendo l'inizio de "Lu rusciu" come il momento più deludente del disco. Non avevo fatto i conti con "Kalinitta", momento per me di grandissima delusione ad ogni concerto di musica salentina. Eccezione? Gli Zoè! Gli Alla Bua, che affidano il brano a Dario Marti per la sua condizione di gricofono, ne fanno una versione completamente festosa, mentre basta leggere una qualsiasi traduzione per rendersi conto che il brano è tristissimo perché il protagonista dimostra la propria delusione nei confronti dell'indifferenza della donna amata al proprio amore. Musicalmente è bella ma è completamente decontestualizzata (e non mi venite a dire che tanto su un palco non si rispetta la tradizione quindi è tutto lecito, le emozioni sono sempre emozioni e vanno trasmesse per quello che sono. Il pubblico non va solo accontentato, ogni tanto va anche educato, cosa che i gruppi salentini si scordano di fare!). Fortunatamente l'ultima traccia è la più bella e toccante, è un "Santu Lazzaru", tipico canto di Questua di tradizione prevalentemente grica, seppure è cantato in dialetto romanzo. Gli Alla Bua in questo caso vengono presi in acustico, dànno davvero un esempio di attaccamento alla verità contestuale molto grande (questi momenti non perdonano a nessuno i propri momenti di onestà mancante!). La melodia può essere considerata una variante di quella raccolta da Alan Lomax negli anni Cinquanta, quindi è diversa da quella degli Ucci (questa è in minore, quella dei cutrofianesi è in maggiore). Nel complesso è un bellissimo cd, lo consiglio a tutti ma soprattutto ai suonatori da strapazzo per darsi una bella calmatina!

giovedì 2 agosto 2012

Setamoneta: "La luna" (Radicimusic records)

Carissimi lettori, sono particolarmente contenta di aggiornare questo blog, parlando dell'ultimo cd dei Setamoneta, valente gruppo toscano di cui fanno parte, oltre alle due voci di Cosetta Batignani e Claudio Bigliazzi, anche Michela Fracassi al violino, Massimiliano Giannelli alla fisarmonica, Stefano Tartaglia ai flauti e Silvio Trotta ai plettri (questi ultimi anche membri fondatori dei Musicanti Del Piccolo Borgo). Il brano d'apertura è un valzer che, dietro la gaiezza quasi da liscio, nasconde una grande tristezza, caratteristica tipica di molte strofe e ballate popolari. Dopo aver raccontato la storia di un brigante e di un suo incontro con una bella ragazza, il gruppo canta alcune strofe d'inneggiamento a Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti, anarchici ingiustamente mandati a morte in America. Il folk toscano, come folk vivo che è senza riproposte forzate, dimostra col secondo brano scelto dai Setamoneta, gran perspicacia tra l'astronomico, il vezzoso ed il romantico. La ballata, anche grazie alla chitarra acustica di Trotta, acquista un bellissimo sapore irlandese che si confà alle voci, che così possono sprigionare tutta la loro proverbiale dolcezza. La terza traccia è "Le tre sorelle", in una versione a saltarello dove la chitarra battente di Trotta dimostra la sua ritmicità che sfianca qualsiasi ballerino. Il brano è in una versione dove c'è molta più audacia rispetto a quella salentina interpretata tradizionalmente dagli Ucci di Cutrofiano (LE) ed oggi ripresa tra gli altri dal Canzoniere Grecanico Salentino in "Serenata" (2002, Salento altra musica). La quarta traccia è una ninna nanna senese, che inizialmente ricorda una delle ninne nanne raccolte da Ernesto De Martino nel Salento, esattamente quella che inizia: "Ninna nanna piccinnu miu...". La ninna nanna senese ha però risvolti sociali, dato che ricorda la povertà della civiltà contadina e la denuncia. La traccia successiva sono degli stornelli. Inizialmente si sente l'inconfondibile voce del cantore e ricercatore fiorentino Riccardo Marasco, che esegue degli stornelli solistici e virtuosistici, poi invece Claudio Bigliazzi e Cosetta Batignani si lasciano andare a strofette a dispetto anche piccantine. Mette veramente allegria, da godere. Andando avanti Cosetta Batignani interpreta quella che è forse la canzone più conosciuta del folklore toscano, quella "Maremma amara" interpretata come nessuno da Caterina Bueno, la "raccattatrice di canzoni", ma cantata anche da Amália Rodrigues nel suo pregevole e rarissimo "A una terra che amo". La versione dei Setamoneta, pur di evitare il confronto, forse si lascia troppo andare a livello d'arrangiamenti, è forse troppo veloce, per adesso è l'unico brano che mi lascia fredda. Il brano successivo è un bel valzerino, con quella leggerezza che ha il vecchio liscio, repertorio veramente nazionale, rivalutato però solo da chi ricerca davvero, lasciato da parte soprattutto nel Sud, per quel mito che il meridione è solo tarantella e pizzica (e non è così!: chi lo capirà e quando?). Il brano, dal titolo "Cesare bon bon" è ancora una volta un giochino di quelli popolari che fa fare festa. Qui si ricorda il disonore che era, soprattutto per le donne, il rimanere nubili. Le atmosfere irlandesi tornano in "La strada nel bosco", ballata dal testo breve e strutturato per associazioni di concetti, questa semplicità ci dovrebbe illuminare. Ed eccoci ad un altro classico del folklore, "La mamma di Rosina", interpretato tra gli altri anche dai Girasoli, noto gruppo di liscio (perché le vere orchestre fanno anche folklore, non solo canzoni di loro composizione o peggio cover di insopportabile pop!). La versione dei Setamoneta è raffinata, ma non perde allegria. È la storia di Rosina che, pur di scappare con il mugnaio infrange i divieti (ma ci tiene all'onore quando lui vorrebbe farci qualcosa di troppo!). Il brano successivo è "Volta la carta", scioglilingua da cui Fabrizio De Andrè ha tratto ispirazione per la sua bellissima canzone omonima. Lo scioglilingua è accompagnato dal bell'arpeggio di Trotta sulla acustica, mentre quando Tartaglia entra con un flautino alto, l'arpeggio si cambia in un bel valzer. Il brano successivo è "Quando io guardo te", una bella ballata dove due persone si confessano candidamente il loro amore. La ballata è accompagnata dalla battente di Trotta che diventa una specie di clavicembalo ritmico, con il tocco che ha ormai fatto del musicista molisano uno dei più sensibili esponenti della continuazione ed innovazione dell'arte di questo strumento. Interessante anche l'arpeggio di chitarra classica. E come in ogni buon brano lento, anche in "Ninna nanna della luna", torna il solito, ma sempre gradevole, odore a Irlanda che caratterizza lo stile di Trotta e di tutti i suoi arrangiamenti. È un cd fantastico, lo consiglio a tutti. Si acquista (attualmente non è più disponibile) su www.radicimusicrecords.com. Buon ascolto!

sabato 28 luglio 2012

Un paio di comunicazioni

Carissimi lettori, nel post col quale vi annunciavo di poter finalmente rispondere ai vostri eventuali commenti, vi avevo laconicamente accennato di una mia avventura virtuale che all'epoca era poco più di un sogno ma che, da ormai tre giorni è nata. Mi riferisco alla web radio Pizzica e dintorni, dedicata alle autoproduzioni del Centro-Sud Italia, registrate modernamente ma suonate con strumenti tradizionali. Mi sono divertita ad archiviare per intero i dischi della mia collezione che avessero le caratteristiche sopra descritte ed è venuta fuori una playlist di trecento brani, in verità divisa in due parti, "Salento" e "Altro", dato che delle altre regioni ho (e credo purtroppo si possa trovare) poco materiale autoprodotto, quantomeno qui. Non va dimenticato, scusate l'appunto polemico, che nonostante i numerosi meridionali Perugia non è assolutamente recettiva dal punto di vista del mercato, se non ad un certo gruppo (e chi conosce sa di chi parlo). Comunque provate a viaggiare, che il viaggio è pur sempre bello! Chi mi volesse cercare su Facebook digiti Valentina Locchi e mi troverà senza problemi. Mi dispiace un sacco che non posso permettermi di modificare il mio profilo su Youtube con il link alla "creaturina", spero che questo post attizzi comunque la vostra curiosità.

Un paio di comunicazioni

Un paio di comunicazioni

mercoledì 25 luglio 2012

Briganti di Terra d'Otranto: "Focu de paja"

Carissimi lettori, oggi sono particolarmente felice di aggiornare questo blog, per una recensione inaspettata, quella del cd "Focu de paja" dei Briganti di Terra d'Otranto. Il cd comincia con un brano che io personalmente non ho mai amato, in questo annetto di conoscienza dei Briganti, da me scoperti tramite Youtube (vi ricordo il loro canale www.youtube.com/brigantichannel). Il brano si chiama "Zumpa", è una tarantella con interessanti venature irlandesi, sottolineate dal violino che in questo cd ha una parte predominante, mentre dal vivo è sfidato da vicino dai flauti di Stefano Blanco. Quello che non mi convince è il testo, lo trovo abbastanza banale e anche un po' qualunquista, con quella filosofia che la pizzica redime da tutto e quindi stiamo bene. Fortunatamente il cd si riprende ed arriva forse subito alla sua vetta, con una pizzica dal titolo "Core schiattusu". Musicalmente è iniziata dal basso elettrico di Tonino Friolo (quando lo sostituiranno con un basso acustico o dei mantici brinderò all'evento!). Comunque va riconosciuto al musicista leccese che ha trovato uno stile bassistico fortemente compatibile con la pizzica. Il testo del brano è un dialogo tra un uomo e una donna (Giovanni Esperti ed Antonella Esposito, rispettivamente chitarrista e voce femminile del gruppo). Forse la voce della cantante non ha la perfezione né la personalità di voci più note come possono essere Anna Cinzia Villani, Cinzia Marzo o Maria Mazzotta, ma è interessante e in fondo autentica. Quello che è curioso del brano è che è la donna a respingere le avance, romantiche e mai esagerate, dell'uomo. Da sentire, anche per la ricchezza sottesa al bel giro di tonica, dominante, sottotonica e quarta che accompagna il brano (purissimo, grazie a Dio!). Andando avanti si trova "Essiti cacciatori de sti sciardini", bella resa della pizzica sullo stile di Cosimino Surdo. Si potrebbe dire che si sarebbe potuto fare di più soprattutto a livello di strofe. Difatti i Briganti decidono di non interpretare la parte in grico, ma si limitano a fare la piccolissima parte in salentino che eseguiva lo stesso Cosimino. Bella ma forse risulta un po' ripetitiva a chi non sia stato folgorato dalla versione live attuale del gruppo. Andando avanti il cd tocca un'altra delle sue vette (e ce ne sono ancora altre due, una particolarmente alta!). Il brano che segue si intitola "Serenata alla mia bella". Su un ritmo di tammurriata, scandito per i bassi dal tom di Friolo e per la parte alta dai tamburelli, si fa una serenata ad una donna di rara poesia. I Briganti, particolarmente abili nel mettersi nei panni e nello stile dei veri cantori di tradizione pur innovando profondamente e dolcemente la stessa, si immaginano che il protagonista, un contadino, ripeto, faccia questa serenata, veramente poetica e piena di notevoli metafore semplici (imparate gruppi secondo cui solo il cantare politico innova la tradizione!). Tornando alla tradizione piena si ascolta una versione in minore, particolarmente gradevole, de "Lu sule calau calau", fatta a tarantella, ma con un giro che ricorda più una tarantella di tipo garganico piuttosto che una salentina. Bello il canto di Antonella Esposito, al contempo sofferto e festoso (anche qui, imparate!). Andando avanti troviamo una pizzica di Aradeo, bella ma forse un minimo impoverita. Il passaggio in minore non è appannaggio del canto (e chi mi conosce sa bene come la penso...), ogni due giri strumentali questo torna, alternandosi con un passaggio in maggiore. La curiosità è che spesso, non sempre, il basso di Friolo suona in maggiore mentre gli altri strumenti sono in minore (leggermente disarmonico ma non sgradevole). Le strofe di questa "E balla beddha mia" sono tutte tradizionali (una in verità è ripresa dalla "Fermate" degli Aramirè, che in "Mazzate pesanti" è accreditata solo a Raheli). Comunque è bella, forse un po' di forza in più non le avrebbe fatto male, ma sono particolari. Ed ecco la vetta "particolarmente alta" di cui accennavo, la bellissima versione di "Aremu rindineddha" cantata da Antonella Esposito. La particolarità della melodia è che è sviluppata ogni due strofe (ragiono con la convenzione di tutte le altre versioni che conosco, non con lo schema metrico dello scritto che non ricordo). Di queste due strofe una è cantata in maniera tradizionale, mentre una parte della seconda è salita di una terza. Il canto dell'Esposito, che come ho accennato è leggermente sporco, riesce comunque ad avere una dolcezza magica e semplice. CDiò che però secondo me rende magico questo brano è il giro strumentale che separa le strofe, nonché l'arpeggio della chitarra di Esperti. E quando si torna alla pizzica, perché eccoci, cantiamo un brano piccante (ho usato il verbo cantare perché con i Briganti i brani si canticchiano anche se non si sanno, anche qui agli altri dico: imparate!). Dal ribadire il doppio senso della parola chitarra, usata qui ad intermittenza sia come strumento che come simbolo fallico (con il pudore dei contadini, ho detto che i Briganti sembrano quelli che più d'ogni altro hanno imparato a scrivere e pensare in maniera tradizionale o quasi), arriviamo ad un innamorato che ci racconta dei suoi grandi patimenti per un amore non corrisposto, sempre consolati da questa chitarra (come atmosfera potrebbe anche ricordare "Chitarra vagabonda", uno degli ultimi grandi brani del liscio italiano). In studio questo brano, dal titolo "'Na sturiella" (repetita iuvant), perde un pochino, come tutto ciò che riguarda i Briganti, ma da sempre gusto. Il terzultimo brano è "Pensieri de nu brigante", dove il gruppo si immagina che un brigante parli della sua attuale situazione, ora che il brigantaggio è finito. Molto bella, perché con leggerezza, come sempre fa il gruppo (e imparate!), ricorda anche le fatiche dei salentini, cosa di cui nemmeno questa musica parla più, se non stravolgendosi e in maniera polemica. Il brano è una ballata, dalle forti tinte celtiche, sostenuta dal tom di Friolo, che mostra un'anima mediterranea che te lo fa apprezzare molto (il giorno che lo sostituiranno con una bella tammorra io non piangerò!). La penultima traccia è una versione, forse anche troppo bandistica, di un brano della tradizione salentina, spesso cantato tra gli altri da Gli Ucci dal titolo "Tuppe tuppe". Sicuramente gradevole, ma siamo lontani dai momenti migliori del cd, poi i fiati di banda fanno un passaggio leggermente disarmonico. L'ultima traccia è un brano strumentale in tonalità mista, maggiore minore, dal ritmo paragonabile ad una beguine, con le solite coloriture celtiche di cui abbiamo ampiamente disquisito, buono ma sicuramente non tra i migliori momenti del disco, che comunque consiglio in maniera calda, dato che, come molto catalogo della Irma records e della sua sottoposta Maffucci music viene distribuito in maniera capillare in tutta Italia dalla Edel. A chi dice che i Briganti dovrebbero essere più coraggiosi nella composizione dico che ormai c'è più coraggio nella semplicità e nel rapporto pacifico con la tradizione piuttosto che nella sperimentazione ardita.