venerdì 29 maggio 2009

Zero a Radio italia

Carissimi lettori, questa sera scrivo uno dei post più inaspettati, felici e caldi che mai si possano essere letti qui. Commenterò a caldo, mentre va in onda, una "Serata con" su Radio Italia solo musica italiana, che ha come protagonista Renato Zero.Proprio bella!Il primo brano è stato "Madame", ma io, non sapendo niente ed in altre faccende affaccendata, non l'ho sentito, l'ho riconosciuto solo dalle improvvisazioni del geniale pianista Mark Harris, fedele compagno del "Fiacco" da ormai svariati anni.Da ora in poi, ragazzi, pezzo per pezzo, ve la commenterò tutta!
Intanto Renato ci sta regalando una versione bellissima di "Amico", impregnata di una festosità che il pubblico sta riecheggiando nei suoi applausi dove si sente l'inconfondibile grido "Renato, Renato, Renato!".
Renato si è seduto sulle scale dell'Auditorium di Radio Italia a Cologno Monzese, e sta facendo le lodi della nostra cucina.
Ora si sta parlando di "Presente", un disco che "fa molto bene ai giovani musicisti", perché è un cd con un respiro molto internazionale (anche se rispetta l'italianità!), perché sennò non sarebbe Renato.
Ed eccolo il "presente" di Renato, con "Ancora qui", ballata dove lui ci ha raccontato quello che già sapevamo sul suo modo di approcciarsi alla musica, ricordandoci anche quando lui era il "Ragazzo senza fortuna".
La voce di Zero, si sta un po' incrinando, sta un po' perdendo quella limpidezza che noi tanto amiamo, ma sta acquistando un fascino speciale, che non so raccontare, che dobbiamo altrettanto imparare ad amare!
Con questa serata, sarà il caso di dirlo, Zero sta facendo un'anteprima del suo tour che partirà il 16 d'ottobre.
Mario Biondi, grande cantante soul, ha ora dato la sua testimonianza, uno che è diventato "sorcino" per aver conosciuto Zero ed aver cantato con lui nel suo ultimo cd, "Presente".
Ora ci sono stati i Pooh, con una serie di testimonianze, a partire dagli anni Sessanta, arrivando all'oggi (hanno chiesto provocatoriamente di entrare nel gruppo, per suonare la batteria? Boh!). Simpaticissimo. Zero, con molta ragione, sta rimpiangendo gli anni Sessanta, quando i musicisti erano una categoria unita.
Ed ecco l'omaggio di Zero alle passioni, agli amori, intitolato "Questi amori", tratto da "Presente".
Questa serata è molto calda, e Zero, in queste occasioni, arriva ad emozionarsi tanto che gli si rompe la voce, come sta succedendo adesso. Lo capisco, perché cantare la gratitudine, sentimento che oggi non ha la cittadinanza, emoziona, perché si sa di fare una cosa controcorrente.
Avete mai sentito una canzone che finisce con una franchissima risata? Eccola!
Ecco il contatto del pubblico, ed il primo giovane che scrive, chiede a Zero come stava andando a scuola.
Ecco qui un pianista che chiede a Zero cosa scegliere da "Presente" per il suo repertorio. Zero, ironicamente ma realisticamente, dice che lui deve scegliere. Giustamente, dico io, i pianobaristi ci pensano ventimila volte prima di cantare una canzone di Renato, perché è inimitabile!
Ecco "L'incontro", canzone dove ci chiede di non perderci dietro a stupidaggini, di lottare, di difendere la nostra personalità. E' un inno alla libertà che forse, però, da sola magari non basta. (Sennò non staremmo così).
Ed ecco che Renato inizia a presentare la band, delegando però subito il resto ad un altro musicista (Mark Harris!). Renato con questo vuole dimostrare che i musicisti hanno un'umanità, al di là del suono. Zero sta rivendicando, con questo gioco, il ruolo degli strumentisti, quelli che accompagnano i cantanti.
Ed ecco "Giù le mani dalla musica", canzone contro ogni sfruttamento della musica (purtroppo anche contro lo scaricamento). Io dico che essere contro il vendere cd pirata è giusto, essere contro lo scaricamento, secondo me, è ingiusto. E' importante che chi scarica lo faccia solo per informarsi, per poi comperare gli album, perché comunque questa gente deve anche campare! Però, dico io, che quello che non fa più la radio, oggi lo fa Internet, e si deve poter condividere la musica, rispettando il diritto d'autore sì, ma facendo sì che la musica sia anche nelle mani di chi la ama, manipolabile e condivisibile.
Ecco una canzone di "Presente" che per mia ignoranza non riesco ad identificare, ricordo di un incontro con un vecchio amico, che non è stato dimenticato da Zero, che, nonostante la notorietà, ha conservato un cuore d'oro!
Ed ecco una giornalista, del quotidiano "Metro", che ha fatto una domanda bellissima, anche se Zero se l'è sentita fare spesso. "Cosa ha guadagnato e cosa ha perso con l'autoproduzione?".
Ed ecco la risposta di Zero: "Ho potuto scrivere con una libertà diversa, senza avere gli occhi di una multinazionale su di me".
Un signore anziano chiede di poter vedere i suoi concerti, anche d'estate, ma Zero, dice, ironicamente, che come per fare un figlio ci vuole tempo, così la tournée partirà a tempo debito.
Il direttore di Radio Italia, che mai si faceva vedere qui, ha fatto una domanda: "Come sono gli italiani nel 2009". Zero, giustamente, dice che lui non vuole raccontarli, si è stancato di scrivere sul disagio. Ecco perché "Presente" è un disco "ottimista", come ho detto nella mia recensione.
Adesso Zero sta rispondendo, con la sua solita ironia, al "Dieci alla fine", una serie di domande private, o su sue opinioni. Anche qui Zero è geniale.
Paola Gallo, presentatrice della serata, ha chiesto a Zero: "Dove va la musica?". La risposta di Zero, bellissima, ricorda quanto la storia dell'arte, dico io non solo della musica, è presentata bene solo se la si presenta come una "bella fuga dagli schemi". "Io sono andato anche oltre le mie aspettative".
L'ultima domanda del "dieci alla fine", chiede agli artisti di trovare un motto. Zero, citando l'inizio de "La tua idea", risponde "E' meglio fingersi acrobati che sentirsi dei nani".
Il "Radio Italia live", continua, e purtroppo finisce, con "I migliori anni della nostra vita", capolavoro scritto dal "Fiacco" nel 1995. L'attacco, come tutti quelli di questo concerto, è stato affidato a Mark Harris, che ama particolarmente fare raffinate evoluzioni con il suo inseparabile pianoforte (che suona benissimo!).
Ed ecco il pubblico che, ormai infallibilmente, canta questa parte del ritornello mentre Zero fa delle "rispostine" imperdibili.
Capolavoro dei capolavori, grazie Radio Italia!

domenica 24 maggio 2009

Parlando di Profazio

Carissimi lettori, oggi mi va di parlarvi un po' di Otello Profazio, un cantante per me fondamentale, su cui, però, non mi ero ancora espressa.
Lo faccio senza motivo, portata solo dalla voglia di parlarne.
Io conobbi questo cantante sette anni fa, quando, in una raccolta della Curci, mi imbattei in "Qua si campa d'aria" e, soprattutto, in "Governo 'taliano". Questo ultimo pezzo, uno dei tantissimi canti popolari del sud Italia che il ricercatore ha trovato e riproposto, è stato il mio primo omaggio, durante una mia esibizione ad una "Festa dell'Unità".
Ciò che mi è sempre piaciuto di lui, caratteristica che io ho portato anche in alcuni brani salentini, è quell'intimità che la sua voce, dolcissima ma potente e graffiante, sa creare in maniera unica. E' unico anche il riguardo che lui ha nei confronti della tradizione: come me, per lo meno da sue affermazioni lo si desume, ama molto essere rispettoso della matrice da cui parte, e si limita, secondo me giustamente, a rimetterla a posto a livello di strofe, affinché i brani non siano solo accozzaglie di strofe sciolte. In lui, altro elemento non trascurabile, è presente una simbiosi tale tra brani d'autore e tradizionali, che per capire la provenienza del repertorio che si ascolta, si deve tenere in mano il libretto del disco corrispondente. In lui, altra virtù, c'è una "coscienza di genere", forse propria dei "pionieri", senza però quei difetti opposti di veduta, ossia lui è stato il primo a voler che dalla musica contadina scaturisse lo "spettacolo". Però, agli inizi degli anni Settanta, dopo aver inciso una serie di 45 giri per la Fonit Cetra nei quali ancora seguiva criteri di "folk di consumo", in lui si forma una coscienza politica, ma soprattutto in senso culturale, che lo porta a migliorarsi moltissimo a livello tecnico, soprattutto sulla chitarra, e a puntare decisamente verso l'autonomia. Questo, è bene precisarlo, non significa una abiura della "comunicazione di massa", ma il tendere verso un suo uso maggiormente colto. A questo, credo, si debbano i riferimenti a Domenico Modugno, Roberto Murolo o Matteo Salvatore, che Profazio, anche durante l'intervista contenuta nel libro "Otello Profazio" della collana "A viva voce" della Squilibri, ritiene fondamentali per la sua crescita.
Egli, in maniera paragonabile a Fausto Amodei ma forse meno cosciente, odiava la parte più melensa e patetica della cultura di massa anni Cinquanta, quella, per intenderci, che ruotava intorno al Festival di Sanremo. Però, e questo non se lo scorda, lui non sarebbe mai potuto diventare un "integrato" nella cultura subalterna: ben presto capì che il suo destino era essere l'anello di mediazione tra la cultura contadina e quella "ufficiale". Suo padre fu il primo ad insegnargli la chitarra, a partire dall'accompagnamento della tarantella "ciarameddara". Da lì, verso i vent'anni inizia a cantare, ed è scoperto da quello stesso Nunzio Filogamo che presentava il tanto detestato Sanremo.
I primi 78 giri sono di quegli stessi anni, ancora di semplice folklore "convenzionale", accompagnato dalla fisarmonica di suo fratello, che gli fa anche i controcanti. A questo periodo risale repertorio come "chiamatimi 'u medicu", "Ch'era cafuni (Lu picuraru)" ecc.
Negli anni Sessanta, entrato alla Fonit, anche se ancora con uno stile semplice, inizia già a mostrare una grossa voglia di polemizzare contro chi tratta il folklore in maniera disonesta, facendo semplici accozzaglie di strofe (lui si definisce un "contenutista", attento più a cosa canta che a come lo canta).
A questo periodo risalgono la serie di 45 giri che confluiranno nell'lp "Calabria", il primo "concept album" mai inciso in Italia, oltre allo sperimentale "Profazio Canta Buttitta". Il "concept album" di cui si è parlato, si intitola "Il brigante Musolino" ed è la narrazione precisa, anche basata su testimonianze dello stesso brigante a Profazio, della vita di questo personaggio dell'Aspromonte, che, per vendicarsi di un torto subito, di un'accusa ingiusta, diventa davvero violento. Però, ed è il caso di dirlo, è quella violenza onesta, un po' alla Winspeare (si pensi alla protagonista femminile di "Galantuomini"). Musicalmente, contrariamente agli Album tematici della musica leggera, è basato sulla ripetizione, con strofe diverse, di tre temi tipici dei cantastorie siciliani classici, a cui Profazio ha sempre detto di ispirarsi. E' un lp di cui non posso fare una recensione piena, perché tengo molto alla qualità di audio dei cd, cosa che, purtroppo, al sud è spesso trascurata (questo "mostro sacro" del nostro folk è ristampato dall'Elca, etichetta locale, vergogna!).
Il disco che, almeno per quanto penso io chiuda il primo periodo, è il non molto digeribile "Profazio canta Buttitta", selezione di poesie del poeta palermitano musicate e "ridotte" da Profazio. A me non viene facile digerirlo, signori, più che altro per una questione d'orchestrazioni: i cantanti-chitarristi, come Otello, non dovrebbero mai essere accompagnati da orchestre che, per quanto leggere, non hanno mai avuto niente a che vedere con il folklore.
Degli anni '70, va ricordato innanzitutto l'epocale "Qua si campa d'aria", il cui brano-manifesto è, con un'ironia ed un mordente senza pari, una denuncia, fra l'altro scritta quasi in lingua italiana, della situazione del sud d'Italia che, conosciuta dai nostri governanti, è da essi da sempre negletta. La ballata, che io con i miei schemi sudamericani definirei "milonga", già, irrimediabilmente, segna il distacco dal profazio degli inizi. Non c'è più l'immediatezza propria di chi coltiva tanti stili insieme, ma c'è una vera e propria maturità piena.
Ormai Profazio può iniziare, anche trasgressivamente per quel periodo, ad alternare lp d'impegno sia contenutistico che strutturale ("L'Italia cantata dal Sud), che comunque non escludono il lazzo e lo spasso ("Poveri e ricchi", "Governo 'taliano" ecc) ed lp spassosi come "Sollazzevole" o "Amuri e pilu" dove si parla dell'amore, sia in senso romantico che in senso "sessuale".
La carriera di Profazio, se la vediamo da un punto di vista di gestione, non è sicuramente tra le migliori, perché, a lungo andare, se non ti vendi non ottieni niente. Profazio, però, avendo coscienza che il ripropositore aveva il dovere civico di ricercare brani, gli anni meno fruttuosi della sua carriera, discograficamente parlando, ossia gli anni Ottanta, li ha dedicati a ricerche spregiudicate non solo in calabria ma anche in Basilicata ed in Puglia. Se si dà uno sguardo al "Fondo Profazio" del neonato Archivio delle Tradizioni musicali della Puglia, tra le persone da cui costui ha imparato dei canti popolari, c'è quel Nicola Arigliano che tutti, o molti, si ricordano come esimio cantante di jazz. Se volete vedere questa e molte altre cose sulla Puglia, andate su www.archiviosonoro.org/puglia.
Tra gli album degli anni Settanta, il periodo sicuramente più fertile per il folklore italiano, nonostante tutta la sua ideologizzazione, vanno ricordati "Storie e leggende del Sud" (serie di affreschi antichi e moderni); "Gesù, Giuseppe e Maria" (album di ispirazione natalizia) e quello che a me manca, quello dedicato alla storia dei "Paladini di Francia" appunto così intitolato.
Negli stessi anni, e nell'archivio pugliese prima citato ce ne è testimonianza, Otello Profazio conduce vari programmi radiofonici tra cui "Quando la gente canta", dove a cantare era "gente comune", o "Il nostro Sud", in collaborazione con il foggiano, altrettanto cantante e chitarrista, Matteo Salvatore.
Degli anni Novanta può essere interessante ricordare l'album "Tangentopoli", con ballate pungenti dedicate ai protagonisti di questo scandalo, ma prevalentemente incentrato sulle "Profaziate", geniali componimenti in rima ed in dialetto che il cantastorie andava pubblicando su "La gazzetta del Mezzogiorno". Non è un lp consigliabile, tantomeno naturalmente da consigliare a chi deve scoprire Profazio, anche perché è troppo presente un'orchestra, ottenuta con tastiere, che è veramente poco simile al "vero" Profazio.
Deludente è anche "Il filo di seta", ripresa spenta di "Amuri e pilu". E' un cd composto da una ventina di brani, che sono, tranne qualche eccezione, canzoni "bonsai".
Un caso a parte, d'altronde è risalente al periodo migliore del calabrese, è la collaborazione nell'lp "Gabriella, i suoi amici e tanto folk!" di Gabriella Ferri. Non è che Profazio stia nelle sue condizioni migliori, perché ho già detto che con orchestra o gruppo egli si trova sempre male, ma comunque c'è ancora una certa atmosfera.
Bruttissimo, anche se lui dice di trovarcisi bene, è il progetto con Daniele Sepe, musicista napoletano che, come tanti ora, sfrutta la tradizione per farne "altro", senza avere l'umiltà di ammetterlo. Il progetto, ora, è sfociato nel cd della "Squilibri" "Gli infedeli".
Per chi volesse conoscere bene Profazio, il mio consiglio è di acquistare, invece, un altro volume della casa editrice romana, intitolato "Otello Profazio", contenente due cd antologici, un'intervista ed una serie di stralci dalle introduzioni ai suoi dischi, curate da alcuni fra i più grandi intellettuali italiani, oltre ad una discografia completa.

sabato 23 maggio 2009

Un aedo (FabriziDe Andrè

Carissimi lettori, ora voglio regalarvi un articolo non scritto da me, ma da una grande esperta di musica, nonché pianista e compagna di vita del musicista e compositore Vieri-Tosatti: Valeria Rabot. L'articolo è tratto da "Rivista ecumenica" ed è dedicato a Fabrizio De Andrè.
Un aedo (Fabrizio De Andrè)
Non c’è più l’uomo, con la sua sensibilità, col suo carattere. Ciò non conta; è un ricordo, consegnato alla foto che lo fissa nell’icona della frangia a velare la fronte intelligente, nell’atteggiamento curvo sulla chitarra e sul proprio cuore. Resta il messaggio della sua poesia. Il cantore della condizione umana nelle contraddizioni, nelle ribellioni soffocate dall’aridità del potere e dalla stessa inanità dell’essere uomo in quanto tale, guarda alla sofferenza e all’ingiustizia da un’angolazione di dissacrante ironia – spesso di violento sarcasmo – a difesa di una sensibilità continuamente vigile, che vorrebbe, ma non può, prendere le distanze da ciò che duole. Quest’arte, però, dalla veste così semplice e confidente in apparenza, è invece un mistero intrigante e in qualche modo perfino “scomodo”, perché al di là del dire “cantando”, esso ci afferra con improvvisa forza all’ascolto del fondo, ci obbliga alla confessione, a farci carico di realtà che vorremmo eludere, mette a nudo debolezze e viltà, non lascia spazio per scantonare, per sfuggire alla coscienza che “siamo tutti coinvolti”. Sarcasmo e amore: chi ha mai cantato con tanta pregnanza le dicotomie e le convergenze, le intersezioni fra questi sentimenti: il desiderio d’amore nel sarcasmo, l’ombroso dissacrare nella trepida speranza dell’amore?......Si resta talora con l’impressione che Dé André faccia parte di quegli autori (i “grandi”, per intenderci) che, nei maggiori èsiti, sembrano essere solo a metà coscienti della profondità di significato di ciò che scrivono……l’impressione che spesso l’opera travalichi l’artista……che si imponga per proprio conto…… C’è una poesia del dolore che è compunzione d’accatto, subitamente indotta a eludere ogni partecipazione attiva; compunzione “gratificata” dalla contentezza di essere – da quel dolore – esente; c’è quella della élite aggiornata sugli ultimi ritrovati delle ipertrofie del lessico; ma questo autore che assume e comprende il peccato e la colpa, e confuta la liceità della loro condanna, questo autore è la voce della com - passione e si colloca d’autorità tra i valori autentici della cultura di oggi. Gli compete una dimensione, un “luogo” tutto suo nel gruppo dei grandi comunicatori: ma spesso in questi la visione della realtà pare affondi nella disperazione senza confini e senza riscatto, nell’impossibilità del dialogo. Fabrizio De Andrè canta, invece, si, la rivolta, troppo spesso impotente, con beffarda irrisione, e se ne duole; ma non definisce mai uno stato d’animo costantemente passivo. Egli non accetta la sconfitta, la resa beffarda e “rassegnata” e nel suo forte impegno sociale si discosta non con la violenza diretta, (spesso “di facciata”), ma col tenace insistere – dalla “protezione” del potere, del perbenismo, della convenienza, così come dall’accettazione supina, o servile, che spesso è ignoranza, quando non è condannevole lassismo. Egli vuole scuotere il nostro torpore; sull’impotenza si arrovella, perché nella sua arte scorre sotterranea, e spesso affiora prepotente, l’invito al ripensamento di valori disattesi, a riconoscere in noi la possibilità del riscatto, la presenza nel fondo degli uomini, della bontà e della pietà.Questo cantare si avvale di una musica che non potrebbe assolutamente essere altra perché nasce con la parola e per la parola. Non è “musica facile”. È una musica antica, spoglia dell’attendere alla “crescita”, allo sviluppo di sé stessa, a un suo proprio divenire: l’arte di Fabrizio De Andrè può non venire intesa nel suo giusto valore per la presenza appunto, di ritmi, cadenze, rime e assonanze che si rifanno al canto popolare. Attenzione però: attenzione a non confondere le cose!!! Qua non siamo al cantastorie che svaria sui guai della baronessa di Carini, né al cantante in preda alla prurigine di improbabili nostalgie! Pur riferendosi al canto popolare (nella sua vocazione –“alta”) e talora alla musica medievale, anche con l’uso di strumenti del tempo, e impegnando attenzione e studio alla musica, al “suono” di altre etnie, l’arte di questo autore ha modi propri in stretto rapporto con la straordinaria ricchezza dei vari argomenti e casi attinti dalla realtà: è musica che ripiega su moduli che sono alla base del sentire umano, e, nell’intelligente uso di melodia e armonia, e nell’unione di queste ai tanti casi del narrare, ha la sua cifra di perenne valenza. I testi di De Andrè propongono verità pregnanti, nei concetti e nelle tantissime immagini che raramente è possibile reperire nella poesia blasonata, e mai veicolate in modi dogmatici, mai gratuite o estetizzanti. De Andrè parla dal fondo della propria anima alla nostra e ascolta, da quel fondo, e raccoglie, l’eco della vita sceverandola da tutto ciò che giostra intorno in una straniante gara di non-senso.Non si consideri ovvio il riferimento a quel capolavoro – giustamente noto e amato: “La guerra di Piero” che non è possibile enucleare dal contesto dell’autentica poesia, supportato da una musica che è la nenia antica della maternità offesa d’ogni tempo……Sarebbe necessario, invece, attivare una diffusione, un ascolto maggiore, di questa “definizione dell’inutilità d’ogni guerra…, Assai più valida di qualunque narrazione di battaglie” nell’atmosfera stupefatta che circola intorno all’avventura di “due uomini”…… Uomini …….nel silenzio della Natura, e della Storia…Come dire della commovente partecipazione, ne “La Buona Novella” alla figura di Maria bambina, umanizzata nella sua innocenza, nel suo essere ignara di tanta “verità”, e di tanto destino…….?E quell’Amico Fragile”, dove la musica si attarda, su quel mi minore quasi un freno, un controllo allo sperdimento delle emozioni e della fantasia! Come non esser presi dalla desolazione nel “Cantico dei drogati”? E con quale levità, quasi a passo di danza, questo partecipe di ogni debolezza umana, vizio e candore, parla, nel “Testamento”, del vivere e del morire!...In questo testo apparentemente dissacrante possono venire isolati tre momenti: nel primo la beffarda sfottitura della vanità e della menzogna, nel secondo il trepido accenno alla possibilità del vero amore, mentre il terzo si china sul desiderio di essere, per chi muore, dispensato dalla “pesante pietà” e sulla coscienza di essere, nella morte, soli. Tre concetti (e quali!!)……in una sola canzone!......E l’amaro percorso, in quella “storia di un uomo qualunque” che parte dalla denuncia del potere costituito, passando poi all’orgoglio di un vagheggiato potere individuale, alla coscienza del latitare, nei momenti critici, di parenti e conoscenti, alla delusione per l’inutilità di un “gesto”, per approdare, infine, al povero rifarsi su un altro uomo, che, del Potere, ha solo la riduzione a pallida effige. e quel Pescatore, immerso nella luce meridiana di un àmbito fuori del Tempo, che ha un solco sul volto, “come un sorriso” – e forse è una ferita – e si assopisce, (o finge) per non tradire chi, pur colpevole di assassinio, gli aveva chiesto pane e vino per la sua fame.E quel Fiume Sand Creek, dove, su un tenerissimo motivetto infantile, la voce di un bimbo dà il resoconto del massacro della sua tribù ad opera di “un generale di vent’anni, occhi turchini e giacca uguale”……fu un generale di venti annifiglio di un temporale…i nostri guerrieri troppo lontani sulla pista del bisontee quella musica distante diventò sempre più forte ………………………………. …chiesi a mio nonno è solo un sogno…mio nonno disse sì………………………………… e…………… Quando il sole alzò la testa tra le spalle della notte C’erano solo cani e fumo e tende capovolte………l’inane lanciare frecce all’aria e al vento………In pochi versi folgoranti, il quadro preciso di un’etnia, dei suoi usi, del suo fatalismo (mio nonno disse sì…), l’impotenza del bimbo che invano tenta di colpire……l’aria, il vento……e infine, lo squallore del luogo devastato…………………………………ora i bambini dormono sul fondo del Sand Creek………”E come non ricordare “Carlo Martello”, il suo ingresso trionfale tra gli squilli gloriosi della trionfante solarità, che nel prosieguo degli…eventi…poté orripilare solo i baciapile del tempo? Qui un testo di spassosa valenza supporta una musica assolutamente geniale! Qui si esula dalla commozione e dal sarcasmo per godere un momento di straordinaria allegria, un’autentica festa!!! E “Bocca di rosa” e “Via del Campo” e l’assai preoccupante “Girotondo!!” e quante quante altre!!! E quella “Cr?uza di mä” che nel ritmo cullante che apre sull’infinita vastità del mare l’uomo quasi non è più; remoto il brulicame di presenze e voci querule e odore di catrame e pece e alghe marce, la nostalgia per la città amata dissolta in un orizzonte, luogo dell’anima, in cui si sperde,...... nello spazio, gonfio di tutti i suoni della lontananza, e dell’eternità………Cambia, il mondo, in un vortice di rapina. Non sappiamo quale sarà il suo futuro, ma certo Fabrizio De Andrè resterà il cantore di questo tempo, delle sue inquietudini, e, al di là di quelle, nella fiducia inalienabile nella bontà di fondo dell’uomo, il cantore della speranza.

Riflessioni sulla riproposta

Carissimi lettori, portata dall'incontenibile felicità che mi ha dato l'imminente uscita del libro di Vincenzo Santoro "Il ritorno della taranta", pubblicato dalla Squilibri di Roma, mi va di rinnovare ed ampliare le mie riflessioni sulla riproposta salentina.
Il libro, con quella serenità tipica del vero appassionato che è coinvolto senza boria né rabbia gratuita, ripercorre, passo passo, la storia del "movimento" di riscoperta e recupero della tradizione, che ha portato il Salento, bene o male, alla notorietà.
Ora, quindi quasi subito, io non riferirò la struttura del libro né ciò che in esso è scritto, in quanto molto materiale è reperibile sia su http://www.pizzicata.it/, che su http://www.vincenzosantoro.it/, nonché sul sito dell'editore http://www.squilibri.it/.
Mi limiterò, alla luce di quanto letto e di quanto conosco, a fare le mie riflessioni, a dire, insomma, come la penso io. Molte cose, signori miei, io le ho già dette in giro, ma , secondo me, "repetita iuvant" (le ripetizioni giovano).
Intanto, e questo è un problema che si ha a livello nazionale, la nostra "riscoperta" del folklore è stata ben presto "macchiata" dall'ideologizzazione: invece di ritrovare le nostre radici per quello che erano, le abbiamo volute asservire automaticamente a ciò che credevamo giusto. Abbiamo così, e qui mi limiterò all'esempio salentino, quasi ignorato le pizziche, perché non politicizzate o politicizzabili, facendo dei canti dei carcerati nostre bandiere. Questo avveniva, soprattutto, da parte di una certa élite di sinistra, capeggiata dalla grande scrittrice Rina Durante, sotto la cui egida nacque, fra l'altro, il Canzoniere Grecanico Salentino. A questo gruppo, ad esempio, si deve il cambiamento di una strofa ne "Le carceri di Lecce", conosciuta anche come "La Cesarina", che è diventata: "Ca ci ole Diu cu cangia stu guvernu
la terra la caminu parmu parmu".
Da notare, ad esempio, che Uccio Aloisi, che ha riproposto il canto in uno dei suoi ultimi cd, non esegue questa variante. Lo stesso gruppo di lavoro, però, in precedenza era stato molto restio nei confronti di processi che io ritengo molto più giusti: leggendo il libro di Santoro, risulta che Luigi Lezzi, voce e chitarra del "Gruppo folk salentino", prima creatura del lavoro intellettuale di Rina Durante, si chiedeva che senso avesse riproporre ai contadini e ai braccianti i loro pezzi in forma "spettacolarizzata". Questo dimostra una ritrosia, che io ormai ritengo imperdonabile, anche se quarant'anni fa poteva essere giustificata, nei confronti di dinamiche assolutamente naturali. Ciò che io ritengo giusto, è rispettare, anche nella composizione di nuovi brani su testi tradizionali, le prassi armoniche più vicine alla natura del genere in questione. Questa, purtroppo, è una caratteristica che oggi si sta perdendo, in favore di una necessità, non so se veramente sentita od intellettualistica, di fare del folklore qualcosa di semplicemente, e direi anche piattamente, contemporaneo.
Come diceva Roberto Raheli degli Aramirè: è mai possibile che per innovare il folklore si debba per forza prendere testi antichi e stravolgerne l'armonia e la concezione strumentale?
La mia risposta, come quella degli Aramirè, è un secco e categorico "No!". Negli altri paesi, forse perché hanno un folklore meno ingombrante ed antico, si riesce ancora a comporre, con piccoli tocchi di modernità, repertorio davvero innovativo ma su basi antiche e facilmente riconoscibili. Un esempio d'oro è il Fado, anche questo ultimamente arricchito da nuovi strumenti come la batteria od il contrabbasso, dove, però, nessuno si sognerebbe di rifare i brani antichi con orchestrazioni completamente o molto moderne, ed oltretutto, se le chitarre portoghesi non sono più le sole protagoniste perché viene loro tolto spazio in favore degli strumenti "altri", a loro volta, questi cercheranno uno stile che non opprima né cancelli l'antico. Nel Salento, invece, mi pare che, a partire da Melpignano arrivando fino agli ultimi Aioresis, si voglia sfruttare vecchi miti, riscoperti solo come "fattori di cassetta" ma la cui arretratezza fa ancora paura, per fare ciò che non è che una copia spenta di quel che si fa nel resto d'Italia. Il gruppo di Nardò che ho ora citato, all'inizio ottimo gruppo tradizionale, quindi con tutto il diritto di richiamarsi al tarantismo nel nome, con gli anni, pur non cambiando denominazione, si è avvicinato di più ad una realtà che potremmo denominare "Nardò City Ramblers". Non metto in discussione, la questione non è questa, il diritto di cambiare, ma a questo punto, preferirei un cambiamento radicale: gruppo rock, quindi senza il tamburello che tanto in quel contesto fa solo coreografia, che come richiami folk ha solo l'organetto ed i flauti (basta con queste zampogne, avete stancato!), ed ovviamente fuori l'"aiora", richiamo ad un passato che, se non si pratica in maniera almeno fidedigna, non si ha più il diritto di nominare.
Questa, però, a pensarci bene, carissimi salentini è l'unica situazione in cui potete stare. Se quarant'anni fa avete distorto il folklore per idiologizzarlo, negli anni Ottanta ve lo siete dimenticati di nuovo e dopo è arrivato il reggae che solo per essere in dialetto è stato semplicemente chiamato musica salentina, eccovi la vostra musica: gli Aioresis e dintorni.
Grazie a Dio, però, nel cd allegato al libro di Vincenzo Santoro, c'è gente che il folklore lo fa davvero, dagli Zoè a gruppi molto meno conosciuti, che hanno battuto strade che voi, caparbiamente e stupidamente non avete proseguito.
Ve l'ho già detto ma ve lo ripeto: è infinitamente più contemporaneo un brano come "Mazzate pesanti" degli Aramirè, che sta nel passato ma racconta il presente, piuttosto che un brano degli Aioresis che, pur continuando ad organizzare feste di musica popolare spontanea, quantomeno loro dicono così, fanno rock bello e buono, oltretutto cantato anche male, con quel vomitevole accento salentino ma in italiano (per farsi capire da tutti quelli che, a fine concerto, in massa possono solo dire loro: "basta!").
Credo che il Salento debba scegliere: se si decide di essere un gruppo rock, non si deve fare riferimento al tarantismo né utilizzare strumenti inutili (vedasi i Negramaro); se si decide di fare musica popolare, magari, oltre ad interpretare i brani antichi, riproposti con melodie possibilmente uguali e a comporre nuovo repertorio, si potrebbe, e dovrebbe, reinterpretare anche ciò che si ama della riproposta. Quest'ultima parte, va da sé, non va affrontata come un semplice imitare altri gruppi, ma come una reinterpretazione, rispettosa, ma comunque e sempre personale.
Io, ad esempio, nel periodo in cui ebbi la fortuna di poter frequentare questo repertorio, non solo non mi limitavo alla tradizione attestata dalle registrazioni etnomusicologiche, ma, quando interpretavo un brano d'autore, dicevo sempre chi l'avesse scritto. Speravo, così, di far allargare le vedute agli ascoltatori dei nostri concerti, che oltre a divertirsi e ballare, potevano anche imparare qualcosa. So che questa proposta potrebbe essere catalogata come sprone all'imitazione, ma io vi giuro che non c'è nessuna differenza tra la rielaborazione della "Pizzicarella" della "Simpatichina" e quella di una "Don pizzica" degli Zoè. Quello che ce le fa sembrare differenti, signori, è solo il fatto che la prima, essendo stata inglobata dalla tradizione e trasmessa oralmente, ci permette di sentirla anche un po' nostra, perché ciò che è popolare è di tutti, mentre la seconda, che abbiamo imparato tramite "Sangue vivo", album degli Zoè, essendoci arrivata per mediazione di un supporto che la fissa irrimediabilmente, ci sembra qualcosa d'altro. Io credo, ed ho la tradizione d'altri paesi a confermarmelo, che nello stesso momento in cui noi prendiamo degli strumenti tradizionali e ci suoniamo qualcosa, noi la stiamo rimuovendo dalla sua fissità, perché nessuno di noi, almeno i non megalomani, si sognerebbero di cantare come la Marzo o come la Petrachi. Oltretutto, ad annullare questa distinzione, basterebbe l'onestà: perché non dire che si è imparata "Pizzicarella" dalla versione della "Simpatichina"? Così, signori miei, si inizierebbe a riconoscere una certa "autorialità" a certi cantori popolari, che dimostrerebbe solo la nostra buona fede. Io, scusate se mi cito come esempio ma avrete capito che non sono megalomane, quando facevo la "Pizzica tarantata", dicevo sempre: "Adesso suoneremo una pizzica ispirata ai giri di violino eseguiti dal violinista Luigi Stifani per curare le tarantate". In Portogallo, e scusate ancora la ripetitività ma non c'è paese migliore per esemplificare la convivenza fra modernità e tradizione, nel repertorio del Fado, anche quello su cui non si è sicuri per quanto riguarda chi lo abbia concretamente composto, si presenta come repertorio d'autore. Addirittura, giusto per fare un esempio, gli unici Fados veramente tradizionali sono il "Corrido", il "Mouraria" e il "Menor", tutti risalenti al XIX secolo. Perfino il resto del repertorio risalente alla stessa epoca, come l'"Anadia", viene presentato come d'autore, anche se, su chi abbia inventato cotali melodie, non circolano quasi esclusivamente informazioni se non leggende metropolitane, riportate da libri sulla cui scientificità da subito si ebbero mortali dubbi. E' vero che nelle incisioni degli studiosi spesso non si identifica il cantante, ma, laddove identificato, gli andrebbe riconosciuto, se non altro nel rispetto delle prassi armoniche e nella presentazione dei brani, un livello di "Quasi autore". Infatti, ed i salentini su questo ci battono molto spesso l'accento, i cantori tradizionali, spesso modificavano i testi secondo le loro esigenze e le loro necessità. Noi, oggi, se decidiamo di dedicarci seriamente alla riscoperta del nostro passato, dobbiamo creare a nostra volta, senza avere paura di farlo, ma, oltre ad omaggiare gli anziani, non solo nei convegni ma anche durante le suonate, dovremmo, ormai, omaggiare anche chi ha fatto le stesse cose prima di noi. Ad esempio, pur non trovando niente da ridire sulla scelta di rielaborare un brano tradizionale da una versione di "riproposta", mi arrabbio quando non lo si dice e, ingiustamente, non riconoscendo il lavoro di creazione di qualcosa di diverso dalla tradizione, si dà il bollino di tradizionale a ciò che non lo è. Io, e scusatemi ancora, nel mio repertorio, ho una versione di "Ferma Zitella" che, come spirito, ed inizialmente lo era anche come modo di cantare perché accettava i finali lunghi alla Cinzia marzo, è ispirata alla versione degli Zoè. Quando la presentavo, oltre a dire sempre "se non c'era quella dell'"Officina" io non avrei fatto niente", la chiamavo addirittura "Ferma ferma", così come è su "Crita". Con questo, io, volevo riconoscere di non interpretare il brano "tradizionale" "Ferma zitella", ma un qualcosa che da esso è partito, che io preferisco. Questo, che da noi verrebbe bollato come imitazione, è pratica comune in paesi come il Portogallo o la Spagna. Ogni buon cantautore che si voglia ispirare alla "copla", genere nato negli anni Trenta in Andalusia con caratteristiche simili al flamenco ma più leggero, ben presto sente la necessità di dover rifare ciò che hanno scritto gli altri, ma non solo i primi, anche quelli più vicini a lui. Se questo potesse succedere anche da noi, nella miniera della musica che è il salento, si smetterebbe di dibattere su questioni sterili, si smetterebbe di fare i disonesti (dicendo ad esempio che "kali nifta" è d'autore, non facendo credere più che è tradizionale!), e, cosa certo non poco importante, noi ascoltatori potremmo conoscere la formazione culturale di ogni gruppo. In poche parole, il consiglio che vi do, e che io stessa seguirei subito se potessi ricominciare a fare pizzica, sarebbe quello di innovare la vostra tradizione non solo dall'esterno rifacendovi ad ormai vecchi modelli come la Nuova Compagnia di Canto Popolare, ma anche dall'interno, riprendendo, in pacifica convivenza con eventuali brani di composizione propria, anche alcuni pezzi che si amino particolarmente all'interno della riproposta salentina. Giusto per farvi un esempio di qualcosa di molto simile, si può pensare a "La caddrhina" di Cesare Monte, che lui stesso aveva inciso su disco, che gli Alla Bua hanno portato verso un'atmosfera rurale che le è sicuramente più propria piuttosto che il terribile liscio del presiccese. Ora voglio dirvela tutta: io non condivido più di tanto il "travasare" il repertorio dal "liscio alla salentina" alla musica d'ispirazione contadina, perché ritengo che queste siano due cose completamente diverse, che hanno come elemento comune solo il dialetto, oltre ad un certo riuso dei materiali tradizionali. Però, se ad esempio un gruppo di musica popolare che usi strumenti contadini è formato da ammiratori di Petrachi od Ingrosso, i brani in dialetto di questi ultimi si possono riproporre (non quelli in italiano che si snatura troppo il genere che deve accogliere le novità). Io, date le mie passioni, riterrei più giusto riproporre brani degli Zoè ("Don pizzica", "Ijentu", "Menevò", ecc), degli Alla Bua ("De fore", "Jeu partu", ecc). Questo, e così concludo, non deve diventare né un pretesto per non creare più, né una scusa per non riprendere più brani dalle ricerche di propria od altrui fattura. Io, signori, vi sto solo dicendo di allargare le vedute, non di perdere quello che già avete né di essere estremisti. Così, e ve lo dice una che lo ha fatto tanto a suon di pizzica, sareste meno polemici e vi divertireste tanto tanto di più!

venerdì 22 maggio 2009

Commenti ed integrazioni alla "Shit parade" di www.hitparadeitalia.it

Carissimi lettori, siccome ho voglia di divertirmi un po', oggi voglio postare i miei (e non solo) commenti ed integrazioni ad una "Shit parade" (classifica del più peggio del peggio) di Hitparadeitalia, sito autorevolissimo sulla storia della grande e piccola canzone italiana.
Il primo posto, meritatamente, anche se bisogna dedicargli un "RIP", è appannaggio del "canto patriottico" "Italia", interpretato dal Beniamino delle masse Mino Reitano. E' un brano caratterizzato da una grande "elettroimponenza", e da una scansione dei luoghi più turistici del nostro paese, che ci ricorda semplicemente che "stanno qua".
Già sulla seconda posizione, io trovo da ridire. E' un brano di Mimmo Modugno, come vedete all'inizio ce l'hanno con i meridionali, intitolato "Piange il telefono". Il brano, e parlo da ammiratrice fanatica del brindisino, non è dei migliori, ha una voce di bambina un po' insopportabile, però comunque forse non è degno di una "schif parade" (mi scusassero i conduttori de "Il ruggito"), come questa di cui stiamo parlando.
Nel festival di Sanremo 1995, Salvatore "Toto" Cotugno, ci faceva sapere di voler "Andare a vivere in campagna", con ritmi modello "Il ciclone" di Pieraccioni, ma tutti avremmo preferito vederlo con una vanga in mano piuttosto che con un microfono!
Antonello Venditti, grande cantautore romano, e non sto scherzando, il 09/09/99 fece uscire il suo peggior disco, preso, come un altro artista di cui potremo comodamente parlare tra qualche riga, dalla sindrome di "saluto del 'secolo breve'". Di questo cd ne dovremo riparlare, intanto, in quarta posizione, troviamo una patetica e orribile "Che tesoro che sei". Io, da pianista, oltretutto, sono profondamente "stizzata" con il romano, perché si è scordato della grande "scatola magica" da ottantotto tasti. La canzone, che ha ritmo inclassificabile, è accompagnata da una chitarra che zappa su un giro di do, anche io potrei suonare meglio, da una batteria, un basso e, naturalmente dei grooves elettronici. Il testo è inenarrabile.
Andando avanti troviamo le sorelle Iezzi Paola e Chiara, con il loro primo, e in fondo quasi ascoltabile, all'epoca, successo: "Amici come prima". Presentata ad un "Festivalone", è una irish ballad, dove le due sorelle, gemelle, dimostrano, forse aiutate da qualche "truccamento" dei rispettivi timbri, di averne uno unico.
La prima canzone che troviamo del bluesman e chitarrista romano Alex Britti è la meravigliosa e geniale "Io con la ragazza mia, tu con la ragazza tua", che continuava con un illuminante "Lei con il ragazzo suo e te con chi ti pare a te". Intanto, mi sembra vagamente di ricordare, che la parola "te", sia originata dal latino "tibi", complemento di termine. Musicalmente, io non la definirei "blues", a meno che per fare un blues non basti tenere un accordo in settima come tonica (scusate il turco!). Questo brano, come quasi tutti quelli di successo del "bluesman de noantri", è tecno music, suonata in semiacustico per nascondere il tradimento a Maddy Waters and company.
'Nc'era 'na fiata, un gruppo di bambini che, invece di accontentarsi di suonare nelle festicciole della propria scuola, decide di mandare un provino alla Sugar della signora "Nessuno mi può giudicare" (Caterina Caselli). Il gruppo, dato che lei non può essere giudicata, la signora ha deciso di scritturarlo e gli ha fatto fare un disco, presentato anche al Festival di Sanremo, che conteneva anche la prima canzone italiana con un riferimento al www. Questa era una canzonaccia d'amore, di semplice dichiarazione, cantata da una bambina, minorenne come tutto il resto del gruppo, chiamata Valentina Morlacchi. La canzone si chiama "http://www.mipiacitu/", ed il gruppo si chiamava Gazzosa (si sono liquefatti).
Al Festival di Sanremo (edizione imprecisata), il signor Filippo Neviani, sassuolese come Pierangelo Bertoli, si presentava con una canzone antiabortista, che sarebbe potuta riemergere come colonna sonora della campagna di Ferrara e Giovanni Lindo Ferretti (vedasi elezioni di un anno fa). La canzone, da requiem, ha dei pezzi di organo degni di "Preghiera" dei "Cugini di campagna", che però era contro il suicidio.
"La vasca", inno igienista del già citato Alessandro Britti, è un altro tradimento al blues che lui dice tanto d'amare.
1983: annata maledetta! Nel 1982 l'Italia vinceva i Mondiali in Spagna e, il "Toto" nazionale, ancora euforico dall'evento, scriveva un inno ai nostri luoghi comuni più stereotipi. Giusto per sfatarne uno, il nostro è uno dei paesi più tristi e muti. Noi non cantiamo più!
Uno dei repertori peggiori mai scritti, è quello post 11 settembre 2001, quando lo "scontro di civiltà" è effettivamente avvenuto. Da ogni lato, i commenti erano indifendibili, io addirittura attaccai la Fallaci in sede d'esame di maturità, ma anche Jovanotti, non scherza, in questo suo pseudo rock and roll, frutto del fatto che fosse affascinato dalle sonorità elettriche, stanco dell'elettronica da dj. Salvateci da questo brano! Si chiama "Salvami".
Nel 2001, la libica Valeria Rossi ci ammorbava con questo brano la cui strofa è caratterizzata da un unico accordo e una nota sola. Il ritornello, invece, ha una parvenza di melodia, per quanto sguaiata e senza senso. La cantante, dopo un primo disco, sembra sparita.
Nella mia famiglia, c'era un mangiadischi, posseduto da mia sorella, il quale, era costretto a gettonare questa canzone del "vocino" americano, che ha avuto un "Potere" ammorbante su tutti noi, assolutamente superiore a qualsiasi malattia. Il brano era "Il ballo del quaquà", erede di "Papaveri e papere", ma io, tra le due, preferisco la seconda: per lo meno ha un messaggio, per quanto discutibile!
Nel 1997, data la passione italiana per i matrimoni di cantanti, il Festival di Sanremo fu vinto dai Jalisse, con questo brano dove, le loro voci, sicuramente ben impostate, venivano accompagnate da tappeti elettronici, che causavano un effetto "pop esotico", che poi sarebbe diventato di moda anche con le rielaborazioni di altre cose, perfino antiche (vedasi Melpignano ed i suoi "Fiumi di parole").
Diversi anni fa, forse anche troppi, venne alla ribalta un "ragazzo di ferro", nato a Latina, che, sfruttando il patetismo della "magia di Natale", e la sua bravura ad infiocchettare note, tramite l'accordatore vocale, ha sfondato nel mondo intero senza neanche chiederci "Perdono!".
Di che cosa si può fare una cronaca minuto per minuto? La risposta potrebbe essere: "Una partita di calcio!". No! I Camaleonti, pentiti della bellezza di alcuni loro brani beat, da "L'ora dell'amore" ad "applausi,", hanno fatto la cronaca di un parto, episodio di malasanità incluso. Questo, d'altronde, richiedeva il "prog" italiano.
Qualche anno fa, un cameriere con la passione del canto, decide di sfogarla sulla pubblica piazza. Il suo primo tentativo fu quello, fallito, di andare al Premio Recanati. Paolo Bonolis, mosso da compassione, lo ha fatto esibire fuori gara, con un altro brano di cui dovremo parlare, ma non vi anticipo niente. L'anno dopo, sempre nella "città dei fiori", il signor Peppe vince il festival con questa confessione: "Vorrei avere il becco per accontentarmi delle briciole". Orribile!
C'era una volta un cantante napoletano che, dopo aver ammorbato i suoi concittadini per anni, non si accontentò più di limitarsi. Oltre ad iniziare a cantare in italiano, si aprì a tutta la "latinità", cantando orribili pezzi in pseudospagnolo, magari anche con ritornelli o frasi nella nobile lingua di Parigi. Questo è uno degli esempi, con ritmo flamenco-caraibico, modello "Ciclone". Caro Gigino "mon amour", ti sopporterei di più se ti dessi una calmata!
Come si fa a mettere in una classifica di brani brutti un buon brano di una buona cantante catanese, per di più coraggiosa? Forse non vi piace che usi degli accordi diversi dallo standard, che vi obbliga a scervellarvi un po' se la volete suonare con la chitarra? Si può essere discordi con lei,su varie cose, a me ad esempio non è mai andata giù la sua partecipazione alla N.D.T., ma questa collocazione la trovo ingiusta. Siete un po' confusi in materia di schifezze musicali.
C'era una volta un ragazzino, dalle forti crisi di identità, che si autodefinì "pirla" in una canzone. Il fatto che se la sia autodedicata è una supposizione ed un auspicio mio, ma questo non è bastato per farlo desistere dalla carriera canora, o meglio "rappistica", perché lui è il Fabrifibra, di cui nella parte personale potrò e dovrò riparlare.
Quando la Roma vinse il suo secondo scudetto, Antonello Venditti, uno dei suoi più grandi tifosi, ha scritto questo capolavoro, che i suoi fan hanno elevato ad inno, e forse per questo è andato a stufo. Credo, però, che in una classifica di cose brutte, il pezzo non sia una priorità, anzi, ci sta indegnamente. Evviva "Grazie Roma!".
C'era una volta un "Pupo" toscano, che, stanco di sfogare la sua profondissima passione per il canto solo per pochi intimi, decise di farsi sentire da tutti. Enzo Ghinazzi, prodotto fra l'altro da un grande come Giampiero Reverberi, arrangiatore di album come "Tutti morimmo a stento" di Fabrizio de Andrè, riuscì a sfornare uno scempio, che tra l'altro è ispirato al mio gusto di gelato preferito. Fortunatamente, e qui lo dico, non è riuscito a farmelo odiare. Naturalmente, lo dico per la cronaca, la canzone presa di mira è "Gelato al cioccolato".
Già si è accennato allo scempio collegato all'album con cui, l'appena difeso Antonello Venditti, salutava il "Secolo breve". Il titolo dell'album, ed anche della canzone che giustamente troviamo in ventitreesima posizione, è "Goodbye n9ecento". Il brano, salvato solo da una piccolissima parte di pianoforte che lo umanizza, è talmente patetico che, signori, ci augurava di avere fortuna in questo fatidico XXI secolo, che come si è visto non ha fatto che peggiorare le piaghe del precedente.
Non so chi sia l'interprete del brano che è giustissimamente in ventiquattresima posizione, un rockettino apocalittico intitolato "La croce". E' in tonalità minore, situazione che caratterizza il testo, anzi lo rafforza, nel suo ricordarci che la nostra vita è un continuo "costruire" croci. Terribile!
Negli anni Settanta, oltre a pensare di ammazzare Vincenzo Micocci allora direttore della RCA, (a lui è rivolto il "Vincenzo io ti ammazzerò" di "Milano e Vincenzo"), Alberto Fortis pensò di minacciare ad una donna di fare non so più che cosa, con lei "Nuda e senza seno". Come vedete, signori, le apocalissi continuano.
Ancora pericolosa, magari non apocalittica, è la "Regina di cuori" del toscano Piero Pelù che, uscito dai Litfiba dopo averci fatto cose interessanti, è diventato un pericolo pubblico, anche perché è senza frontiere anche di genere. La protagonista di questa canzone, ragazzi, cosiccome si faceva negli anni Venti, viene definita "pericolosa". Vi ricorda qualcosa la "Vipera" scritta da un autore napoletano che non mi ricordo? Il Pelù, poi, per noi appassionati di musica popolare, è un vero pericolo. Conoscete la sua versione di "Kali nifta"? Andate su Youtube se vi va, e buonanotte decenza!
Un grande chitarrista flamenco, specializzato anche in fusioni con il jazz che si chiama artisticamente Tomatito, ha fatto delle figlie che ci hanno ammorbato, per poco tempo per fortuna ma comunque ammorbato, con un brano inclassificabile. Il testo è insignificante, come il titolo, musicalmente non è etichettabile. Giocava, quindi, semplicemente sulla nostra stupidità. Il brano è "Asereje", e loro, ovviamente rispetto al nome artistico di papà, sono Las Ketchup (c'è da dire che Tomatito significa pomodorino).
"Vanno, vengono, a volte ritornano". (Da "Le nuvole", di F. De Andrè). Probabilmente la mia anima deandreiana mi rinfaccerà questa citazione come un grosso tradimento, ma è l'unica maniera che ho di reintrodurre il toscano Piero. Eccolo qui, caparbio, a minacciarci, con musica inclassificabile, che ci sarà e ci tormenterà "con tutto il mio entusiasmo!".
Una delle poche ragioni di infelicità di cui mi posso ricordare nella mia gaudente infanzia, è il fatto che questo brano, interpretato dal "vocione" (Al Bano) e il "vocino" (Romina), veniva gettonato sempre dal giradischi di mia sorella (già citata). Il brano è una tarantella, perché Al Bano già allora era orgoglioso di poter sputtanare la musica della sua terra. Quindi, signori di "Pizzicata", non mi riesce facile capire la meraviglia che avete dimostrato nei confronti della performance degli Arakne insieme al cellinese.
Già i miti greci, bellissimi, ci avevano informato del fatto che il vento avesse delle figlie. Negli anni Ottanta, queste, sotto forma umana, si sono materializzate ed hanno cantato di uno che "miscuglia" le banane, le fa in "salsa verde" e "chi le mangia nulla perde". Secondo me sì, ma questi sono gusti.
Il "vocione" e il "vocino", oltre a raccontarci come era la loro "Felicità", hanno voluto anche denunciare, con vent'anni d'anticipo sugli Aramirè di "Mazzate pesanti", i mali della terra di Puglia, da cui il "vocione" proviene. Il brano, intitolato "Cara terra mia", era scandito da due cori che si rimpallavano: "Come va, come va!" "Tutto ok, tutto ok!". Terribile!
Indecente! "Porta portese", tra i brani di Baglioni, è sicuramente uno dei più belli, se non altro caratteristici, di una romanità che non esiste più. Mi piacerebbe sapere chi e come mai l'ha buttato lì! Datemi un po' di tempo, fatemi finire il vostro centinaio, che dopo ve li ricordo io gli schifi veri!
Negli anni Ottanta, aiutato da Pierangelo Bertoli, il "magico Liga" arriva alla ribalta. Gli inizi, gli va riconosciuto, andavano anche in una direzione buona: amo molto brani come "Ho messo via", "Non è tempo per noi" ecc. Dopo "buon compleanno Elvis", però, il cantautore ha iniziato una china discendente che riesce solo raramente ad arrestare. Il brano presente in trentatreesima posizione, "L'odore del sesso", è sicuramente tra i più brutti da lui scritti. Musicalmente, dico io, è inclassificabile, alternativo, caratterizzato da un ossessionante giro di chitarra elettrica, oltretutto distorta, suonata dal "capitan" Federico Poggipollini.
Nel 1992, una diciottenne Laura Pausini, con tanta voglia di raccontare al mondo del suo Marco che non torna più, riesce a sfondare nel mondo intero, calcando anche sullo stereotipo secondo cui, noi donne italiane, saremmo tutte melense e patetiche. La sua voce non è male, bisogna dirlo, ma poi non ha niente di speciale.
Nei paesi baschi francesi, nasce un signore che, dopo aver fatto qualcosa di interessante con i Manonegra, chiamandosi Manu Chao, inizia a fare, da no global qual è , la musica più globalizzata del mondo civilizzato. Il suo genere, ben presto, arriva verso un elettroreggae insopportabile, con il quale, per stare simpatico a tutti, ci racconta le sue passioni, marijuana inclusa.
Claudia Mori, specializzata in terribili canzoni a duo, interpretate con moltissimi uomini oltre a suo marito, ne propone una che, credo, sia la versione edulcorata, anzi stravolta, della bellissima "Je t'aime moi non plus" di Serge Gainsbourg e Brigitte Bardot. Il brano della Mori, va da sé, per essere simpatico ed abbordato dalle persone "timorate di Dio", non ha un briciolo di sensualità e "Buonasera dottore!".
Negli anni Ottanta, purtroppo, il grande cantante messicano Luis Miguel, non so da chi né perché, fu costretto ad interpretare, durante una di quelle edizioni del Festival di Sanremo in cui si cantava in playback, la terribile canzone, scritta tra l'altro dal Salvatore nazionale (Cotugno), intitolata "Noi ragazzi di oggi". Sono d'accordo sullo sparare a zero contro questa canzone, mi fa imbestialire il fatto che in Italia non siano mai arrivati i bellissimi dischi di "boleros" che Luis Miguel ha iniziato a fare tornato a casa sua.
Dopo essersi dedicato seriamente alla musica popolare, siccome essa è un tarlo che rode l'anima di chi l'ha frequentata, il cantautore Alberto Camerini, convertitosi all'elettronica, l'ha condita con un po' di etnicità e un altro pizzichetto di germanofilia, che negli anni Ottanta non so come si fosse impossessato di lui. Il brano che troviamo qui, "Tanz bambolina", è un brano su un accordo solo e su una nota sola, eseguita da una voce spettrale, spero resa tale dagli accorgimenti tecnici!
Nel 1993, il cantante toscano Marco Masini, dopo averci fatto sapere quanto fosse "disperato" ed averci informato delle sue lotte per scopi falliti, manda tutto a fare in..., quello che mi consola è che ci racconta anche di quando ci mandavano lui.
Sanremo 2002. Il Gianni nazionale, bravissimo cantante, è in gara con uno dei suoi brani dal "respiro internazionale", facente parte di quel repertorio interpretato sotto l'influsso del "naso che canta" (Ramazzotti). Brano terribile, lento ma inclassificabile, con un testo sconnesso, insomma da dimenticare, dato che è impossibile esserne "Innamorato".
C'era un ragazzo italiano che, come tanti, dovette far fortuna all'estero, infatti iniziò nel glorioso festival cileno di Viña del mar, per poi far fortuna qui. Il ragazzo in questione, Paolo Meneguzzi, da ormai troppi anni ci tormenta, e miete consensi, con brani su regole d'amore, tradimenti veri o presunti, tutto condito con sound da discoteca. Purtroppo, si capisce ma è meglio dirlo, lui non è stato ancora fagocitato! Il brano presente in classifica è "Verofalso".
Al quarantaduesimo posto, signori miei, arriva un pezzo di una pugliese che, nonostante il mio grosso amore per la sua terra, o forse proprio per quello, io odio profondamente. Mi riferisco all'attuale (credo) signora Carrisi. Il brano di Loredana Lecciso, questo è il suo nome se ve lo eravate scordati, si intitola, pensati nu picca, "Si vive una volta sola". E' un brano dove, con i ritmi "cicloneschi" di cui si è ampiamente parlato qui, si ricorda la necessità di godere i piaceri erotici che la vita dispensa. La voce della Lecciso, non coadiuvata dal "vocione", è un "vocino", forse meno esile della signora "Potere", ma comunque nullo. Il brano, oltretutto, è cantato a note raddoppiate, da questi benedetti, ma da me sempre maledetti, artifici della tecnica.
Ho capito, ormai, che amate accanirvi contro il Domenico Modugno anni '70, ma io continuo a dire che fate male. Ad un artista, credo, si debba riconoscere la qualità, ed in una "classifica di schifi", ce n'è qualcuno che non ci dovrebbe entrare. Modugno, per me, è uno degli intoccabili. Sono d'accordo che né "Piange il telefono" né "Il maestro di violino" stiano tra i brani più belli del brindisino, ma aspettate che io vi ricordi qualche vero schifo che voi avete omesso magari solo per decenza.
Non posso commentare questa posizione, non conosco il brano e non mi va di abbrutirmi, voglio solo dire che sulla religione ve ne sono svariate, mentre voi, forse per decenza, ci avete messo solo questa!
Quando io ero una bambina, di otto-nove anni all'incirca, uscirono una serie di canzonacce lesive della dignità della donna, perfettamente preparatorie di ciò che ci propina ora il nostro amato Premier, di cui, una, con molto piacere, me la trovo spiattellata qua. "Siamo donne", se è possibile, è una delle peggiori, perché pretenderebbe di far vedere che "oltre le gambe c'è di più", ma vi assicuro che non ce l'ha fatta! Le interpreti, Sabrina Salerno e Jo Squillo, sono veramente indecenti. Per fortuna, sono state subito rimosse dal mercato discografico e la canzone non è più trasmessa alla radio.
Voglio ringraziare coloro che hanno fatto questa classifica, perché mi hanno permesso di conoscere delle brutture supreme di cui io, beatamente, ignoravo l'esistenza. Una di queste, signori, la troviamo al quarantaseiesimo posto. E' una marcettina, modello Orietta Berti con "Fin che la barca va", interpretata da Marisa Sannia, che, però, ha saputo lanciare e rendere giustizia ad alcuni capolavori come "Casa bianca" del grande Don Backy. Ci sono brani che, per essere completamente schifosi, hanno bisogno di un testo sconnesso. Questo, ragazzi, è uno di questi. Non ve lo so spiegare, quindi vado avanti. Se volete del male a qualcuno, abbiamo trovato, anche nella musica leggera, un brano infallibile per non farlo più venire a casa vostra. (L'altro che vi avevo consigliato era "Pinguli pinguli" delle Triace!). Questo di Marisa sannia si intitola "amore amore".
Quando schifo significa anche volgarità, ed amare il blues significa mangiare cavoli a merenda per campare meglio, nascono capolavori della "musica di cacca" come questo "Sento le campane" del primo "bluesman de noantri" che sia mai esistito, Adelmo Fornaciari, in arte Zucchero! (C'è adesso un cantante neomelodico napoletano che si chiama Zuccherino, è altrettanto indecente!).
Il Gianni nazionale diceva che "Uno su mille ce la fa". Tra questi mille, secondo non so chi, c'è anche il rocker di Zocca, il Vasco nazionale. Lui, dato che ce l'ha fatta, ora spara la sua morale a tutti, con "prospettazioni" (per scimmiottare il nostro Premier) indecenti. Lui, dall'alto del suo esempio, infatti, ci dice cosa è giusto e cosa sbagliato, senza neanche il beneficio del dubbio. Io, sinceramente, alcune frasi sarei anche portata a condividerle, ma dette da lui, che di quelle dinamiche che esecra è uno dei più grandi beneficiari, suonano veramente ipocrite. Ricordatevelo: per essere impegnati, anche solo per finta, "Basta poco".
Quando facevo le superiori, scoppiò la "Piottamania". Avevo una compagna che era una sua grandissima ammiratrice, la quale ci faceva sentire a tutti, biascicata da lei, la sua versione personale del "supercafone". Non me lo posso dimenticare, ma mi consola il fatto che sia stato fagocitato dal "sistema".
Nel 1970 il "molleggiato" vinceva il Festival di Sanremo, con un brano contestatario, che però era "anticontestatario", ossia un manuale breve su come far digerire, distorcendoli addirittura, alcuni temi alla stupidissima canzone di consumo. La canzone in questione, per travestirsi meglio da quello che non era, aveva strutture etniche, se ci si pensa bene si potrebbe paragonarla addirittura ad una tarantella! Il testo, interpretato come esecutrice femminile dalla moglie del Celentano, è una vergogna. Continuando in simbolica simbiosi con il brano precedente, va ricordato che in una delle precedenti ma recenti edizioni di Sanremo, questo fu reinterpretato, guarda caso, proprio da Er Piotta. La versione sua non me la ricordo fino a poterla commentare, ma mi faceva pensare al "Supercafone" di cui sopra. A quanto pare, nonostante lo pseudosperimentalismo de "La grande onda", brano dove venivano ampiamente saccheggiate idee armoniche dal nostro folklore, il ragazzo romano non si era effettivamente evoluto, e forse credeva davvero che "chi non lavora non fa l'amore".
Il cinquantunesimo posto è occupato da una cantante in lingua inglese che, già in passato, era stata oggetto dei miei strali: la deleteria, ora decaduta anche se sulla strada del ritorno Britney Spears. Non mi va di parlarne.
Subito dopo troviamo, ancora una volta, il "Magico Liga". Il brano in classifica a me non piace, ma date le troppe e gravi omissioni che si sono fatte pur di farcelo entrare, mi riservo il diritto di assolverlo e riportarlo tra le cose brutte ma non inascoltabili: "Certe notti". In fondo, ragazzi, non è altro che un inno ad una vita urbana che, nonostante il nostro non condurla, va comunque rispettata, anche se essa, con la sua prepotenza, magari eclissa alcune nostre profonde passioni.
Il 09/09/99, oltre al già citato ed esecrato "Goodbye n9ecento" di Venditti, usciva un altro disco colto da "sindrome da saluto del 'secolo breve'". L'album in questione era l'orribile "Ciao", del bolognese, ormai convertito a musica futurista Lucio Dalla. La canzone che dà il titolo all'album, completamente accompagnata da strumenti elettronici, può solo essere accettata come esempio di brano composto sotto effetto di sostanze stupefacenti. Il giro, basato su variazioni dell'accordo principale, pur essendo sviluppato, data la ripetitività del basso annulla i suoi effetti artistici. La voce del nostro, poi, è a dir poco ritoccata, filtrata, ammazzata. Terribile!
Uno dei periodi più fertili per quanto riguarda schifi musicali, sicuramente il migliore per quanto concerne la loro fattura, è quello degli anni Ottanta. Uno dei massimi artefici di questo repertorio era, chissà chi se lo ricorda, Francesco Salvi. Ciò che nessuno ha potuto dimenticare, credo, è questa canzone dove, in maniera delirante, un signore che deve parcheggiare, chiede ad un altro di spostare la sua macchina. Il brano, pura elettrodiscodance anni Ottanta, come molto repertorio del Salvi, è basato su un unico accordo minore, che permette al nostro di urlare, perché non è capace a cantare, le sue imprecazioni. Io, per quanto riguarda questo brano, ho un trauma personale, perché tra i miei parenti ce n'erano alcuni che stimavano molto questo cantante, e tutte le volte che andavo da loro, senza pietà, da uno stereo arrivavano quelle terribili note.
Abbiamo già parlato del signor Filippo Neviani in arte Nek, come colui che ha veicolato uno dei più sentiti messaggi antiabortisti mai avutisi nella storia della musica leggera italiana. Adesso, per brevità, potremmo dire che il brano che ci troviamo davanti è uno dei migliori come esempio del trattamento della donna come oggetto: "laura non c'è, è andata via, laura non è più cosa mia". Brano indecente, che sa nascondere il suo obbrobrio dietro un bel tappetino di accordi minori e di interessanti particolari ritmici. Comunque un vero schifo!
Ci sono dei titoli, storicamente, che più di altri portano alla composizione o alla possibilità di comporre degli scempi. Uno di questi è "Miele". Con questo titolo, negli anni Settanta, ci si era cimentato il gruppo napoletano Il giardino dei semplici, spenta emulazione dei Cugini di campagna, caratteristica nascosta dietro un uso sicuramente migliore delle voci. Ma il brano di cui dobbiamo parlare non è questo. Qui, ragazzi, si deve parlare di un pezzo, di quelli inclassificabili, scritto da Gigi D'alessio insieme al suo fido paroliere D'agostino. Il brano, chi può dimenticarselo, era stato singolo di lancio di uno degli album più ruffiani del nostro intitolato "Una come te". La canzone, in fondo, non fa altro che ribadire i concetti beceri dell'amore moderno e "neomelodico", messi in salsa latina.
Nominati e visti! Se nel riferimento al Giardino dei semplici avevo nominato i Cugini di Campagna, adesso mi trovo tra le mani il loro maggiore successo, la "Anima mia" tanto amata da mio padre. E' davvero brutta, anche perché l'uomo non si pone neanche il problema di capire perché è stato lasciato, si lamenta semplicemente dell'evenienza. Poi, va detto, che il brano è condannabile anche perché è cantato con un'innaturalezza che porta le persone a disconoscere l'emissione, spesso molto bella, dei timbri "normali". Il "falsetto", credo, nella musica leggera è penoso. Si può e si deve usare in alcune parti molto specifiche nella musica classica, soprattutto nel Barocco; se si è molto bravi lo si può usare in musica tradizionale, vedasi Uccio Aloisi con gli Ucci, ma in musica leggera è veramente orticante.
1992. L'anno in cui tutto si sfasciò, al Festival di Sanremo venne presentata una canzone che aveva la bruttezza nel DNA. Era interpretata, e da lui fu portata al successo, da Alessandro Canino. Costui, con un modo di cantare veramente "canino",compativa una ragazza che non rispettava gli standard imperanti di bellezza, arrivando ad innamorarsene. Musicalmente, come molto di questo repertorio, è inclassificabile, quindi basta.
1994. Anno del primo governo Berlusconi, e anno, a Sanremo, della partecipazione di una "squadra" composta di "vecchie glorie" della canzone italiana, con il brano più adatto a loro: "Una vecchia canzone italiana". Brano stereotipo, dove si dice che ancora nel mondo intero noi siamo conosciuti per "Nel blu dipinto di blu", (magari!), oltre a dipingerci come un paese di preti e suore (oddio, questo si sta avverando!). Passiamo un po' all'enumerazione degli interpreti che mi ricordo: Lando Fiorini, ottimo cantante romano; Nilla Pizzi, regina ormai detronizzata da un pezzo; Giuseppe Cionfoli, che non so come ha accettato, dato il suo essere frate di cantare qualcosa che non parlasse direttamente di Dio; Gianni Nazzaro, che ormai faceva quasi solo musical; Rosanna Fratello, che trent'anni fa ci aveva detto "sono una donna, non sono una santa"; Manuela Villa, figlia illegittima del "reuccio" ma unica e povera erede della sua arte. Non me ne ricordo più, ma ce n'erano davvero tanti di questi personaggi apocalittici: complimenti a chi ha permesso di inserirla!
Io, l'ho già detto, non sono assolutamente un'ammiratrice di Battisti. Però, signori miei, do ragione a chi, mettendola in questa lista, ha voluto simbolicamente condannare l'interpretazione del brano "La compagnia" da parte di Vasco Rossi. Costui, con la solita "supponenza rockettara" già deprecata da qualche altra parte, fa di un brano triste e quasi bello nella versione di Battisti e bellissimo in quella di Andrea Parodi, un brano da balera o da divertimento sfrenato. E' vero che nel testo la "felicità" si ritrova, ma c'è tutto il processo di ritrovamento, che è completamente ignorato dall'interpretazione.
Mi stavo già stupendo di non trovare niente dei Pooh in questa lista. Fortunatamente, eccoli qua!
Loro, ho scoperto, spesso nelle canzoni raccontavano, forse lo racconteranno ancora nonostante l'addio di Dorazio, quello che capitava nelle loro stesse famiglie. Gli artisti, si sa, sono estremamente volubili, si accoppiano e si scoppiano come se si mangiassero dei pezzi di pane. Infatti, uno dei temi più trattati dal gruppo, sono le relazioni adulterine, in atto od in potenza, come in questa ballata melensa e patetica intitolata "La donna del mio amico". Veramente brutta, perché ci fa capire come, spesso, per gli artisti, soprattutto ma non solo, il senso comune vige a malapena.
Non so se dire grazie o maledire quelli di http://www.hitparadeitalia.it/, per aver avuto l'idea di allargare questa classifica a brani non molto noti. Questa circostanza, comunque, come già detto, mi ha permesso di educarmi ed informarmi su brani che io, da sola, non avrei mai sentito. Uno di questi, talmente terribile che non sono riuscita ad arrivare alla fine del suo ascolto, è lo spettrale "Un boa nella canoa", facente parte della produzione anni '80 di Andrea Mingardi. Costui, sfoderando tonalità bassissime, ripete ossessivamente "c'è un boa nella canoa". Il tappeto, perché perdere tempo a chiarirlo, è elettronico.
Si è già parlato della produzione del Salvatore nazionale, ma si era accennato al repertorio pop degli anni Ottanta. Immaginatevi, se ce la fate, un Toto Cotugno "progressivo". La scena si svolge in un aeroporto, è la ragazza a lasciare il suo ragazzo per andare via, e questi, sopraffatto dal dolore, fa il pazzo. Il tutto, ragazzi, è condito da pezzi di sintetizzatore orribili ma molto efficaci per il genere trattato. Il gruppo che suona si chiama "Albatros", la canzone "Volo AZ 504".
Spesso, con gli anni, pur di andare "Oltre" se stessi, si smette di fare brani belli e semplici, imboccando la strada degli scempi complicati. Uno dei tanti artisti a cui questo è capitato è Claudio Baglioni, che in un album bruttissimo intitolato "Viaggiatore sulla coda del tempo", incideva un brano inclassificabile, che potrebbe essere benissimo una pagina di filosofia contemporanea, intitolato "Cuore di aliante". Non sto qui a discutere l'assenza dell'apostrofo nel titolo, né sto a raccontarvelo. Riesco, purtroppo, a dirvi solo che ve ne guardiate.
Negli anni Ottanta, pur di trasgredire, il nostro Vasco Rossi, fece un brano che fu adottato dalla Coca cola, per farsi pubblicità in Italia. E' un brano un cui verso "per l'uomo che non deve chiedere mai!", è diventato, addirittura, un simbolo di virilità. La canzone, se ancora non l'avete capito, è "Bollicine".
Si è già accennato al fatto che i brani dei dj siano spessissimo una miniera di scempi. Claudio Cecchetto, noto scopritore di talenti, in quegli anni si rese protagonista ed interprete di un brano tra i peggiori mai incisi, che fra l'altro, sempre pazzamente gettonato dal mangiadischi di mia sorella, ha mortalmente ammorbato la mia infanzia, perché, tra l'altro, in molte feste della mia classe elementare, se nelle sale c'era un piatto, lui arrivava sempre. Il brano, sicuramente divertente nei confronti dei bambini, è il "Gioca jouer", fra l'altro, e pochissimi se ne saranno accorti, anche questo è a ritmo di tarantella. (La Notte Della Taranta non si è inventata niente!).
Uno dei peggiori cantanti italiani mai esistiti, per lo meno a livello di composizione di testi, è Amedeo Minghi. Nel 1989, a quella fucina di scempi che è Sanremo, costui, coadiuvato da una sconosciuta Mietta, presentava "Vattene amore". Di questo brano, la parte più raccapricciante, entrata ormai nel linguaggio comune è: "trottolino amoroso dudu, dadadà", veramente patetica!
Mi stavo stupendo, signori, di non trovare niente degli insuperabili Luna Pop. Finalmente, sono stata accontentata, anche se ritengo che essi hanno fatto di peggio. Credo che ciò che giustifica la presenza del brano in classifica, è la terribile struttura del testo, completamente sconnesso. Il brano, "Un giorno migliore", infatti, musicalmente non sarebbe male.
Nel 1995 Lorenzo Cherubini, in arte Jovanotti, decide di pubblicare un "best of", che impreziosisce con uno dei suoi primi esperimenti di world music, nel quale è coadiuvato dal grande Ernestito Rodríguez alle percussioni. Il brano, che sembra un antesignano della filosofia del Taranta power di Bennato, è "L'ombelico del mondo". Potrebbe ricordare, ingrandita, la altrettanto terribile canzone del cortonese "Una tribù che balla".
Anche il rocker di Zocca, dato che l'argomento era diventato una questione di Stato, volle pronunciarsi, fortunatamente contro, queste megacelebrazioni per "La fine del millennio". Con questi nobili fini, però, costui è riuscito a celebrare uno dei maggiori omaggi allo scempio mai visti. Giusto per ricordarvela un minimo, vi dico che ha un accordo solo ed è tutta parlata, eccezion fatta per il ritornello basato su degli insulsi vocalizzi.
Avevamo già potuto sperimentare la pericolosità apocalittica di Piero Pelù, ma adesso ci dobbiamo ricordare di un suo esperimento di world music, intitolato "Toro loco". Mi ricordo solamente dei particolari musicali, perché ho la fortuna di non ascoltare il brano da un sacco di tempo. Non ve lo descriverò, vi dirò solo di guardarvene.
Abbiamo trovato i Luna Pop, ora troviamo il Cesare nazionale da solista. La canzone, a tempo di twist per dimostrare che il ragazzo possiede una buona cultura musicale, parla di tutto ciò che unirebbe gli uomini e le donne, ossia, in pratica e senza giri di parole, annullerebbe la differenza tra i sessi. Vergogna! Se questo annullare le differenze fosse non discriminare più le donne e rispettarne l'identità storica, ovviamente direi di sì. Siccome però questo abbattere le barriere significa semplicemente omologare, è ovvio che la mia risposta è categorica ed è "no!".
Io, e l'ho già potuto dimostrare, sono una grandissima ammiratrice dello Zero nazionale. E' ovvio, quindi, che sia molto offesa dalla presenza di un brano suo qui dentro, anche pensando alle gravi omissioni che si sono fatte pur di farcelo entrare. (Aspettate che finisco di commentare i vostri, che poi ve ne do un pochettino io di scempi seri!). Il brano a cui è stato riservato il settantatreesimo posto della graduatoria, signore e signori, è "Tutti gli zeri del mondo".
Nel Sanremo 1991, tra i più belli mai realizzati da quando sono nata, c'era un brano che andava nella direzione esattamente opposta alla bellezza: la pateticissima canzone "Perché lo fai". L'interprete, come poteva non essere lui, fu l'insuperabile, soprattutto quanto ad allegria, Marco Masini. Il brano, come ricorderete, è la cronaca di una conversazione con una sua amica tossicodipendente, che lui tenta di far desistere. Ovviamente, come spesso nelle sue storie, il protagonista "buono" fallisce: "Allegria!".
E torniamo con un artista che in questa esplorazione abbiamo già incontrato diversissime volte, il cantore Vasco Rossi. La canzone che troviamo è "Io no", appartenente al periodo più stancante della carriera del nostro, quello che, iniziato con "Gli spari sopra", ancora continua e non se ne vede una fine. Il cantante, ora, perduta ogni velleità trasgressiva, si diverte a fare canzoni da "finto duro", con cui non inganna più neanche se stesso.
Si è già parlato del "cameriere-cantante" Povia, ma ora possiamo spendere due parole sul brano che ce lo ha fatto conoscere, con il quale, costui, ci ha comunicato una grossissima novità: i bambini, di fronte ad ogni minima cosa, siccome non la hanno mai vista né provata, fanno "Oh!". Il brano, e con questo concludo, è uguale alla già esecrata "Vorrei avere il becco".
Ringrazio i signori di http://www.hitparadeitalia.it/, per avermi edotta sull'esistenza di un altro brano del cantante più triste d'Italia (Masini), intitolato "Chi se ne frega". Qui, il rituale pessimismo del nostro, addirittura diventa cosmico, e mi pare venga espresso con una dose di musica spettrale degna di Dario Argento. Il brano è terzinato, bethovenianamente, è in mi minore, e la tristezza, quando lo ascolti, ti penetra in ogni osso come l'umidità.
Sono molto felice di trovare questo brano, anche se ormai ci stiamo avvicinando alle posizioni finali della classifica. Il brano, signori miei, è uno dei più brutti mai cantati, ed è stato interpretato da una signora che di brutture se ne intende moltissimo: Orietta Berti. La canzone è del 1967, ma potrebbe essere stata scritta trent'anni prima. Mi riferisco, se ancora non lo avevate capito, a "Io tu e le rose".
Si sono già trovati, in questo ormai lungo peregrinare, parecchi brani del Vasco Rossi stanco e stancante. Il cantante, non convinto di questa sua condizione, data la sua grandissima fama, oltre ovviamente a continuare a cantare, prosegue anche nella sua eroica opera di condivisione della sua meravigliosa arte. Irene Grandi, che come cantante rock ha il suo mito, ha accettato di cantare questo suo brano, "Prima di partire per un lungo viaggio", pervaso, come già si è notato per altri, dalla morale gratuita di qualcuno che "ce l'ha fatta". Orribile!
Finalmente, e mi stavo per arrabbiare, riesco a parlare di questa indegnissima canzone. Innanzitutto, e va detto, il suo interprete è il figlio di Roby Facchinetti dei Pooh. Il ragazzo, giovane come è, faceva serenamente il dj in locali delle parti sue, quando ha deciso, non si sa con quanta autonomia, di farsi sentire addirittura come autore di brani. Questa "canzone del capitano", fu uno dei più insistenti tormentoni di un'estate ormai gettata nel cassetto. Il brano, reppato perché fa più "Salta non ti fermare!", parla di tutto e di niente, questo in massima coerenza con una tendenza più che generalizzata, ad usare i temi impegnati come specchietti per le allodole. La voce di dj Francesco, che ora fa il cantante perché fa più chic quindi ha tolto dal suo nome la prima parte, è indescrivibile: è completamente stonato, ma tanto, oggi, per cantare l'intonazione è ciò che conta di meno.
Non si sono mai montati scandali, che io mi ricordi, sui brani che istigano alla violenza. Ne abbiamo uno bello e buono all'ottantunesimo posto, la rock ballad "La mia ragazza mena", con cui J Ax, ancora facente parte degli Articolo 31, si scopriva in grado di fare finta di cantare. Non ve la posso descrivere sennò diventerei volgare: fuciti fuciti fimmine e mascoli! (uomini e donne fuggite fuggite!).
Posso concordare con chi ha messo questo brano dei Pooh nella classifica, ma solo perché ha un testo patetico. La musica del brano "Uomini soli", infatti, la ritengo tra le più belle mai scritte. Aspettate! Aspettate! Datemi il tempo di finire di commentare le vostre, che vi ricorderò io un pochino di merdoline che voi avete evitato!
Non si fa! Baglioni, nel suo primo repertorio, è intoccabile! Vale quanto detto appena sopra! Addirittura hanno avuto il coraggio di inserire in classifica "E tu".
Io, prima di conoscere questa lista, non sapevo dell'esistenza di questo cantante, che negli anni Ottanta ha fatto questa bellissima merdolina erotica, oltretutto stonandola completamente. Il cantante è Gianni Drudi, la canzone è "Piki piki". Orripilante!
Quando gli adulti si mettono a scrivere per i bambini, o anche solo pensando a loro, hanno in mente, anche se non se lo confessano, di abbrutirli da subito. Si sa quante difficoltà abbiano i piccoli a fare la pipì nel dovuto posto. Però, sinceramente, credo che se fossi un autore, mi guarderei bene dallo scrivere una canzone di questo tipo: "Mi scappa la pipì, mi scappa la pipì, mi scappa la pipì papà: non ne posso proprio più, io la faccio qui!". Nella mente dell'innocente bambino, forse all'insaputa degli adulti ignari, si sviluppa già la tendenza alla maleducazione dominante. Di questo avete voglia? Con canzoni come quella di Pippo Franco, e con un'altra che le fa da contraltare che vi ricorderò io, si dànno esempi bruttissimi!
Il "ragazzo di ferro" torna tra noi, sempre con un brano da "Rosso relativo", unico cd preso in considerazione per questa lista. No! A chi ha fatto scempi a dismisura, non si debbono fare trattamenti di favore di nessun tipo! "L'olimpiade" dello scempio, potrebbe avere, ne sono sicura, l'ex grassone di Latina come uno dei suoi tedofori!
Sono felice, questa volta, del brano di Antonello Venditti posizionato, anzi l'avrei ben visto al posto di "Grazie Roma". Non ho capito chi sia questo Sting, perché, solo molto difficilmente, riuscirei a vedere quello che conosco io, cantante dei Police e solista, come nostro salvatore da un'emergenza nucleare!
"Annarè", per chi non lo sapesse, è una delle canzoni più note a Napoli del repertorio del Dalessio nazionale, risalente a quando, fortunatamente, ammorbava solo la sua città. Il brano non me lo ricordo, riferisco solo una frase che il cantante dice spesso: "Il film che facemmo da questa canzone, a Napoli incassò più soldi di 'Titanic'".
Questa volta non voglio ringraziarvi ironicamente ma davvero. Grazie per avermi fatto scoprire Filipponio, cantante di cui non sapevo l'esistenza. Per quanto riguarda il suo piazzamento nella classifica che ci interessa, è ingiusto: avete rimosso troppa robettina che penserò io a sgominare e dissotterrare.
L'ultima decina, signore e signori, si apre con un brano dei Luna Pop, che è veramente "Qualcosa di grande" in quanto a scempio. Il gruppo, o meglio il signor Cesare Cremonini, non sarebbe neanche male musicalmente, ma all'epoca con le parole non ci sapeva proprio fare. Posso giustificare quindi la presenza del gruppo e della produzione solistica del Cesarone, ma aspettate aspettate, venite venite, che tra un pochettino viene il bello!
Io mi sono sempre chiesta: come mai, d'improvviso, Ivana Spagna ha sentito la scintilla di dover cantare in italiano? E' stato forse il "Re leone" a suggerirglielo? Beh, io direi che ha fatto male. Per cantare in una lingua, bisogna, prima di tutto, ripulire la propria dizione da ogni minima traccia fonetica di quella che era la nostra precedente lingua di espressione (fosse anche stata solo artistica). La canzone di Spagna di cui dobbiamo parlare, presentata al Festival di Sanremo 1995, è una delle tante dedicate a coppie scoppiate, nonostante che le unisca un grosso e vero amore. Allora: perché diavolo vi siete separati? Io, sinceramente, la "Gente come noi" non la capisco.
Non avevamo ancora trovato, grave, un brano di Max Pezzali, uno dei più grandi specialisti in "Musica di cacca" esistenti da noi. Al novantaduesimo posto, quindi quasi vicina alla salvezza, reperiamo "Sei un mito" , uno dei singoli che trainò l'opprimente successo di "Nord, sud, ovest, est", album che, vi giuro, dovrei ancora possedere. Il brano, preso da solo è terribile, ma io credo che nel disco e nel repertorio della band vi sia di molto peggio: aspettate e ne vedrete delle stupendissime! Se veramente qualcuno si comportasse come in questa canzone per andare a letto con qualcun altro, direi che starebbe male!
Complimenti per il novantatreesimo posto, appannaggio di una delle più odiose canzoni mai scritte sulla faccia della terra: "Ti amo" del "tozzo" nazionale. Io, però, ne metterei un'altra di cui voi vi siete scordati, ma aspettate e ve la dirò! Non si può spiegare cosa mi fa schifo di "Ti amo", perché mi fa schifo tutto!
Neffa, cantante che dal rap è piano piano volato verso le più rassicuranti e convenzionali sponde del cantautorato all'italiana, di scempi ne ha fatti molti, e ce ne sarebbe uno molto peggiore di questo classificato al novantaquattresimo posto. Anche qui non riesco ad esprimermi, anche giustificare i motivi di una stroncatura non è sempre facile, soprattutto se, come qui, ti fa schifo tutto.
Riesco, finalmente, a vendicarmi di uno dei brani con cui mi si prende più in giro, data la mia conclamata allergia alle forme popolari usate a tavolino. Se si dovesse descrivere razionalmente questo brano, "Fin che la barca va", non lo si potrebbe che ridurre ad una stupida filastrocca per istigare alla rassegnazione, per ricordare che al mondo tutto si regge su disegni divini, ecc. Io dico: ma se ce l'ha detto Verga che queste sono tutte fandonie, noi come mai le seguiamo? Forse è vero che la Provvidenza è solo una nave che affonda? Per me sì!
E Dalessio si guadagna un'altra posizione, con un altro brano preso dal repertorio "nazionale", più specificatamente sanremese. E' un dialogo tra due persone che, mentre stanno godendo una bellissima notte d'amore, s'accorgono che qualsiasi cosa fanno, sono impediti dal fantasmino dell'altro amatore di lei, di cui il protagonista, flaccido come l'autore, ha moltissima paura.
Allegria! Ecco qui il più grande cantante triste d'Italia, il toscano "Marcolino" Masini, il quale, non so se ve l'eravate dimenticato, nel 1992, aveva inventato un nuovo sentimento, misto di malinconia e noia, a cui, affinché ci restasse in mente, aveva dedicato un album bruttissimo, in cui affrontava temi fondamentali come la "Paura d'amare" e altre amenità. Qui, sul novantasettesimo gradino, troviamo appunto la "masinesca" "Malinconoia". Bravi, avete riesumato una bella cacchettina!
Vedo che, mentre ci si avvicina alla chiusura, si tenta di mettere toppe su toppe come sul vestito di Arlecchino. Comunque il novantottesimo scalino, forse doveva stare un po' più su, magari anche al posto di "Piange il telefono", lo troviamo occupato dalla attanagliante "Nostalgia canaglia" provata dal "vocione" e il "vocino", che per l'occasione dànno davvero il meglio di loro. Per chi non sapesse cos'è il bellissimo sentimento della nostalgia, forse questo brano potrebbe andare bene, scioglierebbe anche le pietre dalla paura di risentirlo!
Il grande "Marcolino", quando si è stancato di fare il triste, perché ci si stanca di tutto, ha deciso di fare l'impegnato, cosa che viene benissimo a tutti. Basta sentire un po' di discorsi raffazzonati, pensare a tematiche di interesse comune, provare a reperire le opinioni comuni ed i modi normali d'affrontarle, ecco fatto il minestrone. Secondo gli illusi, il brano del Masini, sarebbe una denuncia della voglia di soccombere che hanno certe donne, un po' facili diciamocelo, di fronte alla ricchezza di qualcuno, che magari le fa anche rinunciare ad un amore casto e pulito (che ovviamente queste avrebbero avuto solo con lui!). Orribile, non a caso il brano ha tutto brutto, il titolo è "Bella stronza".
(Tanto)3
La chiusura è serissima, bravi! Questa canzone, che precedette l'uscita di uno dei cd più fortunati del Lorenzo toscano, mi tormenta ancora "tantotantotantotantotanto". Infatti, Santu Sebastianu aiutami tu, è il gingle di presentazione della mia radio preferita, quando non decide di farmi sentire quelle altrettanto abominevoli sfilate di cantanti sanremesi che, spesso senza neanche conoscerla, la salutano. Il brano, dice "l'idiota di cortona", è ispirato ad una poesia di Petrarca. Credo, però, che dato che su questi temi l'ignoranza è diffusa, si può ingannare facilmente vendendo fischi per fiaschi. Musicalmente, oltre ad avere il tipico ritmo inclassificabile, a cui ormai siete abituati, è in re minore, e tiene perpetuamente questo accordo. Che esaurimento!
Pensavate forse che vi avrei abbandonati così? No! Ora viene il brutto selezionato da me. Andrò senza criterio, per non fare torto a nessuna merdolina. Mi riferirò prevalentemente all'Italia, ma dove gli altri hanno da contribuire, non dubitate che vi ci porto. Preparate la mascherina anticacca! Tre, due, uno, si parte!
Alle elementari, dovetti conoscere qualcosa che ancora mi tormenta le viscere: Ambra! A chi di voi appartiene il capolavoro "Ti appartengo"? Quanti di voi si ricordano la bellissima parte: "T'appartengo se ci tengo, m'appartieni se ci tieni, tu prometti e poi mantieni. Prometto, prometti!"? Era un incredibile rap in minore, che il "vocetto" della Ambretta nazionale, sussurrava ad un innamorato che non si decideva.
Rimanendo sullo stesso fronte: chi ricorda la fortunatamente meno conosciuta "Margheritando il cuore"? Beguine, quest'ultima, musicalmente fatta benaccio, ma signore che perla di cacchina!
Andando sulle straniere, sicuramente, uno spazio privilegiato lo ha l'America Latina. A chi sovviene la terribile "Papi chulo" cantata dalla sparita Lorna? Ho usato, senza pensarci, il verbo che peggio si adatta a questa canzone: "cantata". Lorna, per dimostrare meglio al ragazzo che ci voleva fare qualcosa di più della conoscienza, ansimava come se già stesse in pieno gioco amoroso, ed il testo diceva tra l'altro: "¿Te gusta el uhm? Y Lorna a ti te canta el uhm.". Avete visto che amenità che vi scovo: altro che "Grazie Roma!".
Adesso mettiamo in pace il dimenticatoio, veniamo all'attuale. Che se ne pensa della meravigliosa "Luca era gay" del "protetto del Vaticano" Povia? (la definizione è di mia sorella Chiara, la cito per farmi perdonare i numerosi massacri a cui l'ho sottoposta e l'ultimo a cui la sottoporrò) Tornando al Peppe nazionale, oserei dire che lui, oltre ad aver attentato alla dignità degli omosessuali, ha attentato alla dignità umana! Poi, siccome ha capito che non sa cantare, si è dato al rap. Quanto durerà?
Riapriamo il dimenticatoio, per ricordare una canzone dei Ricchi e poveri intitolata "Mamma Maria". Cara Chiara, perché mi ci hai tormentato? Va bene che eri bambina e ben presto hai iniziato ad ascoltare stupendissima musica, ma a me è restata l'impronta indelebile!
Per fare uno scempio, spesso, si utilizzano anche le tragedie che avvengono. Cinquantasei artisti, equamente divisi tra i generi che fanno parte della musica "digerita dal sistema", hanno inciso un brano incredibile, che ricorda molto "We are the world", anche se quest'ultima è canzone molto più bella, e si intitola "Domani 21 aprile 2009". La mattina che l'ho sentita, mentre stavo deliziando il mio corpo con la ginnastica, quasi non potevo credere che per fare quello scempio si potessero essere sprecati tutti quei soldi. E' un brano con il quale, la banda bassotti, dice agli abruzzesi che "con un po' di fortuna si può dimenticare", e che devono ricostruire "le scole, le case ma specialmente lu core". La mezza frasetta riportata in leccese, signore e signori, non è opera mia, ma è merito di uno dei membri dei Sud Sound System, gruppo che ormai, solo a chiacchiere fa raggamuffin, a fatti fa solo soldi, sputtanando se stesso e, quel che è peggio, il salento. Non vi so descrivere il brano, so solo dirvi di scegliere qualsiasi modo per aiutare l'Abruzzo all'infuori di questo disco.
Un pretesto per uno scempio, può anche essere un omaggio ad un artista che si ama. Tiziano Ferro, che già è stato ampiamente massacrato in questo articolo, ha fatto un omaggio alla Raffaellona internazionale, con il brano "raffaella è mia". Ritmo inclassificabile, ma quel che è peggio, forse è l'eccitazione da fan, che io posso vivere privatamente per chi mi pare (io la vivo ad esempio per gli Zoè), ma non sbandiererei mai in qualcosa di pubblico. Vergognati!
Ma forse, a pensarci bene, fare un omaggio schifoso alla Carrà era la cosa più coerente. Infatti, io, a parte "Salutala per me", non riesco a trovare una sola canzone bella nel suo repertorio. Voglio citare, giusto a mo' di esempio, "Tanti auguri", brano che dipinge l'Italia come un paradiso del sesso "da Trieste in giù". Orribile!
Basta, ho dato un sufficiente contributo, torno alle cose serie, il divertimento scema. Arrivederci!

mercoledì 20 maggio 2009

Intervista a Gian Pieretti

Carissimi lettori, eccovi un'altra intervista, questa volta ad un grande interprete della "canzone di protesta", alla Bob Dylan, degli anni Sessanta: Gian Pieretti, l'autore di "Pietre".
D: Qual era la musica che circolava nella sua famiglia quando lei era molto piccolo? Che cosa si ricorda?
R: Mi ricordo le bombe. Non c'era musica allora, non avevamo neanche la radio. Io sono nato in tempo di guerra (1940 n.d.r.).
D: Lei, come ha scoperto la musica?
R: Beh, la musica è vita! Io la musica l'ho scoperta verso i dodici-tredici anni, frequentando le prime festicciole, comprando i primi dischi, facendomi le idee sui cantanti che c'erano in quel momento.
D: Cosa ha scelto all'inizio?
R: I cantanti che mi piacevano, erano Perry Como, Little Richard, Clif Richards, Wilson Picket, Eddie Cocklan...
D: Però poi, agli inizi della sua carriera, fece dei pezzi beat.
R: In verità, io sono l'ultimo rappresentante del beat. Io sono l'ultimo beatnick esistito, uno che ha conosciuto Donovan, Bob Dylan, Crosby, Nash, Bruce Spristeen... e mi sono messo a fare la musica che loro portavano in giro. Sono stato il primo a fare questo genere di cose, cominciando come cantante di protesta.
D: Quindi: questa evoluzione che mi sconvolge abbastanza da cantante "beat" a cantante "folk", lei la trova completamente naturale.R: Attenzione: il "folk" era "beat". Questo termine significa "battere", e simboleggia solo l'entrata della batteria, che insieme alla chitarra ha ben presto caratterizzato il "folk". D: Il repertorio di quegli anni, lei l'ha scritto insieme ad un suo grande amico, l'ottimo cantante Ricky Gianco. Mi racconti come vi siete incontrati.
R: Ci siamo incontrati davanti ad un cinema, dopo le mie insistenti telefonate (gli telefonavo anche tre volte alla settimana). Io avevo scritto delle canzoni e volevo fargliele sentire, lui aveva già fatto delle incisioni. Da lì abbiamo iniziato una grande collaborazione.
D: Tra i brani di quell'epoca ce n'è uno che io amo pazzamente: "Il vento dell'est". Mi racconti la storia.
R: "Il vento dell'est" è stata composta nel 1966. Eravamo andati in Inghilterra ed avevamo conosciuto Donovan, e lui parlava spesso di questa scogliera scozzese dove c'era questo vento che arrivava da est, e questo "east wind" arrivava così spesso, che un bel giorno ho detto: "Faccio una canzone che si chiama vento dell'est!". Allora con Ricky ci siamo messi ed io ho scritto il testo mentre lui si è occupato della musica.
D: L'anno successivo, 1967, lei ha avuto un altro grande successo: "Pietre". Come le è nato il brano?
Intanto, dalla coscienza che tutto ciò che si faceva non andava bene. Molto tempo prima, avevamo ascoltato una canzone (o una poesia?) dell'Ottocento napoletano che diceva le stesse cose; poi abbiamo elaborato una buona musica, e così è nato il brano.
D: Quindi non siete partiti dal brano di Bob Dylan che tutti vi accusano d'avere copiato.
R: Assolutamente no! L'unica cosa che ricorda la canzone di Bob Dylan, è l'atmosfera, cioè la banda.
D: L'anno successivo, lei sforna un altra canzone stupenda: "Felicità felicità". R: Con questo brano ci ho fatto il "Cantagiro", ma ci dovevo andare a Sanremo. Lì, però, conobbi Lucio Battisti e ci diventai amico.
D: Mi racconti l'esperienza di quel "Cantagiro", anche a livello di atmosfera.
R: Il "Cantagiro" aveva un'atmosfera molto divertente: si andava, si cantava, la gente ci aspettava nelle strade e ci chiedeva gli autografi... purtroppo ci fu anche un po' di contestazione, quindi ci dovemmo difendere.
D: Tornando al brano "Felicità, felicità.": da che cosa le è nato?
R: Era sempre una questione di protesta: si partiva dal fatto che il vento, quando soffia, la prima cosa che si porta via è la felicità.
D: Certo che eravate così poetici, che solo molto difficilmente questo repertorio può essere nominato "canzone di protesta.
R: La protesta era un filone, che ognuno interpretava a modo suo.
D: Mi citi qualche cantante italiano suo contemporaneo che considera "di protesta".
R: Ce n'erano tantissimi, ma posso dirle Lusini (l'autore di "C'era un ragazzo" portata al successo da Gianni Morandi ed interpretata da Joan Baez n.d.r.), o Roby Crispiano, che fra l'altro incideva con me alla Vedette.
D: Venendo agli anni '70, c'è una tappa Fondamentale di cui bisogna parlare, l'lp "Il vestito rosa del mio amico Piero". (1972). Come le è nata l'idea di fare un album tematico proprio sull'omosessualità?
R: Il mio primo brano su questa tematica, inciso con il nome di Perry, risaliva al 1964 e si intitolava "Uno strano ragazzo". Nel '72, poi, ho rincontrato un mio vecchio amico, che aveva fatto le elementari con me, e parlando con lui, scoprendo le sue difficoltà mi venne l'ispirazione. Il disco ora è introvabile e costa 1500 euro.
D: Dopodiché, lei diventa più produttore che cantante. Come mai?
R: Semplicemente perché non mi facevano incidere ciò che volevo.
D: Mi racconti la sua esperienza di produttore discografico.
R: Ho semplicemente perso del tempo. Ho prodotto vari cantanti, tra cui Rebecca, oppure, sicuramente più noti, i Quelli (gruppo da cui nascerà la Pfm, in cui militò anche un giovanissimo Teo Teocoli n.d.r.).
D: Come mai nel 1989 decide di tornare a cantare e di fare un lp completamente nuovo? (Don Chisciotte, n.d.r.).
R: Andai in Canadà, per fare uno spettacolo per gli italiani, e ne conobbi un gruppo, originari di Spineta Marengo (Al), ai quali ho fatto sentire le canzoni che avevo scritto e le abbiamo provate. Il gruppo si chiamava "Canadians", ed in quella serata c'era anche John Denver. (noto cantante americano n.d.r.). Insomma, il disco è frutto di un clima caldo, ed è quasi improvvisato.
D: Un'altra esperienza su cui mi vorrei soffermare è "Caro Bob Dylan". Come è nata l'idea di quel disco dal vivo?
R: Questo disco è nato, semplicemente, perché io volevo raccontare la storia di Bob Dylan, attraverso tutti quei cantautori che hanno fatto dei testi ispirati al suo repertorio o delle cover delle sue canzoni. (Il cd contiene anche una versione della "Canzone del bambino nel vento" di Francesco Guccini n.d.r.).
D: Parlami del disco precedente, l'album del 1992 "Bang".
R: "Bang" è inciso sempre con quel trio di canadesi, che già non si chiamava più "Canadians". I suoi componenti vivevano stabilmente in Italia, ed il gruppo si chiamava Tryo.
D: Voglio concludere questa intervista con qualche curiosità sul brano "La prossima generazione", scritto e cantato con Donatello.
Innanzitutto: come hai conosciuto Donatello?
R: Donatello l'ho conosciuto daragazzino, quando è arrivato alla Ricordi. Il suo repertorio era costituito da brani di Donovan (idolo riconosciuto da Gian Pieretti n.d.r.). Tutti i suoi primi brani d'autore, ("Ti voglio", "Girasole", "Alice è cambiata", "Giovane amore mio"), glieli ho scritti io.
D: Come è nato il brano "La prossima generazione"?
R: Io avevo un brano, che già portava questo titolo, inciso con chitarra ed armonica, l'ho fatto sentire a Donatello che lo ha apprezzato ma ha riscontrato la mancanza di un inciso, che ha prontamente composto. Il brano finito lo abbiamo mandato a Sanremo per quattro anni di fila e non ce l'hanno mai preso.
Dedico questa intervista a chi pensa che per essere un grande artista bisogna tirarsela e darsi arie: Gian Pieretti è una delle persone più gentili che io abbia mai conosciuto. Come tutti i cantanti di quel periodo, è profondamente amareggiato perché in Italia ormai, come dice lui stesso, a livello musicale "non si può far nulla".

Sui tamburellisti di torrepaduli

Carissimi lettori, oggi, siccome mi volevo ancora fare del male, ho visitato il myspace dei Tamburellisti di Torrepaduli, visibile all'indirizzo www.myspace.com/tamburellistiditorrepaduli.
Per chi non lo sapesse, e mi riferisco a quegli ignorantoni di "pizzicata", nel Salento esiste un genere chiamato Taranta, che il gruppo esegue insieme alla pizzica, definendosi, per questo, "Gruppo di pizzica & taranta".
In nome di quella tendenza tipicamente italiana a considerarsi studiosi di musica popolare solo perché si sono visti tre o quattro filmati sulle tarantate, il signor Pier Paolo De Giorgi, abile cantante e chitarrista, (non è vero), si considera, e viene considerato, un ricercatore.
Lo stile del gruppo, da quando lo conosco, è quello di una specie di musica tecno, fatta acustica, che potrebbe ricordare vagamente la pizzica.
Il gruppo, pur se non di origine grika, si afferma che abbia fatto molto per il grecanico, rivendicando così le origini greche del proprio paese.
Ma, come sempre, le affermazioni peggiori e più volgari, vengono fatte sul conto di quella poveraccia della pizzica.
Si afferma che questa è una tarantella, non è vero perché è simile alla tarantella ma non lo è, e che questa fosse "originaria dei tarantati". Si parla poi di pizzica a scherma, quella su cui, se ragioniamo solo con la provenienza, il gruppo avrebbe più diritto di lavorare. Io, che ho ascoltato pochissimo il suo repertorio, anche se mi è stato regalato da una parte della comunità salentina di Perugia che lo ama molto, non ne ricordo esempi.
Mi ricordo, invece, di allucinanti brani in italiano, di cui, peraltro, il gruppo va molto orgoglioso, affermando, addirittura, che così si vivifica il folklore.
Io, da purista ed integralista quale sono, dico che i "Tamburellisti" sono altro dal folklore, anche perché hanno la collaborazione di quel Gino Ingrosso, tra i maggiori esponenti, insieme a Bruno Petrachi, di quel terribile "liscio alla salentina" che ha infestato anche la "Sagra della municeddrha" di Cannole, prima che gli Aramirè ne facessero piazza pulita.
La canzone che a me ricorda di più i "Tamburellisti di Torrepaduli", è quella che apre il loro cd "Pizzica e rinascita", che io ricevetti da mio padre, che me lo portò originale, grazie al fatto che Pier Paolo de Giorgi glielo avesse dato per questo scopo preciso.
Il brano, come quasi tutti gli inediti del gruppo, è in tonalità minore, perché il maggiore fa troppo "tradizione", ed è cantato in italiano. Il testo, purtroppo o per fortuna, l'ho dolcemente rimosso. Mi ricordo solamente: "Che sera questa sera, sera di pizzica pizzicà".
A chi vi parla di questo gruppo come esempio di musica popolare salentina, dite da parte mia che si sbaglia del tutto, poi fategli sentire un po' di roba buona, dagli Zoè ai Ghetonia, dal Canzoniere Grecanico salentino agli Alla Bua, così forse qualcosina lo capisce.