Carissimi lettori, ecco qua un'altra chicca: un'intervista all'architetto e cantautore torinese Fausto Amodei.
D: Innanzitutto qual era la musica che circolava nella sua famiglia quando lei era molto piccolo?
R: Direi prevalentemente musica classica: mia madre studiava canto, non lirico ma da camera; mio fratello studiava pianoforte e fu lui ad introdurre in famiglia la musica sinfonica seria. Forse prima i miei genitori ascoltavano più la lirica, soprattutto le romanze di Tosti, mentre lui si portava dietro Bach, Bethoven o Vivaldi.
D: Come è arrivato alla scoperta che ritiene sempre fondamentale nella sua vita ossia a Georges Brassens?
R: Ci sono arrivato nella prima metà degli anni '50, dopo aver fatto altre esperienze musicali: dai sei ai dodici anni ho studiato fisarmonica, dai dodici ai diciotto pianoforte, per poi lasciarlo in disparte in favore della chitarra, che ho studiato da autodidatta. Così arrivo a Brassens e ad altri chansonniers come Boris Vian ("Il disertore" tradotta da Ivano Fossati è il suo brano più famoso n.d.r.), Leo Ferré ecc.
D: Cosa l'ha colpita di questo repertorio nello specifico?
R: Pensando specificatamente a Brassens, il fatto che raccontasse delle storie ed usasse un linguaggio ed una musica che in Italia non avevano assolutamente riscontro nel repertorio "commerciale", se non in qualche brano di Rodolfo De Angelis (cantautore futurista anni '30 autore del brano "Ma cos'è questa crisi" n.d.r.) o di Odoardo Spadaro (cantautore fiorentino a tutti noto per "Sulla carrozzella" o "Porta un bacione a Firenze" n.d.r.). Naturalmente, invece, nel vero canto popolare, anche da noi c'era unadiversa ricchezza, non solo nella cultura contadina, ma anche in quella urbana. Per il Piemonte, ad esempio, si può pensare ad Angelo Broferio, avvocato e patriota vissuto nel XIX secolo (Amodei cita anche un altro personaggio, vissuto un secolo prima, di cui non mi viene di capire il nome n.d.r.).
D: Nel 1958 lei fonda i Cantacronache. (Progetto di rivitalizzazione serena e naturale della canzone politica, il cui slogan era "Evadere dall'evasione" n.d.r.).
R: Io, per la verità, non ho fondato niente, i primi passi li avevano fatti Sergio Liberovici (pianista, compositore e cantante n.d.r.), Michele Straniero (poeta, cantante, ricercatore n.d.r.) ed Emilio Jona (poeta n.d.r.). Io sono stato coinvolto perché suonavo la chitarra, strumento sicuramente più trasportabile del pianoforte che suonava Liberovici, unico musicista oltre me nel progetto. Ci sono andato ed ho preso gusto a musicare i testi degli amici, per poi iniziare a scriverne per conto mio. Il primo brano da me musicato, su testo di Michele Straniero, è stato "La Zolfara" (dedicata ai minatori di Gessolungo, in Sicilia, reinterpretata anche da Ornella Vanoni n.d.r.); successivamente "Partigiani fratelli maggiori", sempre su testo di Straniero; "Tredici milioni", su testo di Emilio Jona, pubblicata in un disco che si chiamava "Cantacronache partigiano", dove c'erano quattro o cinque brani di natura resistenziale.
D: Quanto è durato il percorso di "Cantacronache"?
R: "Cantacronache" è durato, più o meno, fino al '62.
D: Momento in cui confluite nel Nuovo Canzoniere Italiano...
R: Il gruppo si sciolse per questioni varie, soprattutto perché ognuno faceva altri mestieri, quindi non aveva programmi a lunga scadenza. Siamo rimasti amici, e siccome alcuni avevano davvero preso gusto a far canzoni e cantare ed aveva già rapporti con Roberto Leydi e le edizioni "Avanti!", che si occupavano di questo materiale perlopiù in chiave di ricerca etnomusicologica, ci siamo trovati a collaborare con Ivan della Mea (autore di "Oh cara moglie" n.d.r.), Giovanna Marini (ha inciso il cd "Il fischio del vapore" con Francesco De Gregori n.d.r.), Paolo Pietrangeli (è l'autore di Contessa, ripresa anche dai Modena City Ramblers n.d.r.) ecc.
D: In questo percorso lei ha fatto uno dei suoi lp più importanti e famosi: "Se non li conoscete". (Reperibile su cd in edizione dell'Ala bianca, casa discografica che ha ristampato il meglio delle edizioni "Avanti!" n.d.r.). I brani di questo disco li ha suonati tutti lei?
R: No, in alcuni ho avuto l'aiuto di alcuni strumentisti jazz molto bravi, prestatimi dal produttore ("Il divorzio", "Le disgrazie non vengono mai sole", "la pulzella" n.d.r.). Perlopiù, però, soprattutto nei brani con chitarra ed organo elettrico, sono io che sovraincido le varie parti.
D: Chi pensava agli arrangiamenti?
R: Gli arrangiamenti me li sono sempre fatti da solo.
D: Poi è arrivato "L'ultima crociata"...
R: Quel disco l'ho fatto uscire perché avevo prodotto parecchio materiale quando c'era stato il referendum sul divorzio, quindi l'ho fatto giusto per non buttarlo via.
D: Poi ci sono stati trent'anni nei quali non si è affacciato più al mondo della discografia.
R: Ho smesso anche perché nel frattempo avevo iniziato a fare l'architetto, mestiere molto impegnativo, poi mi ero sposato, avevo avuto figli, e tra l'altro nel 1968 ero stato eletto al Parlamento. In quel periodo ho ancora scritto qualche canzone, ma a fine legislatura mi sono dovuto buttare a corpo morto sull'architettura perché dovevo garantirmi un avvenire economicamente sostenibile. Ho comunque continuato ancora a cantare alle Feste dell'Unità e nei circoli Arci, ma non componevo più niente d'importante, quindi non avevo materiale per fare un disco vero e proprio.
D: Come è nato "Per fortuna c'è il cavaliere"?
R: Mi sono talmente arrabbiato per la situazione politica, che ho pensato che meritava almeno un disco.
D: Come compone?
R: In generale scrivo prima il testo, innanzitutto in prosa, poi, anche con l'aiuto di un rimario, vedo di decidere come strutturarlo, infine, dopo una o due strofe versificate, tento di trovare una musica che lo sopporti bene. Quindi, modificando più la musica che le parole, si arriva alla stesura finale. Il mio strumento d'elezione per comporre è il pianoforte.
D: Da che cosa deriva questa sua passione per la ricchezza armonica?
R: Deriva dal fatto che ho nell'orecchio tutta la ricchezza armonica di compositori come Schubert, Mozart, Chaikowsky, Schumann, Brhams: sono un patito di musica classica e sinfonica.
D: Eppure, dei suoi brani, solo una piccola quantità potrebbe essere collegati a quel mondo.
R: Certo, io compongo canzoni e non sinfonie.
L'impresa più "presuntuosa", che non ha prodotto assolutamente niente di concreto, l'ho iniziata nel 1974, mentre andavo in treno verso una Festa dell'Unità. In provincia di Belluno, dove dovevo cantare, avevo avuto un incidente di treno e mi ero rotto una gamba. Stetti per sei mesi immobilizzato a letto. Volli approfittare della circostanza, per scrivere, influenzato dalla "cantata popolare" "Santa María de Iquique" (interpretata dal gruppo cileno Quilapayún e dedicata ad un massacro d'operai avvenuto in una scuola di questa località del nord del Cile nel 1907 n.d.r.), una cantata politica. Decisi di partire dal libro "Diario di trent'anni" di Camilla Ravera (dirigente comunista n.d.r.). La composizione era per quattro voci e sei strumenti, e sono riuscito ad eseguirla una sola volta, perché fui preso ben presto dal terrore: non sono direttore d'orchestra, ed avevo ottenuto un risultato abbastanza scadente, soprattutto per quanto riguarda l'esecuzione (la composizione la ritengo abbastanza bella). Avrei dovuto sicuramente metterci più impegno, trovare un produttore che pagasse le prove, oltre a degli esecutori veri. In questo brano, sicuramente, la componente colta era molto presente, anche perché vi erano dei contrappunti, dei canoni e, addirittura delle fughe.
D: Un brano che io reputo molto classico è "Questo mio amore". (Da "Per fortuna c'è il cavaliere" n.d.r.).
R: Sì, effettivamente, lì ho orecchiato qualche aria, non è sicuramente un pezzo popolaresco.
D: Come è nata "Per i morti di Reggio Emilia"?
R: E' una storia che ho già raccontato parecchie volte. Nel luglio 1960 (quando avvennero i fatti a cui è ispirato il brano n.d.r.) ero militare in provincia di Verona, ancora come soldato semplice. Stavo in un Centro Addestramento Reclute dove si trovavano solo ragazzi delle tre Venezie e Lombardi, e non si trovava nessuno comunista o socialista. Io, quindi, mi ero un po' stancato dell'ambiente. Per me, che sono sempre stato abbastanza antimilitarista, fare diciotto mesi quella vita non era piacevole. In quella situazione, correva voce che noi, come militari di leva, saremmo stati impegnati in servizi di ordine pubblico, si diceva addirittura che avremmo dovuto dormire in branda con il fucile caricato per intervenire in ogni momento in piazza in caso di disordini. Avevo uno stress incredibile addosso, ed ho tentato di sublimarlo componendo una canzone. L'ho composta molto di getto, perché vivevo troppe emozioni in quel momento. Una scelta musicale, condizionata alla lontana dal fatto che nel testo volessi insistere sul legame tra le rivolte giovanili e la Resistenza, è stata quella di inserire nella melodia qualche modulazione russa (cosiccome è russa la melodia di "Fischia il vento" n.d.r.). Per questo mi sono involontariamente ispirato ad un pezzo di "Quadri di un'esposizione" di Mussowskij.
D: E cosa ne ha pensato dell'lp che nel 1975 le fu dedicato dal Canzoniere delle Lame? (gruppo composto da studenti e professori bolognesi che si è esibito per ben vent'anni n.d.r.)
R: L'ho amato tantissimo, anche perché il mio sogno sarebbe stato far cantare le mie canzoni da altri. Credo che se qualcuno decide di fare il cantautore, o è talmente egocentrico da pensare che i suoi brani li può cantare solamente lui, oppure è talmente sfigato che non glieli canta nessuno.
Per scoprire Fausto Amodei, persona forte dalla commovente gentilezza, si può andare su http://www.ildeposito.org/, dove si può anche scaricare, oltre a molti testi e materiale audio, (purtroppo in formato .ogg, difficilmente leggibile) un interessantissimo documentario, con una sua lunga e sincera intervista.
Buona scoperta, ne rimarrete colpiti e forse anche folgorati, come è successo a me.
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