Carissimi lettori, ora voglio regalarvi un articolo non scritto da me, ma da una grande esperta di musica, nonché pianista e compagna di vita del musicista e compositore Vieri-Tosatti: Valeria Rabot. L'articolo è tratto da "Rivista ecumenica" ed è dedicato a Fabrizio De Andrè.
Un aedo (Fabrizio De Andrè)
Non c’è più l’uomo, con la sua sensibilità, col suo carattere. Ciò non conta; è un ricordo, consegnato alla foto che lo fissa nell’icona della frangia a velare la fronte intelligente, nell’atteggiamento curvo sulla chitarra e sul proprio cuore. Resta il messaggio della sua poesia. Il cantore della condizione umana nelle contraddizioni, nelle ribellioni soffocate dall’aridità del potere e dalla stessa inanità dell’essere uomo in quanto tale, guarda alla sofferenza e all’ingiustizia da un’angolazione di dissacrante ironia – spesso di violento sarcasmo – a difesa di una sensibilità continuamente vigile, che vorrebbe, ma non può, prendere le distanze da ciò che duole. Quest’arte, però, dalla veste così semplice e confidente in apparenza, è invece un mistero intrigante e in qualche modo perfino “scomodo”, perché al di là del dire “cantando”, esso ci afferra con improvvisa forza all’ascolto del fondo, ci obbliga alla confessione, a farci carico di realtà che vorremmo eludere, mette a nudo debolezze e viltà, non lascia spazio per scantonare, per sfuggire alla coscienza che “siamo tutti coinvolti”. Sarcasmo e amore: chi ha mai cantato con tanta pregnanza le dicotomie e le convergenze, le intersezioni fra questi sentimenti: il desiderio d’amore nel sarcasmo, l’ombroso dissacrare nella trepida speranza dell’amore?......Si resta talora con l’impressione che Dé André faccia parte di quegli autori (i “grandi”, per intenderci) che, nei maggiori èsiti, sembrano essere solo a metà coscienti della profondità di significato di ciò che scrivono……l’impressione che spesso l’opera travalichi l’artista……che si imponga per proprio conto…… C’è una poesia del dolore che è compunzione d’accatto, subitamente indotta a eludere ogni partecipazione attiva; compunzione “gratificata” dalla contentezza di essere – da quel dolore – esente; c’è quella della élite aggiornata sugli ultimi ritrovati delle ipertrofie del lessico; ma questo autore che assume e comprende il peccato e la colpa, e confuta la liceità della loro condanna, questo autore è la voce della com - passione e si colloca d’autorità tra i valori autentici della cultura di oggi. Gli compete una dimensione, un “luogo” tutto suo nel gruppo dei grandi comunicatori: ma spesso in questi la visione della realtà pare affondi nella disperazione senza confini e senza riscatto, nell’impossibilità del dialogo. Fabrizio De Andrè canta, invece, si, la rivolta, troppo spesso impotente, con beffarda irrisione, e se ne duole; ma non definisce mai uno stato d’animo costantemente passivo. Egli non accetta la sconfitta, la resa beffarda e “rassegnata” e nel suo forte impegno sociale si discosta non con la violenza diretta, (spesso “di facciata”), ma col tenace insistere – dalla “protezione” del potere, del perbenismo, della convenienza, così come dall’accettazione supina, o servile, che spesso è ignoranza, quando non è condannevole lassismo. Egli vuole scuotere il nostro torpore; sull’impotenza si arrovella, perché nella sua arte scorre sotterranea, e spesso affiora prepotente, l’invito al ripensamento di valori disattesi, a riconoscere in noi la possibilità del riscatto, la presenza nel fondo degli uomini, della bontà e della pietà.Questo cantare si avvale di una musica che non potrebbe assolutamente essere altra perché nasce con la parola e per la parola. Non è “musica facile”. È una musica antica, spoglia dell’attendere alla “crescita”, allo sviluppo di sé stessa, a un suo proprio divenire: l’arte di Fabrizio De Andrè può non venire intesa nel suo giusto valore per la presenza appunto, di ritmi, cadenze, rime e assonanze che si rifanno al canto popolare. Attenzione però: attenzione a non confondere le cose!!! Qua non siamo al cantastorie che svaria sui guai della baronessa di Carini, né al cantante in preda alla prurigine di improbabili nostalgie! Pur riferendosi al canto popolare (nella sua vocazione –“alta”) e talora alla musica medievale, anche con l’uso di strumenti del tempo, e impegnando attenzione e studio alla musica, al “suono” di altre etnie, l’arte di questo autore ha modi propri in stretto rapporto con la straordinaria ricchezza dei vari argomenti e casi attinti dalla realtà: è musica che ripiega su moduli che sono alla base del sentire umano, e, nell’intelligente uso di melodia e armonia, e nell’unione di queste ai tanti casi del narrare, ha la sua cifra di perenne valenza. I testi di De Andrè propongono verità pregnanti, nei concetti e nelle tantissime immagini che raramente è possibile reperire nella poesia blasonata, e mai veicolate in modi dogmatici, mai gratuite o estetizzanti. De Andrè parla dal fondo della propria anima alla nostra e ascolta, da quel fondo, e raccoglie, l’eco della vita sceverandola da tutto ciò che giostra intorno in una straniante gara di non-senso.Non si consideri ovvio il riferimento a quel capolavoro – giustamente noto e amato: “La guerra di Piero” che non è possibile enucleare dal contesto dell’autentica poesia, supportato da una musica che è la nenia antica della maternità offesa d’ogni tempo……Sarebbe necessario, invece, attivare una diffusione, un ascolto maggiore, di questa “definizione dell’inutilità d’ogni guerra…, Assai più valida di qualunque narrazione di battaglie” nell’atmosfera stupefatta che circola intorno all’avventura di “due uomini”…… Uomini …….nel silenzio della Natura, e della Storia…Come dire della commovente partecipazione, ne “La Buona Novella” alla figura di Maria bambina, umanizzata nella sua innocenza, nel suo essere ignara di tanta “verità”, e di tanto destino…….?E quell’Amico Fragile”, dove la musica si attarda, su quel mi minore quasi un freno, un controllo allo sperdimento delle emozioni e della fantasia! Come non esser presi dalla desolazione nel “Cantico dei drogati”? E con quale levità, quasi a passo di danza, questo partecipe di ogni debolezza umana, vizio e candore, parla, nel “Testamento”, del vivere e del morire!...In questo testo apparentemente dissacrante possono venire isolati tre momenti: nel primo la beffarda sfottitura della vanità e della menzogna, nel secondo il trepido accenno alla possibilità del vero amore, mentre il terzo si china sul desiderio di essere, per chi muore, dispensato dalla “pesante pietà” e sulla coscienza di essere, nella morte, soli. Tre concetti (e quali!!)……in una sola canzone!......E l’amaro percorso, in quella “storia di un uomo qualunque” che parte dalla denuncia del potere costituito, passando poi all’orgoglio di un vagheggiato potere individuale, alla coscienza del latitare, nei momenti critici, di parenti e conoscenti, alla delusione per l’inutilità di un “gesto”, per approdare, infine, al povero rifarsi su un altro uomo, che, del Potere, ha solo la riduzione a pallida effige. e quel Pescatore, immerso nella luce meridiana di un àmbito fuori del Tempo, che ha un solco sul volto, “come un sorriso” – e forse è una ferita – e si assopisce, (o finge) per non tradire chi, pur colpevole di assassinio, gli aveva chiesto pane e vino per la sua fame.E quel Fiume Sand Creek, dove, su un tenerissimo motivetto infantile, la voce di un bimbo dà il resoconto del massacro della sua tribù ad opera di “un generale di vent’anni, occhi turchini e giacca uguale”……fu un generale di venti annifiglio di un temporale…i nostri guerrieri troppo lontani sulla pista del bisontee quella musica distante diventò sempre più forte ………………………………. …chiesi a mio nonno è solo un sogno…mio nonno disse sì………………………………… e…………… Quando il sole alzò la testa tra le spalle della notte C’erano solo cani e fumo e tende capovolte………l’inane lanciare frecce all’aria e al vento………In pochi versi folgoranti, il quadro preciso di un’etnia, dei suoi usi, del suo fatalismo (mio nonno disse sì…), l’impotenza del bimbo che invano tenta di colpire……l’aria, il vento……e infine, lo squallore del luogo devastato…………………………………ora i bambini dormono sul fondo del Sand Creek………”E come non ricordare “Carlo Martello”, il suo ingresso trionfale tra gli squilli gloriosi della trionfante solarità, che nel prosieguo degli…eventi…poté orripilare solo i baciapile del tempo? Qui un testo di spassosa valenza supporta una musica assolutamente geniale! Qui si esula dalla commozione e dal sarcasmo per godere un momento di straordinaria allegria, un’autentica festa!!! E “Bocca di rosa” e “Via del Campo” e l’assai preoccupante “Girotondo!!” e quante quante altre!!! E quella “Cr?uza di mä” che nel ritmo cullante che apre sull’infinita vastità del mare l’uomo quasi non è più; remoto il brulicame di presenze e voci querule e odore di catrame e pece e alghe marce, la nostalgia per la città amata dissolta in un orizzonte, luogo dell’anima, in cui si sperde,...... nello spazio, gonfio di tutti i suoni della lontananza, e dell’eternità………Cambia, il mondo, in un vortice di rapina. Non sappiamo quale sarà il suo futuro, ma certo Fabrizio De Andrè resterà il cantore di questo tempo, delle sue inquietudini, e, al di là di quelle, nella fiducia inalienabile nella bontà di fondo dell’uomo, il cantore della speranza.
sabato 23 maggio 2009
Un aedo (FabriziDe Andrè
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