Carissimi lettori, portata dall'incontenibile felicità che mi ha dato l'imminente uscita del libro di Vincenzo Santoro "Il ritorno della taranta", pubblicato dalla Squilibri di Roma, mi va di rinnovare ed ampliare le mie riflessioni sulla riproposta salentina.
Il libro, con quella serenità tipica del vero appassionato che è coinvolto senza boria né rabbia gratuita, ripercorre, passo passo, la storia del "movimento" di riscoperta e recupero della tradizione, che ha portato il Salento, bene o male, alla notorietà.
Ora, quindi quasi subito, io non riferirò la struttura del libro né ciò che in esso è scritto, in quanto molto materiale è reperibile sia su http://www.pizzicata.it/, che su http://www.vincenzosantoro.it/, nonché sul sito dell'editore http://www.squilibri.it/.
Mi limiterò, alla luce di quanto letto e di quanto conosco, a fare le mie riflessioni, a dire, insomma, come la penso io. Molte cose, signori miei, io le ho già dette in giro, ma , secondo me, "repetita iuvant" (le ripetizioni giovano).
Intanto, e questo è un problema che si ha a livello nazionale, la nostra "riscoperta" del folklore è stata ben presto "macchiata" dall'ideologizzazione: invece di ritrovare le nostre radici per quello che erano, le abbiamo volute asservire automaticamente a ciò che credevamo giusto. Abbiamo così, e qui mi limiterò all'esempio salentino, quasi ignorato le pizziche, perché non politicizzate o politicizzabili, facendo dei canti dei carcerati nostre bandiere. Questo avveniva, soprattutto, da parte di una certa élite di sinistra, capeggiata dalla grande scrittrice Rina Durante, sotto la cui egida nacque, fra l'altro, il Canzoniere Grecanico Salentino. A questo gruppo, ad esempio, si deve il cambiamento di una strofa ne "Le carceri di Lecce", conosciuta anche come "La Cesarina", che è diventata: "Ca ci ole Diu cu cangia stu guvernu
la terra la caminu parmu parmu".
Da notare, ad esempio, che Uccio Aloisi, che ha riproposto il canto in uno dei suoi ultimi cd, non esegue questa variante. Lo stesso gruppo di lavoro, però, in precedenza era stato molto restio nei confronti di processi che io ritengo molto più giusti: leggendo il libro di Santoro, risulta che Luigi Lezzi, voce e chitarra del "Gruppo folk salentino", prima creatura del lavoro intellettuale di Rina Durante, si chiedeva che senso avesse riproporre ai contadini e ai braccianti i loro pezzi in forma "spettacolarizzata". Questo dimostra una ritrosia, che io ormai ritengo imperdonabile, anche se quarant'anni fa poteva essere giustificata, nei confronti di dinamiche assolutamente naturali. Ciò che io ritengo giusto, è rispettare, anche nella composizione di nuovi brani su testi tradizionali, le prassi armoniche più vicine alla natura del genere in questione. Questa, purtroppo, è una caratteristica che oggi si sta perdendo, in favore di una necessità, non so se veramente sentita od intellettualistica, di fare del folklore qualcosa di semplicemente, e direi anche piattamente, contemporaneo.
Come diceva Roberto Raheli degli Aramirè: è mai possibile che per innovare il folklore si debba per forza prendere testi antichi e stravolgerne l'armonia e la concezione strumentale?
La mia risposta, come quella degli Aramirè, è un secco e categorico "No!". Negli altri paesi, forse perché hanno un folklore meno ingombrante ed antico, si riesce ancora a comporre, con piccoli tocchi di modernità, repertorio davvero innovativo ma su basi antiche e facilmente riconoscibili. Un esempio d'oro è il Fado, anche questo ultimamente arricchito da nuovi strumenti come la batteria od il contrabbasso, dove, però, nessuno si sognerebbe di rifare i brani antichi con orchestrazioni completamente o molto moderne, ed oltretutto, se le chitarre portoghesi non sono più le sole protagoniste perché viene loro tolto spazio in favore degli strumenti "altri", a loro volta, questi cercheranno uno stile che non opprima né cancelli l'antico. Nel Salento, invece, mi pare che, a partire da Melpignano arrivando fino agli ultimi Aioresis, si voglia sfruttare vecchi miti, riscoperti solo come "fattori di cassetta" ma la cui arretratezza fa ancora paura, per fare ciò che non è che una copia spenta di quel che si fa nel resto d'Italia. Il gruppo di Nardò che ho ora citato, all'inizio ottimo gruppo tradizionale, quindi con tutto il diritto di richiamarsi al tarantismo nel nome, con gli anni, pur non cambiando denominazione, si è avvicinato di più ad una realtà che potremmo denominare "Nardò City Ramblers". Non metto in discussione, la questione non è questa, il diritto di cambiare, ma a questo punto, preferirei un cambiamento radicale: gruppo rock, quindi senza il tamburello che tanto in quel contesto fa solo coreografia, che come richiami folk ha solo l'organetto ed i flauti (basta con queste zampogne, avete stancato!), ed ovviamente fuori l'"aiora", richiamo ad un passato che, se non si pratica in maniera almeno fidedigna, non si ha più il diritto di nominare.
Questa, però, a pensarci bene, carissimi salentini è l'unica situazione in cui potete stare. Se quarant'anni fa avete distorto il folklore per idiologizzarlo, negli anni Ottanta ve lo siete dimenticati di nuovo e dopo è arrivato il reggae che solo per essere in dialetto è stato semplicemente chiamato musica salentina, eccovi la vostra musica: gli Aioresis e dintorni.
Grazie a Dio, però, nel cd allegato al libro di Vincenzo Santoro, c'è gente che il folklore lo fa davvero, dagli Zoè a gruppi molto meno conosciuti, che hanno battuto strade che voi, caparbiamente e stupidamente non avete proseguito.
Ve l'ho già detto ma ve lo ripeto: è infinitamente più contemporaneo un brano come "Mazzate pesanti" degli Aramirè, che sta nel passato ma racconta il presente, piuttosto che un brano degli Aioresis che, pur continuando ad organizzare feste di musica popolare spontanea, quantomeno loro dicono così, fanno rock bello e buono, oltretutto cantato anche male, con quel vomitevole accento salentino ma in italiano (per farsi capire da tutti quelli che, a fine concerto, in massa possono solo dire loro: "basta!").
Credo che il Salento debba scegliere: se si decide di essere un gruppo rock, non si deve fare riferimento al tarantismo né utilizzare strumenti inutili (vedasi i Negramaro); se si decide di fare musica popolare, magari, oltre ad interpretare i brani antichi, riproposti con melodie possibilmente uguali e a comporre nuovo repertorio, si potrebbe, e dovrebbe, reinterpretare anche ciò che si ama della riproposta. Quest'ultima parte, va da sé, non va affrontata come un semplice imitare altri gruppi, ma come una reinterpretazione, rispettosa, ma comunque e sempre personale.
Io, ad esempio, nel periodo in cui ebbi la fortuna di poter frequentare questo repertorio, non solo non mi limitavo alla tradizione attestata dalle registrazioni etnomusicologiche, ma, quando interpretavo un brano d'autore, dicevo sempre chi l'avesse scritto. Speravo, così, di far allargare le vedute agli ascoltatori dei nostri concerti, che oltre a divertirsi e ballare, potevano anche imparare qualcosa. So che questa proposta potrebbe essere catalogata come sprone all'imitazione, ma io vi giuro che non c'è nessuna differenza tra la rielaborazione della "Pizzicarella" della "Simpatichina" e quella di una "Don pizzica" degli Zoè. Quello che ce le fa sembrare differenti, signori, è solo il fatto che la prima, essendo stata inglobata dalla tradizione e trasmessa oralmente, ci permette di sentirla anche un po' nostra, perché ciò che è popolare è di tutti, mentre la seconda, che abbiamo imparato tramite "Sangue vivo", album degli Zoè, essendoci arrivata per mediazione di un supporto che la fissa irrimediabilmente, ci sembra qualcosa d'altro. Io credo, ed ho la tradizione d'altri paesi a confermarmelo, che nello stesso momento in cui noi prendiamo degli strumenti tradizionali e ci suoniamo qualcosa, noi la stiamo rimuovendo dalla sua fissità, perché nessuno di noi, almeno i non megalomani, si sognerebbero di cantare come la Marzo o come la Petrachi. Oltretutto, ad annullare questa distinzione, basterebbe l'onestà: perché non dire che si è imparata "Pizzicarella" dalla versione della "Simpatichina"? Così, signori miei, si inizierebbe a riconoscere una certa "autorialità" a certi cantori popolari, che dimostrerebbe solo la nostra buona fede. Io, scusate se mi cito come esempio ma avrete capito che non sono megalomane, quando facevo la "Pizzica tarantata", dicevo sempre: "Adesso suoneremo una pizzica ispirata ai giri di violino eseguiti dal violinista Luigi Stifani per curare le tarantate". In Portogallo, e scusate ancora la ripetitività ma non c'è paese migliore per esemplificare la convivenza fra modernità e tradizione, nel repertorio del Fado, anche quello su cui non si è sicuri per quanto riguarda chi lo abbia concretamente composto, si presenta come repertorio d'autore. Addirittura, giusto per fare un esempio, gli unici Fados veramente tradizionali sono il "Corrido", il "Mouraria" e il "Menor", tutti risalenti al XIX secolo. Perfino il resto del repertorio risalente alla stessa epoca, come l'"Anadia", viene presentato come d'autore, anche se, su chi abbia inventato cotali melodie, non circolano quasi esclusivamente informazioni se non leggende metropolitane, riportate da libri sulla cui scientificità da subito si ebbero mortali dubbi. E' vero che nelle incisioni degli studiosi spesso non si identifica il cantante, ma, laddove identificato, gli andrebbe riconosciuto, se non altro nel rispetto delle prassi armoniche e nella presentazione dei brani, un livello di "Quasi autore". Infatti, ed i salentini su questo ci battono molto spesso l'accento, i cantori tradizionali, spesso modificavano i testi secondo le loro esigenze e le loro necessità. Noi, oggi, se decidiamo di dedicarci seriamente alla riscoperta del nostro passato, dobbiamo creare a nostra volta, senza avere paura di farlo, ma, oltre ad omaggiare gli anziani, non solo nei convegni ma anche durante le suonate, dovremmo, ormai, omaggiare anche chi ha fatto le stesse cose prima di noi. Ad esempio, pur non trovando niente da ridire sulla scelta di rielaborare un brano tradizionale da una versione di "riproposta", mi arrabbio quando non lo si dice e, ingiustamente, non riconoscendo il lavoro di creazione di qualcosa di diverso dalla tradizione, si dà il bollino di tradizionale a ciò che non lo è. Io, e scusatemi ancora, nel mio repertorio, ho una versione di "Ferma Zitella" che, come spirito, ed inizialmente lo era anche come modo di cantare perché accettava i finali lunghi alla Cinzia marzo, è ispirata alla versione degli Zoè. Quando la presentavo, oltre a dire sempre "se non c'era quella dell'"Officina" io non avrei fatto niente", la chiamavo addirittura "Ferma ferma", così come è su "Crita". Con questo, io, volevo riconoscere di non interpretare il brano "tradizionale" "Ferma zitella", ma un qualcosa che da esso è partito, che io preferisco. Questo, che da noi verrebbe bollato come imitazione, è pratica comune in paesi come il Portogallo o la Spagna. Ogni buon cantautore che si voglia ispirare alla "copla", genere nato negli anni Trenta in Andalusia con caratteristiche simili al flamenco ma più leggero, ben presto sente la necessità di dover rifare ciò che hanno scritto gli altri, ma non solo i primi, anche quelli più vicini a lui. Se questo potesse succedere anche da noi, nella miniera della musica che è il salento, si smetterebbe di dibattere su questioni sterili, si smetterebbe di fare i disonesti (dicendo ad esempio che "kali nifta" è d'autore, non facendo credere più che è tradizionale!), e, cosa certo non poco importante, noi ascoltatori potremmo conoscere la formazione culturale di ogni gruppo. In poche parole, il consiglio che vi do, e che io stessa seguirei subito se potessi ricominciare a fare pizzica, sarebbe quello di innovare la vostra tradizione non solo dall'esterno rifacendovi ad ormai vecchi modelli come la Nuova Compagnia di Canto Popolare, ma anche dall'interno, riprendendo, in pacifica convivenza con eventuali brani di composizione propria, anche alcuni pezzi che si amino particolarmente all'interno della riproposta salentina. Giusto per farvi un esempio di qualcosa di molto simile, si può pensare a "La caddrhina" di Cesare Monte, che lui stesso aveva inciso su disco, che gli Alla Bua hanno portato verso un'atmosfera rurale che le è sicuramente più propria piuttosto che il terribile liscio del presiccese. Ora voglio dirvela tutta: io non condivido più di tanto il "travasare" il repertorio dal "liscio alla salentina" alla musica d'ispirazione contadina, perché ritengo che queste siano due cose completamente diverse, che hanno come elemento comune solo il dialetto, oltre ad un certo riuso dei materiali tradizionali. Però, se ad esempio un gruppo di musica popolare che usi strumenti contadini è formato da ammiratori di Petrachi od Ingrosso, i brani in dialetto di questi ultimi si possono riproporre (non quelli in italiano che si snatura troppo il genere che deve accogliere le novità). Io, date le mie passioni, riterrei più giusto riproporre brani degli Zoè ("Don pizzica", "Ijentu", "Menevò", ecc), degli Alla Bua ("De fore", "Jeu partu", ecc). Questo, e così concludo, non deve diventare né un pretesto per non creare più, né una scusa per non riprendere più brani dalle ricerche di propria od altrui fattura. Io, signori, vi sto solo dicendo di allargare le vedute, non di perdere quello che già avete né di essere estremisti. Così, e ve lo dice una che lo ha fatto tanto a suon di pizzica, sareste meno polemici e vi divertireste tanto tanto di più!
sabato 23 maggio 2009
Riflessioni sulla riproposta
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