domenica 22 agosto 2010

Inti-Illimani: "Estadio Nacional"

Carissimi lettori, i prossimi due articoli che scriverò saranno due recensioni di due concerti degli Inti-Illimani (speriamo di poter rispettare i piani, ovviamente!).

A quanto pare il primo è all'Estadio Nacional di Santiago del Cile. Ancora, non conoscendo la scaletta perché lo sto vedendo per la prima volta e mentre lo vedo scrivo, non vi so dire a che periodo risale.

Si inizia con un'omaggio all'Italia, con una rielaborazione meravigliosa della "Tarantella del Seicento" riportata alla luce da Roberto de Simone, che prosegue con un adattamento tra l'afro e l'andino di "Canna austina", brano scritto dall'etnomusicologo napoletano ed interpretato dal gruppo cileno nel 1988, in occasione della sua partecipazione allo spettacolo "Cantata per Masaniello", portato in scena al Teatro Mercadante di Napoli.

Non mi sono mai abituata a questa versione strumentale della "Canna austina", la preferisco cantata nel cd "Andadas" (1992). Venendo tecnicamente alla versione che se ne sente in quest'occasione concreta ha la curiosità di avere due zampoñas (flauti di pan) che seguono la melodia loro affidata ognuna su un'ottava diversa. Nella "tarantella" non ho mai digerito la fortunatamente breve parte di sassofono (o chi per lui), costituita da un "sol, un "soldiesis ed un "la", che, oltre a non ricordarmi per niente la nostra maniera di suonare, mi sembrano semplicemente cacofonici.

Continuando a riesumare capolavori dal repertorio degli Inti-Illimani senza aggettivi né distinzioni, si ascolta una bellissima, anche se in Italia poco conosciuta, "Son para Candido Portinari", che Horacio Salinas musicò negli anni Ottanta e pubblicò nell'lp del gruppo "Palimpsesto" (1981). La versione che se ne ascolta è caratterizzata da una interessante introduzione del violino, che se possibile riporta ancora più convincentemente alle atmosfere argentine che il brano dipinge.

Di due anni precedente è questa bellissima, altrettanto sconosciuta qui in Italia dove il repertorio migliore del gruppo è appannaggio di pochissima gente, "Polo doliente". È un brano dalle fortissime atmosfere venezuelane (credo che sia un "joropo"), dedicato ad un pescatore morto in mare. L'innegabile allegria del brano, però, contrariamente a quello che spesso succede da noi, non lascia assolutamente scampo, è un pezzo pieno di tristezza e malinconia, solo un pochino mascherata.

Finalmente sappiamo a che epoca risale il concerto, è un concerto di presentazione del cd "Lugares comunes" (anche se i brani del cd ancora non arrivano, a dimostrazione che nella filosofia del gruppo i dischi servono ma poi una tournée è un pretesto sempre per fare un viaggio nel tempo, in una varietà infinita di atmosfere).

Il brano successivo è "Canción para matar una culebra" (1979), canzone che dà il titolo all'lp da cui il gruppo aveva già estratto il brano precedente "Polo doliente". La presenza nell'organico degli Inti di un musicista cubano di forte matrice afro, mi riferisco ad Efren Viera, permette al brano di acquistare un'anima afrocubana piena e finalmente autentica.

Nel campionario di atmosfere degli Inti-Illimani, e come poteva essere altrimenti, la fanno (o la facevano) da padrone quelle andine, che il gruppo finalmente presenta con una briosa e convincente versione di "San Juanito", brano del loro primo periodo, conosciuto da noi grazie all'incisione nel vinile "Canto de pueblos andinos 2". La versione è caratterizzata dall'arricchimento dell'organico da parte di un contrabbasso, un violino e un clarinetto. Gli elementi estranei, ancora Meriño aveva rispetto per il passato anche perché era appena arrivato ad essere direttore musicale del gruppo appena entrato, non cozzano, entrano in piena armonia con l'essenza andina del brano. Non va dimenticato, infatti, che in certi gruppi andini il violino è presente e sa dialogare benissimo con i flauti andini (secondo me soprattutto con la "quena", flauto ad una canna sola).

Il brano successivo è un altro cavallo di battaglia del gruppo di provenienza andina, un "Tincu" in una lingua precolombiana, che da sempre dal vivo è stato fortemente velocizzato. Questa versione è caratterizzata dalla ripetizione dell'ultima strofa, che la seconda volta viene eseguita con un'interessante controcanto.

Ed eccoci alla prima canzone estratta da "lugares comunes", prima traccia anche del disco, la coinvolgente e meravigliosa "Sobre tu playa". La voce di Efren dà a questo brano, dalla poesia forte e dolce ad un tempo, un fascino unico. Il finale di questo brano in concerto è davvero meraviglioso, anche perché la gente è portata a battere le mani perfettamente all'unisono con le indiavolate percussioni afro di Efren: che meraviglia.

E continuando a presentare "Lugares comunes", si prosegue andando in ordine con la scaletta del cd. Si esegue "A la caza del Nyandú", composizione di Manuel Meriño, musicista cheha sostituito Horacio Salinas esattamente in questo periodo a cui risale il concerto (2002). È un brano che mi ha sempre dato l'idea di essere costruito con troppo cervello e poco cuore, così come moltissimi arrangiamenti del signor Meriño. È un brano che parte inequivocabilmente da una matrice andina, per poi esprimerla però con una fastidiosa atonalità.

Più interessante è questa "El surco", con la quale ci si continua ad addentrare dentro questo cd, ultimo degli Inti-Illimani (senza aggettivi né distinzioni) che mi sia entrato nel cuore (me ne ero innamorata pazzamente, ancora me lo ricordo, che tempi!).

Se devo descrivere tecnicamente questo brano è un pezzo dal sapore afro-peruviano, portato soprattutto dal "cajón", percussione che più di ogni altra connota questo mondo. Il brano è interpretato da Daniel Cantillana con piglio convincente, il testo di Patricio Manns è ben interpretato dalla dolce voce del violinista.

Ed eccoci a quella che da subito fu la mia canzone preferita del cd (e ancora lo è!). Mi riferisco alla poesia di Aquiles Nasoa musicata da Marcelo Coulon dal titolo "Salmo de la rosa verdadera". Devo dire che lo storico membro del gruppo, come prima prova di composizione (credo), abbia fatto un capolavoro. Se ve lo dovessi descrivere direi che è un brano che utilizza una scala minore quasi completa, dando un'armonia di amplissimo respiro, anche con alcuni passaggi in settima, ad una melodia tra le più semplici ed accattivanti che il gruppo possa vantare.

E dopo un breve ma commovente e nostalgico discorso di Horacio Durán (oggi allineato con gli "históricos") che ha ricordato Víctor Jara e Violeta Parra, si torna a suonare il repertorio storico del gruppo, forse il migliore. Gli Inti-Illimani stanno interpretando con maestria e semplicità un capolavoro scritto da Víctor Jara intitolato "la partida". È uno dei miei brani preferiti del gruppo, che dimostra come si possa essere profondamente innovativi (per davvero, no per finta come da noi), non perdendo di vista mai le armonie della tradizione, solo arricchendole ed allargandole. La particolarità di tutte le versioni de "la partida" di questo periodo è l'inusitata presenza delle congas su un ritmo andino, ma va detto che non suonano strane.

E come omaggio a Violeta Parra, prima e incontestata maestra del movimento de "La nueva canción chilena", il gruppo interpreta "Arriba quemando el sol", brano inciso dagli Inti in Italia nel vinile "Hacia la libertad" (1975). L'unica idea un po' discutibile avuta dal gruppo in occasione di questa interpretazione, e purtroppo spesso conservata nelle interpretazioni recenti, è una velocizzazione del brano, che non permette di capire il testo di fortissima denuncia delle condizioni dei minatori che, nonostante i tanti anni passati dalla composizione del brano, come ci dimostrano i vari incidenti che avvengono in svariate parti del mondo, non sono per niente cambiate.

E sempre dal repertorio di Violeta Parra viene questa "Run run se fue pa'l norte", che il gruppo, sin dal 1971, esegue nell'arrangiamento per lui pensato da Luís Advis, grande musicista classico che permise alla "Nueva canción chilena" di toccare due sue vette con le opere "Santa María de Iquique" (interpretata dai Quilapayún e dedicata ad un massacro di povera gente avvenuto un secolo fa), e "Canto para una semilla" (interpretata dagli Inti-Illimani e basata sulle "décimas" autobiografiche della stessa Violeta Parra). Il brano in questione è interpretato dall'autrice, voce e charango, nell'lp "Sus últimas canciones" (1966), nell'interpretazione del gruppo diventa un brano prevalentemente strumentale, infatti si conservano solo due strofe del cantato, ed acquista una maggiore interiorità e si direbbe più colto.

Tornando a "Lugares comunes" si interpreta un brano strumentale (di cui non ricordo il titolo, perdonatemi!). È strumentale e non è particolarmente apprezzato da me, sempre per quella pesantezza di cui si era parlato in occasione de "A la caza del Nyandú". Subito dopo, però, il gruppo si riprende subito con un altro brano strumentale, questa volta tradizionale, dove il violino, oltre ad entrare suonato normalmente con l'archetto, esegue delle interessanti note pizzicate. La presenza del violino e del clarinetto, purtroppo, in questo caso contribuiscono spesso ad addolcire, forse esageratamente, l'irruenza andina, facendo perdere qualcosa a questo brano (e non solo a questo per essere del tutto franchi!).

Ed eccoci ad un meraviglioso valzer peruviano composto dagli Inti su testo di Rafael Alberti, uno di quelli di ispirazione italiana. Il gruppo, e questo gli va riconosciuto al di là di personai idiosincrasie e gusti sugli ultimi Inti (ancora senza aggettivi e distinzioni), non ha mai staccato l'anima dall'Italia e dall'italianità, anche quando solo due dei membri vi hanno vissuto quindi la conoscono profondamente.

Subito dopo, continuando ad andare rigorosamente in ordine con la track list del cd, si continua con un meraviglioso arrangiamento di un "huapango" messicano. Bisogna dire che Jorge Coulon, che agli inizi del gruppo si dedicava all'interpretazione di brani messicani, dimostra la sua insuperabile bravura in questo repertorio, anche per una sua naturale tendenza a "quebrar" la voce, ossia a "completare" le note con degli acuti interni molto particolari, tipici della tradizione messicana.

Subito dopo si torna al repertorio storico degli Inti, interpretando una delle tante canzoni d'omaggio all'Italia, che ancora il gruppo eseguiva rifacendosi agli arrangiamenti pensati per la versione incisa con John Williams e Paco Peña nel cd "Fragmentos de un sueño" (1987). Il brano in questione è "Danza di Cala Luna", basato su certi ritmi sardi. È una delle mie canzoni degli Inti preferite, anche perché gli strumenti andini sono messi perfettamente al servizio di un'italianità profonda e pura.

Il gruppo continua a pescare nel suo repertorio storico , interpretando "Cándidos", un brano dalla forte influenza afro, composto da José Seves, che già, purtroppo, non faceva più parte del gruppo. (Non ho mai avuto la fortuna di vedere il gruppo con questo membro, mannaggia!). La canzone, dedicata all'"autunno dei patriarchi" ed ispirata dal libro "L'autunno del patriarca" di Gabriel García Marquez, fa fare una festa assolutamente incontenibile.

Ed eccoci alla partecipazione del musicista, poeta e scrittore Patricio Manns. Sinceramente non conosco questo brano, quindi non ve ne posso parlare più di tanto. Vi posso dire che la voce di Patricio Manns è abbastanza deludente, perché è abbastanza stonato ed è raro che esegua note limpide. Ritmicamente comunque il brano è interessante e non riesco a classificarlo.

Il prossimo è un brano, ancora interpretato da Manns, fortemente antistatunitense. Se devo descrivere il brano è una "saia" (tipo "la fiesta de San Benito"), che gli Inti-Illimani arricchiscono con una intrusione, armoniosissima, di congas cubane. L'inizio del brano, e va detto per sincerità, ricorda le cose che Meriño poi ha fatto in maniera generalizzata, certi accordi jazz che c'entrano davvero poco con la musica popolare europea e sudamericana.

E subito dopo, presentata da Patricio Manns che ne ha scritto il testo, arriva "Vino del mar", canto dedicato ad una militante della U.P. di Salvador Allende, assassinata, dopo essere stata torturata e violata, il cui corpo fu gettato in mare ma da questo caritatevolmente restituito. Il brano è una fusione tra la bellissima tecnica classica della chitarra di Meriño (che è un buon chitarrista, non si può negare), la vocalità spesso all'unisono degli Inti-Illimani ed un quartetto da'rchi. È un brano dove politica e tenerezza si fondono per dare spazio a sensazioni intime indescrivibili.

Ed eccoci al brano che chiude "Lugares comunes", un brano di inequivocabile matrice italiana, scritto da due membri del gruppo che conoscono l'Italia solo dai film, dai racconti dei fratelli Coulon e dalle volte che ci hanno suonato. Il brano si intitola "Caro nino", dedicato a Nino Rota. Potrebbe ricordare la musica del film "Pinocchio" (quello anni Settanta), anche se credo che questa colonna sonora a cui l'ho paragonata non sia di Rota. È un brano in minore, che però non concede spazio a tristezze, semmai solo ad una dolce malinconia. Veramente stupenda, noi italiani la dovremmo scoprire.

Il concerto, ormai giunto quasi alla fine, continua con una curiosa versione di "Mi chiquita", un brano di ispirazione cubana, anche perché ha un testo del grande poeta cubano Nicolás Guillén. Le principali curiosità di questa versione, che poi sono abbastanza comuni, sono il fatto che la voce principale sia affidata ad un vero cubano (nonostante che vive in Cile da moltissimo tempo, non ha perso neanche un po' del suo accento cubano, ovviamente si parla di Efren Viera). La seconda curiosità è l'intrusione in questo brano del violino, strumento che qui, fortunatamente non riesce a scalfire l'allegria del brano. Si fa ancora più festa, se possibile, con la successiva "El carnaval", incisa per la prima volta nel già citato "Fragmentos de un sueño", insieme a Paco Peña e John Williams. Questa versione ha come principale particolarità la presenza delle congas cubane e la troncatura del finale a ritmo andino.

Subito dopo si interpreta un altro brano di ispirazione inequivocabilmente afro, la bellissima "Samba landó", tratta da quel fondamentale ma incompreso in Italia "Canción para matar una culebra" (1979). la versione è molto più afro rispetto a quella da studio, che era accompagnata da un gruppo tipicamente andino.

Il concerto si chiude, come sempre, con "La fiesta de San Benito", brano andino su cui Manuel Meriño ha iniziato a infierire sin da subito (rimpiango Salinas). Questa "saia" boliviana fu arricchita dal gruppo sin dal 1969 (anno della sua prima incisione) con un accordo in più che la rende molto ricca. Ecco gli insopportabili assoli di sassofono che preludono al finale che è caratterizzato da un mi minore ripetuto (alla maniera di certe pizziche degli Zoè) fino allo sfinimento. Non mi piacciono queste cose.

Spero comunque di avervi fatto piacere, e spero di aver fatto venire voglia a qualcuno di vedere questo concerto, tra i più festosi del gruppo.

Il dvd, poi, ha in coda la versione da studio di "Sobre tu playa" ma noi non ce ne occupiamo.

Buon ascolto e visione!

martedì 10 agosto 2010

Inti-Illimani live a Puerto Aysen (Cile)

Carissimi lettori, ho l'onore di recensire, completamente a caldo, un concerto degli Inti-Illimani che non conosco.

Siamo in Cile nel 2001, e la formazione che suona nel concerto di cui parleremo è di transizione tra quella storica e quella dell'ultimo periodo.

Il concerto è iniziato da una meravigliosa versione di "Takakoma", brano andino che il gruppo ha inciso in un bellissimo album, purtroppo qui poco conosciuto, intitolato "Lejanía" (1998).

Si riconosce immediatamente il charango squillantissimo del suonatore storico del gruppo, Horacio Durán, che dà a questo brano un'allegria direi contagiosa. Nonostante tutto vi sono due elementi che forse non fanno sfogare molto questa voglia di festa, mi riferisco ad un violino, elemento assente dalla versione in studio, ed un clarinetto. Nonostante ciò è una versione bellissima di uno strumentale veramente superbo.

I brani cantati iniziano con una versione abbastanza corretta de "La exiliada del sur", uno dei classici della musica cilena scritti e pensati da quella che è stata senza dubbio la più grande ricercatrice, interprete e compositrice di musica di matrice tradizionale che il Cile abbia conosciuto. Mi riferisco a Violeta Parra (1917-1967). Dico "abbastanza corretta" perché si possono notare alcune stonature e la mancanza di perfezione di alcune entrate e controcanti. Ciò non toglie che è una grandissima emozione ascoltare la voce di José Seves, ritenuta dalla sottoscritta una delle migliori del Cile.

Tornando alle strumentali abbiamo il piacere di ascoltare un bellissimo "joropo" scritto da Horacio Salinas, allora ancora direttore del gruppo, intitolato "Maria canela". Il brano è in minore ma niente tristezza, anzi si è portati a battere le mani a questo ritmo contagioso. Oltretutto, parentesi personale, la versione da studio di questo brano, contenuta nel cd "Arriesgaré la piel" è stata tra le colpevoli del mio grande amore per gli Inti che, come questo articolo sta inequivocabilmente a dimostrare, ancora dura. La versione è caratterizzata dalla sostituzione del flauto da parte del violino. Questo strumento, forse, non riesce a dare l'idea di festa che invece dava il flauto traverso, ma comunque è una favola.

C'è stato un discorso di Jorge Coulon, colui che si incaricava di parlare in quasi tutti i momenti che il gruppo dedicava al dialogo con il pubblico (parte fondamentale di ogni buon concerto degli Inti!).

Quando si ricomincia a suonare ancora non si riprende a cantare, anzi si delizia il pubblico con una meravigliosa versione di "Tatati", brano tra i primi composti dal grande chitarrista, tiplista e compositore cileno Horacio Salinas. Il brano è uno dei più complicati e armonicamente dinamici tra quanti il gruppo dedica alla sola esecuzione strumentale. È bellissimo, anche perché a me ricorda uno stupendo concerto visto a Bastia Umbra al teatro Esperia, che lo ebbe come suo primo brano. In quell'occasione i battiti iniziali del tamburo andino (bombo) mi risuonarono come dei battiti segreti, una magia allo stato puro.

Tornando a cantare il gruppo propone uno di quei brani che gli fa compagnia dai suoi inizi, una bellissima "Juanito Laguna remonta un barrilete", che i cileni ripresero e armonizzarono a partire da una versione di Mercedes osa (grandissima cantante argentina) agli inizi degli anni Sessanta, poco dopo la loro nascita avvenuta nel 67.

In questa versione il gruppo mantiene la struttura e la tonalità che questa canzone conosce almeno dalla versione di "Chile resistencia" (1977), album che presenta la seconda versione di questo brano eseguita dal gruppo. Infatti la versione originale risale agli anni Sessanta e in Italia non ha mai avuto divulgazione, se non in un circuito di cultori del gruppo.

Dal repertorio storico del gruppo viene ripresa anche questa "Ya parte el galgo terrible", canzone che noi italiani abbiamo conosciuto nell'lp "La nueva canción chilena" del 1974. Il brano, su testo di Pablo Neruda, mantiene molta della sua forza, anche se forse l'assenza di percussioni mitiga qualcosa che non può essere assolutamente mitigato, la denuncia della violenza con cui alcuni popoli vengono sterminati da altri in qualsiasi momento o luogo.

Tornando ad omaggiare Violeta Parra, il gruppo offre una tenerissima versione del "Rin del angelito", canzone con la quale la cantautrice cilena si ispirava a certi riti che accompagnano la morte dei neonati. Ho sempre amato da impazzire il pezzo strumentale che divide le due parti, soprattutto per la bellissima melodia che esegue la quena, strumento a fiato ad una canna sola. La melodia è molto semplice ma è ricca e nasconde difficoltà.

L'altro grande maestro della musica cilena è il chitarrista, drammaturgo, regista di teatro, cantautore e ricercatore Víctor Jara. Il brano che il gruppo sceglie per ricordarlo è "El arado", tra gli ultimi composti dal cantautore e da lui pubblicato del vinile "Presente", inciso con l'accompagnamento degli stessi Inti-Illimani. La versione proposta è veramente impeccabile, il gruppo già si è scaldato e questa formazione, come abbiamo detto rimasta in piedi per poco tempo, sta dimostrando in pieno le sue qualità.

Sempre frugando nel repertorio storico del gruppo, si ha il piacere di ascoltare "Simón Bolívar", brano che originariamente chiudeva l'lp "Viva Chile!" (1973).

Curiosissima è la fioritura della chitarra durante l'esecuzione del rif che introduce ogni singola ripetizione della melodia. Questo tipo di colori, sinceramente, suonati da una chitarra suonano strani, infatti se la dovessi descrivere è una curva di semitoni molto comune in certi generi pianistici come molti sottogeneri del jazz.

Subito dopo si esegue una versione molto bella di "Bailando bailando", uno dei brani che ha composto il polistrumentista José Seves. È un brano completamente rilassato, anzi direi perfettamente festoso, che dimostra a quelli che credono gli Inti-Illimani solo un gruppo rivoluzionario, che questa è stata solo una parte, oltretutto sempre ritenuta marginale da loro stessi, della loro espressività artistica. Curiosa l'intrusione del clarinetto e del contrabbasso. Se il secondo dà un corpo diverso al brano, il primo tende a dare seicuramente un ambiente più idilliaco che spesso il sassofono (fiato originariamente presente insieme ai flauti andini nella versione del cd "De canto y baile) sinceramente spesso rovina.

Subito dopo il gruppo propone uno dei suoi classici indiscussi, entrato nel cuore anche di noi italiani, una festosissima "Señora chichera". La versione è fortemente imperniata sulle note di contrabbasso e su delle svisature di sassofono che, almeno secondo la sottoscritta, sono un po' troppo barocche e metropolitane per un brano spudoratamente andino e tradizionale come questo. Comunque si fa molta festa, anche aiutati da un violino che invece contribuisce ad avvicinare il brano a certe atmosfere boliviane poco conosciute da noi. Il finalino è molto chiassoso ma è un chiasso dolce, che diventa automaticamente metropolitano quando inizia a preludere a "Sensemaya", uno dei primi esperimenti di musica afro-cubana di composizione cilena. Ci stiamo riferendo ad un brano di Nicolás Guillén, grande poeta cubano molto noto in vari paesi di lingua spagnola, che ha una storia un po' particolare per quanto riguarda me. Quando ero molto piccola, credo facessi le elementari, sentii il ritornello "mayombe bombe mayombe", che è poi quello che scandisce tutta l'ultima parte del testo. Immaginatevi quale fu il mio stupore quando me lo ritrovai (ben dieci anni dopo) inciso dagli Inti!).

Continuando il gruppo offre una "Petenera", un carinissimo brano messicano interpretato anche da Daniel Cantillana, voce giovane che da dieci anni circa è diventata una delle più importanti della formazione. Il brano è interpretato con molte "rotture di note" tipiche della tradizione messicana.

Ed eccoci ad una delle canzoni più recenti tra quelle che sinora si sono sentite, un brano ispirato alla tradizione afroperuviana scritto da Horacio Salinas su testo del poeta e cantautore cileno Patricio Manns, dal titolo "Negra presuntuosa". La voce di Daniel, sto parlando davvero a cuore aperto, non mi ha mai entusiasmato, però in questi brani un po' meno passionali o quantomeno non principalmente passionali, va detto che riesce a dare molto. È curioso il finalino cantato da Horacio Salinas, accompagnato con molte note staccate da parte degli strumenti.

Sicuramente molto più passionale è questa "Arriesgaré la piel", che Jorge canta con piglio da cantante abituale di musica "ranchera" (la tipica musica messicana suonata dai gruppi di Mariachi). Meravigliosi sono i finali acuti che permettono di entrare completamente nell'atmosfera del brano, anche al di là del testo che pure è fondamentale per capire questa poesia di tentativo di ritorno ad un amore lasciato per errore o per inganno.

Ed eccoci ad un bellissimo valzer peruviano, scritto da Horacio Salinas su testo di Patricio Manns. Il brano dava il titolo ad un cd speciale, quell'"Amar de nuevo" che io ricevetti con largo anticipo sulla data di pubblicazione in Italia, proprio in occasione di quel concerto di Bastia Umbra a cui ho fatto riferimento precedentemente. La canzone è caratterizzata da un dialogo tra le voci di Daniel Cantillana e Horacio Salinas, che si interpellano tramite dei controcanti di terze che Salinas esegue sotto la melodia base di Cantillana.

Ed eccoci alla principale e prima colpevole del mio amore per gli Inti-Illimani, a quel capolavoro di romanticismo e passione intitolato "Medianoche", che apriva e presentava il cd "Arriesgaré la piel" (1996). Qui abbiamo l'insuperabile piacere di sentirla cantata da quello che ne è stato il primo interprete, il tenore José Seves. Questo è un brano che richiede potenza, quindi sono sempre un po' scettica ogni volta che lo devo sentire interpretato da voci troppo dolci (come ad esempio quella di Daniel Cantillana). Qui è stato curioso l'intervento del clarinetto, che ha toccato il jazz molto più spesso rispetto a quanto non lo ricordi nell'originale, oltre all'entrata del violino, strumento che comunque sta benissimo in qualsiasi musica un minimo romantica (e il bolero alla cubana lo è moltissimo).

Il brano successivo è un'interpretazione molto personale di "Fina estampa" di Chabuca Granda (cantautrice peruviana molto importante nei paesi di lingua spagnola). La versione di José Seves, aiutato molto dalla chitarra di Horacio Salinas, è molto rallentata, almeno rispetto alle altre che conosco, e forse è un po' troppo poco tenera. Comunque è estremamente illuminante su quale sia lo stile di questo grandissimo cantante, che utilizza la voce più come uno strumento che come un semplice mezzo di dizione.

Il brano successivo è un brano a cui gli Inti-Illimani sono molto legati perché in esso hanno raccontato, aiutati dalla poesia di Patricio Manns, le sensazioni di un esiliato che ritorna nel proprio paese (quando loro ancora non lo potevano fare, infatti il brano è del 1979 e loro sono potuti tornare solo nove anni dopo).

La parte ufficiale del concerto (perché è difficile che gli Inti possano chiudere un concerto quando per la prima volta salutano il pubblico) si chiude con "La fiesta eres tú, bellissima cumbia che purtroppo non possiamo sentire per intero nell'edizione che mi ha permesso di parlarvi di questa esibizione. La curiosità principale di questa versione è la voce diHoracio Salinas che sostituisce quella di Daniel Cantillana, che interpreta molto convincentemente il brano nel cd.

Spero di avervi fatto venire voglia di riascoltare gli Inti-Illimani senza aggettivi e lotte interne, con la voglia di scoprire gli anni che spesso, per troppa superficialità, non consideriamo qui nel paese che li ha accolti per tre lustri.

Inti-Illimani live a Puerto Aysen (Cile)

giovedì 5 agosto 2010

doardo de Angelis: Historias"

Carissimi lettori, ho il piacere e l'onore di recensire il più recente lavoro di uno dei pochi cantautori rimasti in un paese in cui questo nome si dà con troppa facilità a chiunque scriva anche solo una canzoncina.

L'artista di cui ci occupiamo si chiama Edoardo De Angelis, uno dei fondatori di quel gruppo spesso chiamato "Scuola romana". Sono suoi alcuni dei classici della canzone italiana, che ritroveremo in questo bellissimo "Historias", pubblicato nel 2008 per l'etichetta "Il manifesto".

L'album è tutto dedicato all'America, sia del Nord che del Sud, con uno sguardo non rivolto ad un mito, ma ad un territorio pieno di suggestioni antiche e per questo sempre nuove.

La prima traccia è ispirata alla lettura della produzione civile dello scrittore cileno Luis Sepúlveda ed è intitolata "Cinque parole". In questa società in cui l'immagine predomina e schiaccia le parole, riducendole spesso ad un chiacchiericcio virtuale, è meraviglioso ritrovare qualcuno che chieda "una parola che non debba cadere mai", oppure "che non debba tacere mai". La ballata ci fa trovare un cantautore che utilizza in qualche caso le risorse del pop, ma non disdegna, anzi si direbbe preferisce, quelle delle tradizioni proprie o altrui.

La seconda traccia è una rilettura personale da parte di De Angelis di un personaggio biblico come Davide, questo personaggio la cui presenza ha fortemente condizionato la storia degli Ebrei. Il brano è una ballata apertissima, in tonalità minore ma spesso puntellata da accordi maggiori, sui quali il pezzo si ferma e si chiude. La profondità del testo, uno dei tanti ritratti di perdenti che costellano il cd, potrebbe ricordare il grande De Andrè, col quale d'altronde De Angelis ha anche in comune una certa profondità tellurica nella voce, caratteristica che il cantautore romano equilibra con una dolcissima confidenzialità.

Ed eccoci ad una delle canzoni che io amo di più tra quelle presenti in questo cd, uno dei gioielli portati al successo da Lucio Dalla, la bellissima "Sulla rotta di Cristoforo Colombo". Si può forse dire che questa coppia di brani crei un'atmosfera notturna, confermata dalla struttura intima che De Angelis, che si è occupato anche della produzione di questo cd, ha dato al ritornello di questo brano. È sinceramente facile immaginare in questo Colombo un gran bevitore, un po' forse alla Hemingway. Questo brano, come altri momenti del cd, è caratterizzato da una poderosa sezione di fiati che dà veramente l'idea di una poderosa orchestra o "sonora" cubana degli anni Cinquanta. In questa sezione si innesta un breve pezzo in dialetto leccese cantato da Bungaro, che rappresenta una rinnovata sintesi tra il Salento e Cuba, a dimostrare che forse, come diceva Pierangelo Bertoli, "è sempre uguale il Sud".

Ed eccoci ad una storia nord-americana, raccontata con ricostruzione scientifica. Anche qui, solo leggermente oscurati da piccoli accenni di batteria sintetica nella prima parte del brano, si ritrovano i poderosi accordi arpeggiati alla vecchia maniera, come oggi non si sente fare più, perché la musica d'autore, quella poca che c'è, tende a prendere come modello lo swing statunitense e non guarda mai alle ballate né nord-americane né europee. Il brano è il racconto di una rapina, ma nessuno si aspetti la condanna dei banditi e l'assoluzione o la mitizzazione dell'"uomo di legge", che anzi viene descritto come un personaggio che si crede eroe e che da questo piccolo fatto prende troppo alla lettera il suo ruolo come i suoi soldati. Interessantissimo il recitativo di De Angelis, che si sdraia sulle poderose basse della sua voce, a cui si unisce un bellissimo assolo di quena (flauto andino ad una canna sola), che si snoda su scale moderne ma bellissime magicamente soffiate.

Ed eccoci ad "Un'altra medicina", dedicata alla storia di Ernesto "che" Guevara. Fortunatamente non assistiamo alle troppe e troppo comuni mitizzazioni del personaggio, infatti ci troviamo davanti ad un ritratto umano e tenerissimo di un "che" Guevara giovane ma già convinto dei suoi ideali. Il ritmo non guarda all'America Latina, alla quale ci riporta la fisarmonica usata in un registro particolare. Il brano, infatti, è orgogliosamente una ballata basata su un poderoso finger piking della chitarra, da cantautore anni Settanta, intervallato da suggestioni che possono rimandare ad un limbo tra bossanova e ballata raffinata.

Ed eccoci ad un altro brano puntellato da una poderosa sezione di fiati, di quelle che caratterizzano tutta la musica cubana e centroamericana a qualsiasi livello. Il brano, intitolato "Ramírez", potrebbe ricordare "Avventura a Durango" di Dylan o altre produzioni di cantautori di matrice dylaniana. L'anima centroamericana, però, è mitigata da un mantice che ricorda un po' le tecniche del tango, che comunque accompagnano come un respiro silenzioso ma forte quasi tutta questa serie di storie americane. Dopo il canto, veramente superbo e limpido come ormai è raro sentire, si staglia un assolo di trombone, con il quale dialoga il rif di fiati che porta il brano alla sua naturale conclusione.

Ed ecco un altro grande classico della produzione del cantautore romano, una canzone scritta in vernacolo romanesco e lanciata dalla Schola cantorum agli inizi degli anni Settanta. Ci riferiamo, naturalmente, a "Lella", che il cantautore interpreta con l'aiuto nel ritornello della cantante umbra Lucilla Galeazzi. Questa versione, leggermente portata verso l'America Latina anche e soprattutto grazie alle scale pentatoniche di quena dell'introduzione, perde un po' della forza quasi tellurica che porta con sé il dialetto romano, per acquistare una confidenzialità segreta, forse difficile da capire, ma innegabilmente bella. Va anche detto che questa storia, di un uomo che confessa un omicidio probabilmente scaturito da gelosia, oggi acquista tinte di attualità allarmanti, perché in questo paese, che troppo spesso si vanta di essere sviluppato, le donne hanno ancora troppo poca libertà.

La traccia successiva, intitolata "Mamén", è un omaggio alla ritualità, questa particolare vitalità che unisce tutti i paesi del Sud, e di cui ora si stanno riscoprendo alcuni elementi, in maniere non sempre condivisibili. Il brano di De Angelis è un misto tra una chacarera argentina, leggermente personalizzata nellastrofa, ed una normale ma sempre bella ed interessante ballata terzinata anni Sessanta-Settanta. Meraviglioso l'assolo di violino finale, che ha delle venature tra il country americano e la musica del sud dell'Argentina.

Andando avanti si arriva a quello che per me è il momento più commovente di tutto il cd, una bellissima rielaborazione de "La casa di Hilde", tenerissima canzone ispirata ad una storia personale della vita dell'autore, ma portata al successo da Francesco De Gregori (i cui primi due dischi sono stati prodotti da De Angelis). Nell'armonizzazione troviamo una "cadenza evitata", che però non appesantisce affatto l'ascolto, ed un breve passaggio in diminuita che dà al brano un po' di anima brasiliana. Niente tradimenti, nonostante tutto, anche perché la voce di De Angelis è aiutata solo da sonorità semplici e non artefatte.

La successiva traccia è il ritratto di un ragazzo napoletano che "di lavoro fa il tifo al Napoli perché di lavoro non ce ne sta". Anche questo ritratto è tenerissimo, non si ha voglia di fare morale, si ha voglia di gridare l'esistenza di questa gente affinché le sia data una possibilità. Il brano ha una matrice brasiliana indubbia, ma non si ha voglia di scimmiottare una cultura, la si vuole mettere a confronto con la propria affinché le due si possano reciprocamente arricchire.

Ed ecco un'altra rilettura biblica, ma, come già avevamo potuto costatare in "La stella di Davide", il personaggio è talmente umanizzato, che sembra quasi volerci dire che è una metafora di un mondo in piena contraddizione, insomma questa è la religiosità di De Andrè, quella che si confonde con la politica e l'impegno e non conosce la provvidenza. La ballata rappresenta un ritorno alle sonorità latino-americane già meno mediate dall'italianità, che è rappresentata solo dalla grande apertura melodica della voce di De Angelis.

Ed eccoci a "Waterloo", brano dove il personaggio di Napoleone viene ritratto come un perdente, ma sempre con tenerezza, perché la chiave del vero cantautorato è questo sentimento che oggi pare aver perso la cittadinanza.

L'ultima traccia è una reinterpretazione da parte di De Angelis di una ballata cantata da Cesaria Evora, grande cantante capoverdiana lanciata, come molte altre, da una grandiosa carriera francese. Il brano, pur essendo un'evasione apparente dal repertorio del cantautore, finisce per essere un riassunto di tutte le tematiche che si affrontano leggermente ma ineluttabilmente in questo cd.
È un cd che consiglio fortemente a chiunque voglia essere ancora stregato dalla musica, dall'arte vissuta nella sua semplicità e da una delle più belle voci d'Italia.

Buon ascolto!

Edoardo De Angelis: "Historias" (Il manifesto dischi, 2008).

lunedì 2 agosto 2010

Zoè in Toscana.

Carissimi lettori, sono appena tornata dalle vacanze in Toscana, che si sono concluse con un bellissimo e festosissimo concerto degli Officina Zoè tenutosi a Porto Santo Stefano. Non ve ne posso parlare come vorrei, in quanto il mio provider di posta elettronica ha pensato bene di cambiare la grafica che lo contraddistingue, mandando assolutamente fuori chiunque lo utilizzasse e fosse non vedente (come me ad esempio).

Il concerto, cosiccome quello tenutosi a Gualdo Cattaneo, si è aperto con una "Santu Paulu I" con voce solista di Lamberto Probo. Il brano, come poi tutto l'insieme del concerto, è stato caratterizzato da una durezza notevole, forse naturale continuazione del processo di avvicinamento alla dimensione tellurica che contraddistingue questa fase recente dell'Officina. La durezza era data dal canto di Cinzia, la quale rifuggiva da ghirigori e virtuosismi vocali, che erano invece portati avanti con caparbietà da Rachele. La seconda voce dell'"Officina" sta entrando in una fase di maturazione che la porta ad essere da un lato profondamente dentro la filosofia del gruppo, ma dall'altro a voler dare il proprio nuovo e cosciente apporto alle sue sonorità.

Subito dopo si è avuta la curiosa versione valzerata di "Nia, nia, nia", che un secondo ascolto permette sicuramente di apprezzare maggiormente. Quello che continuo a pensare è che la velocità e l'allegria che porta con sé il tempo di valzer (se non di mazzurka) a cui è portato il brano, non permette di assaporarne tutta la profonda dolcezza. Un'altra caratteristica che ha indurito ulteriormente il brano, sono stati alcuni bellissimi finali calanti e corti, di cui Cinzia Marzo ha riempito il suo canto.

Andando avanti si è poi avuta "liknon", bellissima ballata ispirata a Cinzia Marzo dalla lettura del libro "Sola andata" di Erry de Luca. Dal libro del famoso romanziere e poeta, il brano riprende una certa apertura poetica, che comunque trovo profondamente connaturata anche al mondo della cantante di Corsano. Bellissima la presenza della seconda percussione, che equilibrava con il suo suono indeterminato i bassi della tammorra muta. Il brano non mancava per niente di modernità e allucinazione, nonostante l'assenza del contrabbasso nel suo organico. Mi ha stupito profondamente la duttilità del violino, strumento a cui è stata affidata una lunga e complicatissima parte. Il suono dello strumento era sporchissimo, niente però faceva pensare alla sporcizia che troviamo nella musica tradizionale, quella patina che si ascoltava era lo sporco della metropoli. Prima della parte veloce, si è assistito ad un applauso a scena aperta, causato dalla pausa che divide le due diverse parti del brano. Comunque è emozionantissimo sentire brani che non si sono mai assaporati dal vivo, perché quando gli interpreti sono bravi questi prendono una nuova e stupefacente forma.

Tra i classici dell'"Officina", ovviamente, non è mancata "Don pizzica". Il brano è tra i più rappresentativi della produzione d'autore del gruppo, ma non mi sentirei nella possibilità di presentarlo come un pezzo nel segno della tradizione. Se lo si analizza a livello armonico, esso è caratterizzato da una maggiore ricchezza rispetto alla tradizione e da combinazioni d'accordi inusitate. È un brano coinvolgente ed è impossibile negarlo, ma io parteggio spudoratamente per "Filia", che trovo molto più semplice e festosa.

Insuperabile è stata la versione di "Ijentu", brano che da due anni a questa parte è diventato un rompicapo inestricabile. Le voci amano troppo giocare e ormai non si tengono, anche aiutate dalla notevole bravura dell'armonicista Luigi Panico.

C'è stata poi anche "kali nifta", che ha conservato l'inusitato salto di velocità da lentissimo a veloce sperimentato a Gualdo Cattaneo. Anche qui rischierei di ripetermi se facessi le mie osservazioni, voglio solo dire che forse questo brano è troppo triste per dargli tutta l'allegria che i gruppi salentini gli regalano (quella degli Zoè resta la versione più bella in assoluto, quindi non si discute!).

In griko c'è stato poi spazio per la "Pizzica mistica", brano che Cinzia ha interpretato in maniera estremamente dura, ad eccezione degli inizi di strofa in "pianissimo" o sussurrato. Il virtuosismo che aveva eseguito in Umbria ha trovato spazio anche qui, ma non era eseguito con la leggiadria di un volo mistico, semmai con lo spirito festoso che culmina in un grido di giubilo.

Non c'è stata la bellissima "Lu rusciu de lu mare", ma abbiamo avuto il piacere di ritrovare "T'amai". È un brano tra i meno conosciuti ma più emozionanti della tradizione salentina, uno di quelli dove si è avuta maggiormente la dialettica tra la durezza secca di Cinzia e quella barocca di Rachele.

Anche in questa occasione hanno voluto cantare "Moira", ma questa volta il brano non ha conservato la sua struttura di canto quasi gregoriano, arrivando ad avere un contatto profondo con le radici più ancestrali del canto funebre griko. Ci troviamo davanti un canto molto più barocco e gorgheggiato, niente impostazione e limpidezza, ma forse più vicino alla disperazione contadina.

Il concerto si è chiuso con alcuni brani del repertorio d'autore dell'"Officina". Abbiamo potuto ascoltare "A mammata", pizzica cantata in italiano dedicata ai potenti. Sinceramente è un brano che non finirà mai di provocarmi sensazioni strane, miste di affetto, condivisione ma anche di discordanza con la fusione fra la pizzica e la nostra lingua. Bellissima la parte di chitarra acustica che accompagnava il finalino, perché la terzina si stemperava e veniva scoperta la radice binaria della pizzica.

Notevole, sempre fra quelle che il gruppo ha estratto da "Maledetti guai", è stata "Ciao rom", suonata di ispirazione balcanica interpretata con maestria da Donatello Pisanello all'organetto coadiuvato dai tamburellisti Lamberto Probo e Danilo Andrioli e dal violinista Giorgio Doveri. Per quanto riguarda la partecipazione del violino, ancora una volta devo dire che in quei fatidici trenta secondi dove il giro base si infrange su un sol minore prolungato seguito da un re minore, lo strumento non ha saputo esprimere quella magica tristezza che riesce a dare in disco.

Sempre dall'ultimo cd dell'"Officina" si è avuta poi la bellissima "Cu li suspiri", con cui il gruppo ha chiuso la parte ufficiale del recital. È un brano dove Lamberto spesso si fa prendere la mano a livello di velocità di terzina, e purtroppo anche stavolta è stato così. Questo ovviamente ha comportato una cattiva gestione del canto da parte di Cinzia e Rachele, le quali ovviamente non potevano pensare ad abbellire i loro fraseggi vocali, in quanto impegnate a gestire bene il fiato. Ciò non toglie che questo sia un bel brano, anche se vi consiglio di ascoltare la versione da studio, quella presente nel cd "Maledetti guai" e nel loro myspace in versione accorciata.

I due bis, concessi dopo scalpitii generalizzati del centinaio di persone convenuto nel piazzale antistante la scuola Edmondo de Amicis di Porto Santo Stefano, sono stati una commovente "La lettera ca me desti" e "Santu Paulu II" (quella con voce solista affidata a Cinzia Marzo). Per quanto riguarda la prima si può dire che è stata molto più dura, anche se la durezza che ci abbiamo potuto notare era condita ed equilibrata da un notevole senso di dolcezza nascosta. Interessanti i finali acuti sul modello di Rosa Balistreri, eseguiti spesso e volentieri da Cinzia. In questa occasione il brano forse ha acquistato un'anima più vicina alla sua essenza, perdendo quella bellissima confidenzialità urbana che ce lo aveva fatto conoscere ed amare.

L'ultimo bis, siccome io non mi sono permessa di richiedere "Menevò", è stato un canonicissimo "Santu Paulu II", che io ho ballato da in piedi.

La pizzica era vorticosa, ci si era avvicinati moltissimo alla versione di terra, la festa era ormai incontenibile.

L'aver finalmente potuto vedere gli Zoè due volte in molto poco tempo, solo trentacinque giorni, mi ha permesso di confermare una mia personale ed assodata opinione sulla loro personalità. Avevo sempre pensato che loro fossero in grado di cambiare e di molto la loro gamma espressiva, ne ho avuto la assoluta certezza. Grandi!