domenica 31 gennaio 2010

Commento alla puntata del 30/01/10 di "canzonenapoletana@rai.it.

Carissimi lettori, come sempre la domenica vi regalo il commento alla corrispondente puntata di "canzonenapoletana@rai.it".
Come ricorderete il poeta di cui Paquito del bosco ci sta parlando è Raffaele Ferraro-Correra.
Si inizia con un brano spassosissimo, risalente al 1906, intitolato "Comm'o zuccaro". E' un valzerino lento, che Paquito del bosco ci sta facendo ascoltare dalla voce di una famosa sciantosa dell'epoca di cui non sono riuscita a memorizzare il nome. Il brano è una descrizione dell'amore tra le più spassose e chiare che si possano pensare. Si parla della dolcezza di questo sentimento, nonché della sua importanza fondamentale nella vita di ognuno di noi. La versione che si ascolta qui, lo avrete anche intuito, è in condizioni abbastanza brutte, ma per ascoltare questo brano si può ricorrere agevolmente a interpretazioni come quella di Sergio Bruni, con orchestra, o di Egisto Sarnelli, con bellissimo accompagnamento di chitarra.
Ed eccoci ad un brano interpretato da Francesco Daddi, bellissima voce tenorile che, purtroppo, però non si può godere in tutta la sua pienezza data la cattiva qualità di queste incisioni. Il brano, che ormai a centodue anni, ha un ritmo molto simile al precedente, ed è caratterizzato, altrettanto come il precedente, dalla schiettezza del tono maggiore.
Siamo con un brano del 1913, intitolato "Bandiera bella", a tempo di marcia ed interpretato da Mario Massa. Il cantante ha una bellissima voce tenorile, anche se non molto potente. Il testo, purtroppo, è incomprensibile per le solite ragioni, ossia per la scarsa qualità del sonoro.
Dello stesso anno è questa "Canta speranza" che stiamo ascoltando dalla voce di Giuseppe Godono. E' un brano tra i più poetici, malinconici e belli scritti da Ferraro-Correra. E' uno dei tantissimi brani caratterizzati dall'alternanza di strofe in minore e ritornelli in maggiore.
Si continua con una serenata intitolata "Comme si bbona" interpretata da Mario Massa. Dovrebbe essere una tarantella, caratterizzata però da quei rallentamenti, fra l'altro in una parte molto lunga di ogni strofa, che non ci permettono di farci prendere dal ritmo.
Eccoci ad una bella voce femminile, quella di Iole Baroni. Il brano che viene da lei cantato si intitola "Saie Marì", ed è risalente al 1913. E' un brano in tre quarti ed in tonalità maggiore, molto romantico, con quel velo leggero di malinconia a cui spesso la canzone napoletana si arrende.
La puntata si chiude con un brano interpretato da Giuseppe Godono intitolato "'A calamita mia". E' un brano in tre tempi, di ritmo lento. E' un brano di base allegro, ma l'allegria viene intiepidita da certi passaggi in minore che caratterizzano il ritornello. Il testo è una bellissima serenata. L'interpretazione è dolcissima e direi perfetta.
Chiedo ancora una volta scusa per la poca precisione che metto in questi commenti, ma vi giuro che non si può fare di meglio con matrici di questa qualità. Mi auguro, con questi commenti, di far capire che la canzone napoletana ha un mondo di brani che stanno morendo per scelte arbitrarie ed ingiuste, a cui i cantanti si dovrebbero ribellare ricantandoli.

domenica 24 gennaio 2010

Commento alla puntata del 24/01/10 di "Canzonenapoletana@rai.it".

Carissimi lettori, si inizia un nuovo ciclo di trasmissioni all'interno di "Canzonenapoletana@rai.it". Il poeta di cui si occuperà Pachito del Bosco è Raffaele Ferraro-Correra. Purtroppo non sono riuscita a capire il titolo del primo brano che viene trasmesso, una tarantelluccia molto carina scritta dal nostro poeta nel 1893. Gli interpreti, davvero bravi, sono I figli di Ciro, nota troupe di posteggiatori dell'epoca. Il brano, di cui naturalmente si capiscono poco le parole per l'antichità del disco, sembra una tarantella di quelle spassose, caratterizzata dalle solite alternanze tra minore e maggiore.
Ed eccoci qua ad un duetto che potrebbe ricordare il canto popolare salentino "'U cuccurucù", intitolato "Io vurria". Il brano è risalente al 1896 ed è interpretato da Berardo Cantalamessa e Ersilia Faraone. Il ritmo potrebbe essere una tarantella, accompagnata molto semplicemente. Il testo purtroppo è difficile da capire, ma mi sta facendo piacere sentire questo repertorio storico.
Lasciamo la tarantella per occuparci dei ritmi binari, con un brano d'inizio Novecento intitolato "'A calamita". Il brano è interpretato dai Figli di Ciro. Anche qui ritroviamo le caratteristiche che avevamo riscontrato in brani coevi di altri autori, specialmente il rallentamento in corrispondenza di parti in tonalità minore.
Siamo con Gennaro Pasquariello, che ci sta interpretando un brano del 1904 intitolato "'A gelusia", con musica di Nutile. Non riesco a parlarvi bene della struttura musicale del pezzo, ma si può dire, senza sbagliare troppo, che sia uno di quei valzerini romantici, cantati con impeto lirico.
Dello stesso anno è questa "'O core d' 'e femmene", testo musicato da Giuseppe De Gregorio. L'interprete è Francesco Daddi, tenore che già avevamo incontrato. Il brano, di cui riesco quasi a capire il testo, è sulla variabilità del cuore femminile, che non riesce ad amare con la stabilità voluta dall'uomo.
Eccoci a quella che è la canzone più famosa di Ferraro-Correra. Il brano si intitola "Tarantella d' 'e vase". L'interpretazione che ascoltiamo, rigorosamente d'epoca ed affidata a Roberto Ciaramella ed Elvira Donnarumma, è molto teatrale e divertente, sicuramente diversa da quelle più recenti, caratterizzate, almeno per quello che conosco io, da una dizione più semplice e meno barocca. Da ascoltare, secondo me, è la versione di Sergio Bruni.
Dello stesso anno è questa "Core core", che viene cantata da Diego Giannini. La prima cosa che si nota è l'annuncio del titolo della canzone, l'interprete e la casa discografica produttrice del disco. Il brano in sé è nei dintorni della tarantella (credo). Comunque, mi pare di poterdire che sia abbastanza spassosa. I dubbi si debbono al fatto che capisco poco i testi e, oltretutto, in quegli anni si tendeva, almeno secondo me, a standardizzare molto l'interpretazione, fino a non far capire se i brani sono allegri o tristi.
La puntata si chiude con "Comm'a luna", interpretata da Gennaro Pasquariello. E' un bel brano, ma, purtroppo, non capisco niente delle parole. E' sempre uno di quei brani binari, così tipici di quel periodo, in una schietta tonalità maggiore.
Chiedo scusa per l'aleatorietà delle osservazioni di cui saranno fatti questi commenti, ma quando si tratta di materiali storici, si sa, la qualità è quella che è.

sabato 23 gennaio 2010

Il canto politico: da canto antisistema a canto di sistema (corretto)

Carissimi lettori, oggi abbiamo voglia, io ed un mio inseparabile amico, di condivedere con voi certe nostre personali riflessioni sul canto politico, una delle tante passioni che ci accomuna. L'articolo ripercorrerà la storia del canto di lotta, distinguendo almeno due sottocategorie principali, di cui si illustreranno le maggiori caratteristiche sia a livello testuale che musicale.
Il periodo d'oro della canzone di lotta, secondo noi ma non solo, è quello che va dall'ascesa del mondo operaio alla ribalta, verso la fine dell'Ottocento, alla stagione degli anni di piombo. Da qui, direi di entrare subito nel vivo, si possono subito presentare i due tronconi di cui parleremo.
Il primo troncone io lo definirei "politico-riflessivo" o, se si vuole, "politico-poetico". I brani migliori di questo repertorio, molto copioso specialmente in America Latina e da noi praticato da alcuni grandi intellettuali come Pietro Gori o cantautori come Fausto Amodei, sono: "Addio Lugano", "Per i morti di Reggio Emilia", "América novia mía", ripresa dal repertorio degli Inti-Illimani. Questo filone è caratterizzato da un diluimento del messaggio politico, che viene apparentemente stemperato dalla presenza di poesia o anche solo dalle circostanze di composizione. "Addio a Lugano", giusto per fare un esempio, è un canto di addio ad una terra che ha accolto il grido libertario degli anarchici, ed è politico solo per la rabbia di chi deve fuggire, ma non contiene riferimenti a situazioni concrete di effettiva lotta. Questo sottogruppo, musicalmente, si può caratterizzare per una ricerca di ricchezza sia melodica che armonica, testimoniata, ad esempio, dal difficilissimo giro d'accordi della citata "Per i morti di Reggio Emilia".
A fare da contraltare a questo repertorio, c'è quello che nel linguaggio della "Nueva canción chilena", viene chiamato di "Canciones contingentes", nate spesso verso la fine degli anni '60, con molta minor raffinatezza e con riferimenti concreti a circostanze storiche di lotta. Tra le italiane, per questo filone, che chiameremo "Politico-concreto" o "Politico-contingenziale", possiamo ricordare molto repertorio popolare di ogni provenienza, e alcune ballate di cantautori come "Il vestito di Rossini" di Paolo Pietrangeli o "Borghesia" di Claudio Lolli. Questi brani, musicalmente, sono spesso caratterizzati da una maggiore povertà armonica e melodica, proprio perché sono canzoni da e "in piazza". Molto spesso quest'ultimo repertorio prevede anche l'esecuzione collettiva monodica o polivocale.
Oggi il canto politico, essendo appannaggio quasi esclusivo di intellettuali, viene trattato con molta superficialità o, peggio, viene digerito talmente dal "sistema" che vuole teoricamente abolire, che ne fa il gioco. Non è che non esistano i canti da piazza, ma sono eseguiti in contesti che non prevedono la fruizione concreta dei brani da parte di persone estranee ai collettivi compositori. Una delle conseguenze di ciò è stata la sparizione della distinzione fatta sopra. Si veda, ad esempio, l'ultimo capolavoro degli Zoè. Nel cd in questione, "Maledetti guai", troviamo i due brani di apertura che dovrebbero essere catalogati, per la durezza di alcune loro giuste affermazioni, nel filone "contingenziale". Gli stessi brani, però, spesso e volentieri, si perdono dietro ad incantevoli ma inutili ghirigori ed arzigogoli poetici. E' questo il caso del pezzettino di "Maledetti guai" che dice: "Ieri ho fatto un brutto sogno,
brutto sogno, brutte storie
per gli ospedali, l'informazione, pei precari e per le scuole". Un altro esempio, tratto dal brano "A mammata", potrebbe essere:
"E lui ci insegna tante cose,
a dire false verità.
Presta falso il giuramento,
la parola non mantiene mai.
Non mantiene la parola
data nelle trattative
e siccome è un gran stratega
non finisce sotto accusa".
Se si ripercorre la storia dei due filoni sopra descritti, si vede chiaramente che essi hanno avuto una evoluzione opposta e speculare, quindi metterli insieme è una forzatura intellettuale e, almeno secondo me, unire ciò che la storia ha fatto nascere separato è un affronto alla storia stessa.
Gli Zoè, invece, sono maestri nel canto "politico-poetico". Da antologia, sempre tratta da "Maledetti guai", è "Liknon", che, sotto la veste di un brano intimo, è uno dei canti più riusciti di "ponte" tra l'antica e dimenticata emigrazione italiana, e l'attuale flusso migratorio dall'estero. Qui, aiutata anche dalla melodia eterea che lei stessa ha composto, Cinzia emette un grido antirazzista, perché cosiccome noi siamo stati delle anime perse ed abbiamo esportato "miniere di solitudini", ora le riceviamo.
Per il Salento, l'ho già detto in varie occasioni ma qui cade a fagiolo, esempio insuperabile di canti politici "contingenziali" sono i soliti Aramirè di "Mazzate pesanti", che d'altronde non hanno un centesimo della poesia di Cinzia.
Un altra visuale possibile del cozzo tra contingenza e poesia, può essere quella rappresentata da coloro che vogliono musicare in maniera raffinata brani che definirebbero "contingenti" o da piazza. Gli esempi più sonanti sono quelli de "I treni per Reggio Calabria" e il "Lamento per la morte di Pier Paolo Pasolini" scritti da Giovanna Marini. Forse è bene ricordare che il canto politico non nasce come "pezzo da museo" che, può divenire oggetto di reinterpretazione magari quest'ultima assai discutibilmente azzeccata e fine a se stessa. Il canto politico nasce dal cuore e solamente col cuore si produce. Esso non può essere strumentalizzato, per nessun fine. Così come non può essere venduto o accademicizzato per un pubblico di élite. Non si può, tra l'altro, andare in un canale nazionale come Rai Radiotre, e, dopo aver citato un intervallo di note particolare, rifiutarsi di spiegarlo perché tanto chi ascolta non avrebbe capito niente.
Oggi, in conclusione, si è arrivati al paradosso, che si è molto più politici quando non si fa politica.

Canto politico: da canto antisistema a canto di sistema.

Carissimi lettori, oggi abbiamo voglia, io ed un mio inseparabile amico, di condivedere con voi certe nostre personali riflessioni sul canto politico, una delle tante passioni che ci accomuna. L'articolo ripercorrerà la storia del canto di lotta, distinguendo almeno due sottodategorie principali, di cui si illustreranno le maggiori caratteristiche sia a livello testuale che musicale.
Il periodo d'oro della canzone di lotta, secondo noi ma non solo, è quello che va dall'ascesa del mondo operaio alla ribalta, verso la fine dell'Ottocento, alla stagione degli anni di piombo. Da qui, direi di entrare subito nel vivo, si possono subito presentare i due tronconi di cui parleremo.
Il primo troncone io lo definirei "politico-riflessivo" o, se si vuole, "politico-poetico". I brani migliori di questo repertorio, molto copioso specialmente in America Latina e da noi praticato da alcuni grandi intellettuali come Pietro Gori o cantautori come Fausto Amodei, sono: "Addio Lugano", "Per i morti di Reggio Emilia", "América novia mía", ripreas dal repertorio degli Inti-Illimani. Questo filone è caratterizzato da un diluimento del messaggio politico, che viene apparentemente stemperato dalla presenza di poesia o anche solo dalle cirocstanze di composizione. "Addio a Lugano", giusto per fare un esempio, è un canto di addio ad una terra che ha accolto il grido libertario degli anarchici, ed è politico solo per la rabbia di chi deve fuggire, ma non contiene riferimenti a situazioni concrete di effettiva lotta. Questo sottogruppo, musicalmente, si può caratterizzare per una ricerca di ricchezza sia melodica che armonica, testimoniata, ad esempio, dal difficilissimo giro d'accordi della citata "Per i morti di Reggio Emilia".
A fare da contraltare a questo repertorio, c'è quello che nel linguaggio della "Nueva canción chilena", viene chiamato di "Canciones contingentes", nate spesso verso la fine degli anni '60, con molta minor raffinatezza e con riferimenti concreti a circostanze storiche di lotta. Tra le italiane, per questo filone, che chiameremo "Politico-concreto" o "Politico-contingenziale", possiamo ricordare molto repertorio popolare di ogni provenienza, e alcune ballate di cantautori come "Il vestito di Rossini" o " "Borghesia" di Claudio Lolli. Questi brani, musicalmente, sono spesso caratterizzati da un maggiore povertà armonica e melodica, proprio perché sono canzoni da e "in piazza". Molto spesso quest'ultimo repertorio prevede anche l'esecuzione collettiva monodica o polivocale.
Oggi il canto politico, essendo appannaggio quasi esclusivo di intellettuali, viene trattato con molta superficialità o, peggio, viene digerito talmente dal "sistema" che vuole teoricamente abolire, che ne fa il gioco. Non è che non esistano i canti da piazza, ma sono eseguiti in contesti che non prevedono la fruizione concreta dei brani da parte di persone estranee ai collettivi compositori. Una delle conseguenze di ciò è stata la sparizione della distinzione fatta sopra. Si veda, ad esempio, l'ultimo capolavoro degli Zoè. Nel cd in questione, "Maledetti guai", troviamo i due brani di apertura che dovrebbero essere catalogati, per la durezza di alcune loro giuste affermazioni, nel filone "contingenziale". Gli stessi brani, però, spesso e volentieri, si perdono dietro ad incantevoli ma inutili ghirigori ed arzigogoli poetici. E' questo il caso del pezzettino di "Maledetti guai" che dice: "Ieri ho fatto un brutto sogno,
brutto sogno, brutte storie
per gli ospedali, l'informazione, pei precari e per le scuole". Un altro esempio, tratto dal brano "A mammata", potrebbe essere:
"E lui ci insegna tante cose,
a dire false verità.
Presta falso il giuramento,
la parola non mantiene mai.
Non mantiene la parola
data nelle trattative
e siccome è un gran stratega
non finisce sotto accusa".
Se si ripercorre la storia dei due filoni sopra descritti, si vede chiaramente che essi hanno avuto una evoluzione opposta e speculare, quindi metterli insieme è una forzatura intellettuale e, almeno secondo me, unire ciò che la storia ha fatto nascere separato è un affronto alla storia stessa.
Gli Zoè, invece, sono maestri nel canto "politico-poetico". Da antologia, sempre tratta da "Maledetti guai", è "Liknon", che, sotto la veste di un brano intimo, è uno dei canti più riusciti di "ponte" tra l'antica e dimenticata emigrazione italiana, e l'attuale flusso migratorio dall'estero. Qui, aiutata anche dalla melodia eterea che lei stessa ha composto, Cinzia emette un grido antirazzista, perché cosiccome noi stiamo stati delle anime perse ed abbiamo esportato "miniere di solitudini", ora le riceviamo.
Per il Salento, l'ho già detto in varie occasioni ma qui cade a fagiolo, esempio insuperabile di canti politici "contingenziali" sono i soliti Aramirè di "Mazzate pesanti", che d'altronde non hanno un centesimo della poesia di Cinzia.
Un altra visuale possibile del cozzo tra contingenza e poesia, può essere quella rappresentata da coloro che vogliono musicare in maniera raffinata brani che definirebbero "contingenti" o da piazza. Gli esempi più sonanti sono quelli de "I treni per Reggio Calabria" e il "Lamento per la morte di Pier Paolo Pasolini" scritti da Giovanna Marini. Forse è bene ricordare che il canto politico non nasce come "pezzo da museo" che, può divenire oggetto di reinterpretazione magari quest'ultima assai discutibilmente azzeccata e fine a se stessa. Il canto politico nasce dal cuore e solamente col cuore si produce. Esso non può essere strumentalizzato, per nessun fine. Così come non può essere venduto o accademicizzato per un pubblico di élite. Non si può, tra l'altro, andare in un canale nazionale come Rai Radiotre, e, dopo aver citato un intervallo di note particolare, rifiutarsi di spiegarlo perché tanto chi ascolta non avrebbe capito niente.
Oggi, in conclusione, si è arrivati al paradosso, che si è molto più politici quando non si fa politica.

domenica 17 gennaio 2010

Commento alla puntata del 17/01/10 di "Canzonenapoletana@rai.it"

Carissimi lettori, ecco il commento all'ultima puntata del ciclo dedicato da "Canzonenapoletana@rai.it" a Michele Galdieri.
Si inizia con un brano intitolato "Nustalgia", interpretato da Miranda Martino e caratterizzato dagli stilemi che connotano la musica melodica italiana all'inizio degli anni Sessanta. Il brano, infatti, è un terzinato, con le solite alternanze di strofe in minore e ritornelli in maggiore. E' uno dei tanti pezzi dove un innamorato supplica la propria amante di non lasciarlo, facendo così svanire la felicità del loro amore.
Torniamo, grazie ad un brano presentato al Festival di Napoli 1958, alle tipiche atmosfere centroamericane che abbiamo visto essere un tappeto musicale molto compatibile con lo stile di Galdieri.
Il testo, che viene messo su una melodia che non era mai stata cantata scritta da Barberis, che era stato già compagno di Galdieri per "Munasterio 'e Santa Chiara", è una dichiarazione d'amore, durante la quale, però, il protagonista insinua il sospetto che la sua innamorata stia semplicemente giocando con lui.
Ed eccoci ad un swing, facente parte di quel corpus di brani di ispirazione napoletana scritti da Galdieri in lingua italiana, intitolato "Quando si dice Napoli". E' un brano che ribadisce, con poesia tenera, gli stereotipi che connotano la città fuori Italia.
L'anno dopo Galdieri si presenta con un cha-cha-cha, condito però da melodie nascoste di mandolini, intitolato "'Sta miss 'nciucio". E' il ritratto di una pettegola, forse come nessuno mai lo ha fatto. La versione che ascoltiamo è di Maria Paris, interprete geniale per ogni brano che sia basato su giochi di parole o allitterazioni di suoni, che riescono quasi a volare aiutati da un timbro gentile.
Ed eccoci ad un bolero alla cubana, interpretato da Flora Gallo, voce più scura e romantica rispetto a quella della Paris. E' uno dei brani in cui un innamorato prega la propria donna di non lasciarlo mai.
Siamo nel 1960 e Michele Galdieri è chiamato a dirigere il Festival di Napoli. Fuori concorso, Giacomo Rondinella presenta questo testo, musicato da Pasquale Frustaci, intitolato "Ce steva 'na vota". E' uno dei brani, abbastanza numerosi in verità, d'omaggio alla storia della canzone napoletana. E' un brano all'antica, con una semplice ritmica a tarantella, che contiene anche un bellissimo intervallo di quarta aumentata.
Si conclude il ciclo su Michele Galdieri, con una tarantelluccia in lingua italiana intitolata "Venite a Napoli". E' interpretata, con bravura assoluta, da Franco Ricci. Anche questa, ancor più della precedente, ha una semplicità magica. Nel brano si parla dell'incanto che ha la città e, io direi, che non si può dare torto all'autore.
Spero che vi sia piaciuto questo ciclo, aspettiamoci il prossimo!

lunedì 11 gennaio 2010

Pillole deandreiane.

Carissimi lettori, anche oggi torno da voi, perché in un giorno come questo, undici anni fa, ci lasciava uno dei miei cantautori preferiti, il chitarrista, poeta, cantante e ricercatore di sonorità Fabrizio de Andrè.
Non voglio parlarvi della sua biografia, perché su questo c'è gente molto più competente di me. Mi limiterò, per quanto me lo lascerà fare la grande tristezza che mi avvolge dolcemente e tirannicamente in questa data, a raccontarvi un po' il mio de Andrè, le storie personali e quelle delle persone che hanno condiviso con me questa passione.
Fabrizio de Andrè, sin dalla fine degli anni '60, è colonna sonora della vita della nostra casa. Da allora tutti noi lo ascoltiamo e lo sentiamo come nostro.
Il primo album che io mi ricordo di aver comprato, già in formato cd, è stato "Le nuvole", che mi fece innamorare specialmente di quella sensibilità per il rinnovamento delle cose antiche, che tutt'ora ritengo la più grande virtù di De Andrè. Le mie preferite, per quello che mi ricordo, sono sempre state "Don Raffaè", che accompagnò la mia scoperta della canzone napoletana, e "A çimma", ballata romantica, enigmatica e sorniona in un fantastico dialetto genovese. Della prima, anche senza averne coscienza, ho sempre amato l'umiltà con cui gli strumenti moderni, specialmente la batteria, affrontano il ritmo, antico e difficile da rielaborare, della colta e raffinata tarantella napoletana. La voce di De Andrè, calda e profonda, riesce a dare al brano un colore esotico, una personalità del tutto propria, pur facendocelo sembrare un qualcosa di familiare. Adesso, dopo il mio lavoro di documentazione sul canto politico italiano, apprezzo ancora di più la non violenza con cui il cantautore denuncia uno dei più grandi problemi del nostro paese, la connivenza tra mafia e Stato.
Della seconda, di cui non ho mai capito completamente il testo, anche per mia personale volontà, ho sempre amato questo mistero in cui la avvolgono le caldissime note della fisarmonica.
Sei anni dopo, quando io già conoscevo quasi perfettamente la discografia deandreiana, è uscito "Anime salve", dove il cantautore, con il rispetto e la raffinatezza che lo contraddistinguevano, si era tuffato in alcuni ritmi sudamericani, che anche per lui erano stati fondamentali nel suo apprendimento musicale. Ho sempre amato, in questo cd, l'amore, che definirei segretamente passionale, con cui si parla degli esclusi. E' vero che mi si potrebbe ribattere che tutta la discografia del cantautore è impregnata di questo sentimento, ma credo che questo album sia il più completo, concreto ed accorato, anche grazie ai ritmi usati, ad esempio il tango in "Princesa". Fu lì che, tra le altre cose, io ebbi i miei primi contatti con una lingua che adesso fa parte tirannicamente della mia vita: il portoghese.
Tra gli album di De Andrè, l'unico a cui non sono molto legata, anzi direi che mi è quasi completamente estraneo, è "Creuza de mà". Non so spiegarmi il motivo di tale opinione, ma credo di poter dire senza sbagliarmi che viene dal fatto che mi è difficile digerire quasi tutte le forme della cosiddetta "World music".
Per quanto riguarda il mio rapporto personale con De Andrè, lo definirei timore reverenziale. De Andrè è il cantautore che canto con più difficoltà, forse perché ritengo inarrivabili le sue interpretazioni, oltre a trovare che cantate da donne le sue canzoni perdano.
Nonostante ciò, qualche volta ho superato il tabù, ed ho vissuto grandissime emozioni cantando brani come "Le passanti", uno dei suoi grandi omaggi allo chansonnier francese Brassens, o "Tre madri", canzone che io ritengo la più tenera e struggente di tutta la "Buona novella".
Spero di avervi fatto venire un po' di voglia di ascoltare il grande genovese, arrivederci a presto.

domenica 10 gennaio 2010

Ricky Gianco: Di santa ragione

Carissimi lettori, scusate l'invadenza ma devo parlarvi di un vero capolavoro, l'ultimo cd del cantautore Ricky Gianco intitolato "Di Santa ragione. E' un album che dimostra, se ce ne fosse bisogno, che la musica rock e pop, può anche essere spogliata dei suoi più abituali strumenti e rivissuta con la semplicità meravigliosa di un contrabbasso, una chitarra acustica, un pianoforte, una fisarmonica e delle percussioni etniche di varia provenienza.
La voce di Gianco, volutamente da lui "sporcata", è in verità stupendamente limpida.
Il cd, retrospettiva sulla migliore canzone d'autore italiana di questi ultimi cinquant'anni, si apre con uno degli inediti, la fortissima "Né sconti né saldi", giusta apertura di un album sicuramente fastidioso e scomodo. Infatti, come già dice il titolo, questo è un brano in cui Gianco ci dimostra che è tornato per rimanere con la voglia di lottare e farsi sentire.
Subito dopo arriva una ballata leggermente country, condita con venature avanguardistiche, intitolata "Un cucchiaino di zucchero nel té". Nel brano, scritto negli anni Sessanta ma spudoratamente attuale, si nota come le miserie di un popolo, qualsiasi esso sia, sono poi sempre le stesse.
Ed eccoci al primo omaggio ai grandi cantautori italiani, con una interpretazione, solamente contrabbasso e voce, di "Via Broletto 34", meraviglioso brano di Sergio Endrigo.
E dopo questa descrizione poetica di un tipico delitto d'onore, ci si torna ad occupare di una tematica che ultimamente è stata cantata da molti cantanti di generi musicali diversi, ossia il precariato. E' stato questo, tanto per confermare la "scomodità" di questo cd, il brano che ci ha fatto accorgere, a quei pochi che ascoltano certi canali satellitari, dell'esistenza di questo fantastico album. Non saprei come descriverlo, sembra una specie di chamamé argentino, con una fisarmonica molto in evidenza.
Ed ecco un altro omaggio ad uno dei troppi dimenticati della canzone italiana, il cantautore e poeta maledetto Piero Ciampi. Il brano scelto da Gianco è una "Io e te maria", risalente al periodo di piena maturità artistica del livornese, ossia all'inizio degli anni '70. Il brano è impregnato in questa versione di atmosfere argentine che non cozzano con l'originale, ma comunque lo portano verso atmosfere abbastanza nuove.
Ed ecco uno dei brani più stravolti, la bellissima "Pugni chiusi" che, perdendo i ritmi beat della versione originale dei Ribelli, si ammanta qui di atmosfere classico-jazzistiche, che le permettono di respirare un'intimità che forse, però, non rende giustizia alla passionalità tragica del testo.
Ed ecco uno spietato ritratto di ciò che è una città agli occhi di chiunque abbia un minimo di coscienza e non sia abbagliato da queste utopie di progresso facile che sono il pane quotidiano dei mass media, gli stessi che sicuramente non daranno spazio a questo cd. Il brano, dalle fortissime tinte country, si chiama "Povero Willie".
Ed ecco un altro brano politico, l'aggiornamento di un vecchio brano di Ricky Gianco intitolato "Antipatico". Se proprio devo descriverlo, lo definirei un brano giustamente impietoso con l'attuale politica.
Si ritorna all'intimità, con una rielaborazione, a dir poco da brivido, di "Quando", uno dei primi brani scritti da Luigi Tenco. La versione, basso e fisarmonica, fa acquistare un'anima franco-jazzistica ad un brano che già portava queste due componenti, solo nascoste da una parafernalia di archi.
Ed eccoci alla versione di "Geordie", eseguita da Ricky Gianco senza la voce femminile. Se vogliamo fare un confronto con una versione di Fabrizio de Andrè, si deve pensare quella live incisa dal cantautore con sua figlia poco prima di morire. Questa versione ha la stessa magica intimità , lo stesso bellissimo calore.
Ed ecco una versione rarefatta di un brano beat anni '60, lanciato dall'Equipe 84, gruppo nella cui genesi è coinvolto anche Francesco Guccini. Sia melodicamente che armonicamente, "Nel ristorante di Alice" è interpretata filologicamente, ma la scansione ritmica più lenta la fa diventare qualcosa di profondamente diverso dall'originale. Il canto si rarefà, acquista delle pause segrete, entra nella magia di cui è impregnato tutto l'album.
Ed ecco una versione intima, solo chitarra e voce, del capolavoro di Gino Paoli "Sassi". Forse, ad un orecchio poco abituato alla semplicità, che oggi non è più all'ordine del giorno, questa versione potrebbe suonare ripetitiva, perché non aiutata dall'orchestra. Secondo me, invece, questa situazione dà al brano un'anima di lamento d'amore popolare, facendolo parlare con alcune delle sue fonti più segrete.
Ed eccoci ad un altro capolavoro "Il vento dell'est", lanciato da Gian Pieretti nel 1966. In questo cd sono contenute due versioni del brano. La prima è caratterizzata da venature blues, forse un po' troppo forti, che non permettono di notare la serenità con cui il protagonista parla della morte della propria amata.
Ancora più "effettata", se possibile, è questa versione "cibernetica" sempre dello stesso brano. Sembra di sentire la musica di un altro tempo, in cui probabilmente l'umanità non esisterà più. Terribile!
Nonostante questa stroncatura senza appello dell'ultimo brano nelle sue due versioni, è un album da sentire e far sentire a chi ha ancora gli occhi chiusi.

Commento alla puntata del 10/01/10 di "Canzonenapoletana@rai.it

Carissimi lettori, eccoci all'appuntamento, ormai per me abituale, con la canzone napoletana e con la terza puntata del ciclo di "Canzonenapoletana@rai.it" dedicato a Michele Galdieri.
Si riprende dal punto in cui ci si era fermati domenica scorsa, cioè dall'lp che Ebe de Paolis, grande soprano dell'epoca, ha dedicato al poeta. Il brano, intitolato "Se parla male 'e Napule", è un affondo pacato ed ironico ma comunque forte, contro questa tendenza, che quindi c'era già allora, a dire che i problemi come gli scippi sono più comuni a Napoli, o più in generale al Sud del paese, mentre spesso sono nazionali se non globali. Musicalmente parlando è un valzerino lento, di quelli che forse costituiscono il tessuto musicale ideale per iversi sornioni e raffinati di Galdieri.
Ed eccoci a Teddy Reno, grande cantante triestino che però, con massima fedeltà, riusciva a cantare benissimo in lingua napoletana. Il brano che interpreta è uno di quelli caratterizzati dalle atmosfere latine che, al contrario di ciò che succede oggi, all'epoca venivano usate coscientemente ed in maniera filologicamente corretta, perché erano particolarmente congeniali alle voci tenorili o baritonali dell'epoca. Il brano, intitolato "Ammore mio perdoname" è una canzone dove un innamorato ritorna pentito dalla propria amata.
Ed ecco un vero e proprio pezzo di storia, un'esecuzione inedita da parte di Franco Ricci, grandissimo tenore di cui qui si è già spesso parlato, di "Ddoje lacreme", presentata al secondo festival della canzone napoletana.
Il brano, che parla di un allontanamento di due innamorati forse per emigrazione, in questa versione acquista una teatralità che fa veramente restare l'ascoltatore con un nodo in gola, facendo capire anche a chi non sa il napoletano che la storia finisce male perché chi doveva tornare non torna.
E' del 1955 questa bellissima "'E stelle 'e Napule" che permise di vincere a Michele Galdieri, anche grazie alle notevoli interpretazioni di Carla boni e Gino Latilla e Maria Paris, la terza edizione del Festival di Napoli. Il brano ha una fortissima struttura "aflamencada", ed è uno dei tanti di lode appassionata alla città. Da ricordare, oltre a questa versione originale di Maria Paris, sono quelle di Roberto Murolo, chitarra e voce e contenuta nella sua "Napoletana. Antologia cronologica della canzone partenopea", e quella di Claudio Villa, di grandiosa perfezione e dolcezza tenorile.
Ed eccoci di nuovo alle atmosfere latine, che questa volta servono da tappeto per le lamentele di un uomo che non si sente amato da una donna che si interessa solo delle vetrine luccicanti dei negozi. Il brano, intitolato "Nun si nata pe' ffà ammore", è interpretato da Achille Togliani, uno dei tanti cantanti non napoletani che hanno trovato spazio nell'infinito repertorio partenopeo.
Sempre avvolta da queste meravigliose atmosfere latine, interpretata divinamente da Nunzio Gallo, uno dei tanti tenori che negli anni Cinquanta rinunciò ad una promettente carriera lirica per dedicarsi alla canzone napoletana, arriva questa "Sul'isso t'o po' ddì". E' un brano dove un uomo, che non si sente ricambiato del proprio amore, si lamenta della situazione. Soprattutto per la parte iniziale del testo, dove si enumera ciò a cui si è rinunciato in nome dell'amore, il brano ricorda "Desiderio", un brano scritto pochi anni prima da Arturo Trusiano.
Ed eccoci alla conclusione del nostro viaggio, che finisce sulle note di "Comme all'ellera", brano interpretato da quella che fu la regina incontrastata della musica melodica italiana durante tutti gli anni Cinquanta, la bolognese Nilla Pizzi. Il brano, l'accostamento è inevitabile, ricorda la ben più conosciuta "L'edera" con cui la cantante si piazzerà al secondo posto, dietro il rivoluzionario "Volare", grido di libertà di Modugno, nel Sanremo 1958.
Il brano, dal punto di vista musicale, è caratterizzato da una forte ricchezza melodica, innestata su una segreta radice swing.
Spero che ormai abbiate preso l'abitudine di leggere questi resoconti napoletani, ma soprattutto mi auguro che qualche volta andiate ad arricchirvi a queste purissime sorgenti di musica.

sabato 9 gennaio 2010

Nova pizzica allu capu

Carissimi lettori, torno già da voi con un altro testo in lingua salentina, questa volta politico.
Mi è venuto in mente a partire da un mio vecchio testo, sempre dedicato allo stesso destinatario, che fu il mio primo esperimento, brutto in verità, di composizione di pizzica. Il testo è duro, sincero, figlio degli Aramirè di "Mazzate pesanti", che diventano il mio insostituibile modello quando si tratta di testi politici in lingua leccese.
Nova pizzica a lu capu.
E mo gran capu tribù tie me l'hai dire
ce razza de cuscienza s'have tinire
Cu se tratta quiddu ca è de tutti
comu ci propriu bera,
senza chiù né vergogna né pudore.
E lu sacciu ca tie poti rispunni
ca nu sinti lu primu cu cunfunni.
E cunfunni st'acque tempestose,
e fai direttamente
cu le cose de tutti le to' cose.
E nc'ete tanta gente ca a tantu tiempu
de stizza sta ca more
e nu pote cchiui ca t'apre lu so core.
E tie indifferente sta la 'nganni
percé tantu lu sai
ca le cose le scorda in poch'anni.
E cusì cinqu'anni rreta mo paria,
ca puramente de tie
la gente scerrare se nde ulia.
Ma po' c'hanno bastatu le promesse
e po' 'ntorna le cose
su le stesse.
E n'ha bastatu ca tie li 'mpruminti
ca le tasse no cchiui
sulu diritti.
Cusì hai pututu sciocartela 'ntorna
e la partita tie
l'hai ingiustamente vinta daccapu.
E quannu si 'nchianatu subbra alla seggia
t'hai pensatu ca
putivi cu facivi carità.
Ma t'hai vistu ca 'nc'erane le leggi
e tuttu voi cu scasci a tuo favore.
E nun hai fattu nienti allu paese
percé sulu pe tie teni partitu.
Senza cuscienza alcuna guvernannu,
t'aspettavi 'na tragedia
ca facia lu sciocu tou intra allu munnu.
E sta tragedia tie l'hai truvata
e fu nu terremotu
fu lu terremotu de l'Abbruzzesi.
E tie a quidda gente cu la cunquisti
si sciutu fai teatru
cu nu panarieddu de promesse.
E quidde chiu 'mpurtanti l'hai mantenute
puru ci t'hai scurdatu
de li sprechi 'ndecenti all'autra banda.
Percé tie comu teatrante d'arte
poi cu sposti la scena
ci a tie sulamente te 'nteressa.
Po' hai tinutu sacchi de prublemi,
e c'hai 'ddimannatu
alle leggi cu sta vannu luntani.
E cusì mo' tie te scordi lu territoriu
addunca sta governi, ca nun ete affare de regioni.
Ete lu Statu ci tene potere
ca s'have a 'mpuntare su li problemi a forza nazionale.
E tie 'nvece sta pienzi alla giustizia,
cu pe' Costituzione passa na legge apposta pe' tie fatta.
O pienzi dopo ca t'hannu aggreditu
a dire ca nui simu antiitaliani.
Se ci te dice: "Decenza!" nun è italianu
'mbè mancu ieu stabbegnu de ddu paese.
Spiccia cu sciochi e lavora,
ca stu paese tene troppe emergenze.
E nienzi facisti cu li precari
e mancu cu la gente ca allu lavoru more.
E nu facisti nienzi alla scola,
semmai tie voi cu spicci cu la ruvini.
E voi cu te damu cchiu poteri,
percé lu parlamentu è varietà.
E tie nu teni mancu na paura,
mancu se sta te critica
puru la gente de lu tou partitu.
E mo' te lassu caru Berlusconi,
ma voju cu te dicu abbi pacienzia!
sulu

mercoledì 6 gennaio 2010

Parlata cu lu ientu

Carissimi lettori, è da diverso tempo che non pubblico un mio "sfogo" in dialetto salentino.
E' arrivato il momento di farvi leggere questo testo, da qualcuno definito visionario, ispiratomi da un pezzettino di "Pizzicannella", uno dei brani dell'ultimo cd degli Zoè che, come saprete se seguite il mio blog, mi è piaciuto moltissimo.
Mi sono immaginata di poter parlare con il vento, dicendogli con molta sincerità che sta soffiando in una direzione che mi piace poco. Non è una poesia politica, come ne ho fatte altre, c'è molta più poesia che altro, e la politica è più propriamente riguardante il comportamento generale dell'umanità. E' qui anche che si può trovare l'influenza di Cinzia Marzo e delle sue poesie.
- "Ohi ientu ienticeddu addù sta vvai
ca ieu lu cantu tou
ca ieu lu cantu tou nu sentu cchiui?"
- "De mie la gente moi s'have scurdatu
e nu vole cu me sente
e allora mancu ieu mo cantu cchiui."
- "Ma tie nu ssai lu male ca me faci
senza lu rusciu tou
ieu triste stau."
- "E lu sacciu ca tie me voi bene
ma l'autri ce hannu dire
ci ieu sta cantu!"
- "A l'autri poti puru fare paura
percé iddi nu ojunu
cu suntu libberi!
Pe' mmie la libertà ete respiru
e ieu senza de IDDA chiui nu vivu."
- "Vui siti fiji e padri de paura
e forse puru ieu mo' su cangiatu..."
- "Ma danne a nui ancora sta speranza,
ca la radice tua fa cu nasciamu:
E nui nasciamu antorna semplici e onesti
e nu durmimu cchiui
e quiddu ca nui simu lu dicimu..."
- "Se dice ca lu tiempu è galantomu
e ieu t'auguru ca
stu tiempu tantu triste prestu spiccia.
Forse su propriu ieu ch'aggiu 'ncignare
cu cantu chiaru e forte come aieri".

domenica 3 gennaio 2010

Commento alla puntata del 03/01/10 di "Canzonenapoletana@rai.it"

Carissimi lettori, nell'augurarvi un felice anno nuovo, vi dedico il commento alla seconda puntata del ciclo di "Canzonenapoletana@rai.it", dedicato a Michele Galdieri.
Si inizia con un brano del 1947, interpretato da Franco Ricci ed intitolato "Mia". E' un brano in minore, con la tipica struttura di habanera che accompagna spesso le canzoni drammatiche o romantiche napoletane.
Non è una canzone triste, ma la felicità dell'amore viene espressa in maniera drammatica e quasi teatrale, quindi la voce di Franco Ricci, grandissimo tenore di potenza che è approdato alla canzone napoletana dopo aver lasciato una brillante carriera nella lirica, dà il meglio di sé.
E' una delle più belle canzoni che abbia mai sentito, ma non si conosce.
E si torna alle canzoni in italiano dedicate a Napoli, questa "Napoli è bella pure quando piove", cviene presentata da Carlo Buti, che già abbiamo trovato come interprete quasi insostituibile del Galdieri in lingua italiana.
Il brano è un inconfondibile tre quarti, con le pause in mezzo che fanno tanto antico e canzone d'inizio secolo.
Ed ecco una specie di canzone drammatico-macchiettistica, interpretata dal migliore interprete possibile, quel grande cantantee attore che fu Nino Taranto.
Non riesco, purtroppo, ma solo per ignoranza personale, a descrivervi il ritmo, che comunque ha degli accenni di tango. Il testo è un curioso esempio di brano pieno di rabbia nei confronti di una innamorata che si rifiuta di amare seriamente il cantore, il quale, però, poi alla fine si pente.
Ora stiamo ascoltando, da un settantotto giri ridotto più che alla frutta, "Palummella", un swing in minore ed in italiano, dove si prega la colomba di andare a portare il messaggio d'amore alla propria innamorata. Nonostante l'italianità del testo, direi che questo è uno dei brani più sinceri d'amore al dialetto, di cui si riconoscono i pregi espressivi. L'interprete è Paolo Sardisco, che io non conoscevo, di cui però non posso dirvi niente.
Si arriva al 1951, anno in cui, ad esempio, Antonio de Curtis scrisse "Malafemmena". E' di quest'anno la canzone "'E Pariente", dove si ribadisce la necessità di fare una vita autonoma dalla donna, nonostante la si ami. E' una macchietta a livello di struttura ed anche a livello di leggerezza.
Ora, invece, stiamo ascoltando uno di quei brani drammatici che permettevano forse a Galdieri di dare il meglio di sé. Il brano si intitola "Scirocco" ed è interpretato da un giovanissimo, ma già vocalmente maturo, Mario Abbate. Interessanti, perché già lontani nel tempo, sono igradi alterati della scala di re minore, la cui presenza dimostra che si possono usare ritmi moderni o di scoperta moderna, e farli odorare di antico.
A tempo di habanera, arriva questa "Quando Napoli cantava", interpretata da quello che per molti è stato il miglior cantante degli anni '40, grande sia nel swing di "Ba, ba baciami piccina", che nella melodia di "Tu musica divina". Mi riferisco ad Alberto Rabagliati, tenore veramente divino, che rimpiange, tramite le parole di Galdieri, una Napoli che forse nessuno ha mai vissuto.
Si torna alla soprano Ebe de Paolis, che ci interpreta "Mare scuro aMarechiaro", parodia, resa evidente anche dall'uguale incipit musicale, della celeberrima canzone di Di Giacomo "Marechiaro". Forse è ingiusto definirla una parodia, ma non trovo altre parole. E' la storia di un amore che finisce a Marechiaro, e, ovviamente, la storia d'amore viene paragonata ad una barca, ormai irrecuperabile.
Spero che vi sia piaciuto questo articolo, e buon anno ancora.