domenica 27 giugno 2010

Qualche parola sul concerto degli Zoè.

Carissimi lettori, vi avevo annunciato che ieri sera ci sarebbe stato un concerto degli Zoè dalle mie parti. Ovviamente io ci sono andata ed eccone il resoconto, dove finalmente si rispetterà l'ordine rigoroso delle canzoni.
Si è iniziato a suonare abbastanza tardi, il pubblico non era numeroso come la bravura del gruppo avrebbe meritato, ma erano giustificati dal tempo inclemente che ha fatto abbattere su Perugia e dintorni un temporale violentissimo. Nonostante questo si è suonato sotto una bellissima luna piena, e vi giuro che gli Zoè hanno dato il meglio di loro.
Il primo brano eseguito è stato un "Santu Paulu" in sol con voce solistica di Lamberto Probo. È stata una pizzica davvero emozionante, forte e festosa come solo in pochissimi oggi la riescono a suonare (fare festa non significa fare macello!). Le voci si muovevano con un canto "abbandonato", anche se in questo particolare frangente c'era molto contatto con la terra, cosa che, come si è già avuta occasione di dire in vari articoli dedicati agli ultimi Zoè, il gruppo forse stava un po' perdendo. Meravigliose, qui e durante tutto il concerto, le acrobazie di Giorgio Doveri soprattutto con il violino, di cui il musicista sa sfruttare al meglio le risorse, prime fra tutte tremuli e vibrati.
Subito dopo Cinzia Marzo e Rachele Andrioli, grandi voci femminili del gruppo e tra le più belle nel Salento, ci hanno fatto ascoltare un brano a cappella intitolato "La lettera ca me desti".
Il brano non era da me conosciuto quindi mi ha intrigato moltissimo. Era cantato in quel misto di dialetto ed italiano che caratterizza molto repertorio polifonico salentino, e musicalmente era basato su una scala di sibemolle arricchita da un interessantissimo "mi" naturale che costituiva un intervallo di "quarta aumentata". Il testo era un canto di sdegno, ma per niente caratterizzato da ironia.
Dato che c'erano state complicanze con la chitarra, subito dopo si è eseguita una "Filia", che Lamberto ha brillantemente e lungamente presentato, contestualizzando questa stupenda pizzica nella storia dell'"Officina", e raccontando come essa sia stata dedicata a Carlo Giuliani, una delle persone che hanno provato sulla propria pelle la violenza spesso gratuita di questo cosiddetto "Stato democratico".
C'è stato spazio ovviamente anche per la "pizzica tarantata", bellissima ed insuperabile, dove il violino brilla come nessuno. La parte percussiva era equilibratissima, data la convivenza delle nacchere e dei tamburelli, che rappresentavano da una parte la dolcezza insita in questo ritmo, dall'altra la sua conclamata e spesso esagerata ossessività.
Proseguendo ci è stata data la possibilità di ascoltare una curiosissima versione a valzer veloce, simile a quella strumentale presente nel cd in duo di Donatello Pisanello e Giorgio Doveri intitolato "Melodie salentine", di "Nia, nia, nia". Devo dire che, come avevo già confessato in occasione della mia recensione al "live in Japan", qui io tradisco quelli che sarebbero i miei gusti naturali. Trovo insostituibile il trio di corda, plettro ed arco che esegue questo brano su "Terra", mentre l'organetto e la velocizzazione del "tempo" gli dànno una allegria che forse non gli si confà (sono solo opinioni personali). Comunque era molto bella, ed il canto di Cinzia Marzo e Rachele Andrioli sapeva rendere come pochi la grande dolcezza insita nel testo.
Continuando si è avuta la prima canzone d'autore mai apparsa in un cd dell'"Officina Zoè", quella molto amata e forse sopravvalutata "Don Pizzica". Come si sa io ci sono legata da storie personali che ho più e più volte condiviso con voi, quindi l'ho comunque accolta con un grido di giubilo. Come in tutti i brani del primo periodo ("Terra" e "Sangue vivo") il canto di Cinzia prendeva un profondo contatto con la terra, era effettivamente secco e forte, senza gorgheggi né ghirigori sulle vocali. Questa volta però Rachele rispondeva con l'atteggiamento opposto, soprattutto quando entrava con la sua parte da solista "Intra stu munnu...". Molto caratteristico degli interventi di Rachele in questo brano è il giocare con l'espressione "ete quistu ca me face nnammurare", che viene sminuzzata, troncata e ristrutturata in svariati modi tramite abbellimenti e pause d'effetto variabile.
Di seguito si fa il primo dei quattro riferimenti all'ultimo cd degli Zoè, che come saprete da queste parti è considerato un capolavoro, con un bellissimo brano strumentale dedicato a quel popolo "che molti denigrano", ossia i Rom. È un brano di cui si è ampiamente parlato in sede di recensione di "Maledetti guai", qui converrà dire che se ne è potuta assaporare la dolcezza quasi mistica che dà un colore speciale al ritmo. Il brano è stato eseguito a velocità normale, peccato che il violino, almeno secondo me, non abbia saputo dare la giusta enfasi a quella breve parte tra sol e re minore dove è solista solo appoggiato dai bassi dell'organetto (non ha pianto abbastanza!).
Tornando a "Sangue vivo" si è potuta poi godere una strepitosa versione di "Ijentu", anche se anche qui tradisco i miei gusti naturali, perché sono stata sempre un po' contraria all'inclusione del "Cupacupa" nell'organico di questa canzone. Entrando tecnicamente nella struttura del brano, le voci hanno giocato moltissimo, trovando un equilibrio quasi meraviglioso tra la telluricità, che qui forse è stata un po' troppo smorzata anche se era sempre presente, e l'interiorità a cui questo brano inevitabilmente porta la sua interprete principale ed autrice, Cinzia Marzo. Impagabili inoltre gli assoli di armonica a bocca di Luigi Panico, che hanno permesso alle voci di "tarantarsi", tornando in alcuni momenti alla forza insuperabile dell'esibizione di Melpignano (peccato che nessuno l'abbia pubblicata in maniera decente su Youtube!).
Subito dopo si è tornato a cantare in griko, con il classico indiscusso di quella tradizione, "Kali nifta", scritta ormai moltissimi anni fa da Vito Domenico Palumbo. La versione dell'"Officina" ha una caratteristica che io le ho sempre spudoratamente invidiato: riesce a connettere in maniera veramente notevole la crescente velocità del ritmo, quindi la festa, con l'espressività del canto (non è facile, il novanta per cento delle versioni di riproposta lo provano!). Forse l'espressività è stata un po' diminuita dall'esagerato salto di velocità operato tra la prima e la seconda strofa, in questo è insuperabile la versione di "Crita" (Polosud, 2004).
Sempre dal repertorio di testi lasciatici dal grande studioso di Calimera morto nel 1918, l'"Officina" ci ha poi offerto una "Pizzica mistica", brano di cui si è già accennato in sede di recensione di "Maledetti guai". In questo caso forse è conveniente approfondire la questione, raccontando un po' meglio la struttura del brano. Esso parte con una lunga introduzione strumentale, che viene eseguita con un tempo di terzina talmente lento che potrebbe ricordare un valzer. Il canto di Cinzia, quasi dolce e sospirato, d'altronde del tutto simile al suo parlato, si inizia a stagliare dopo che la tammorra muta abbia iniziato ad accompagnare questo ritmo con delle varianti che obbligano alla sua velocizzazione. La cosa curiosissima di questa particolare versione è stato il virtuosismo vocale con il quale Cinzia ha concluso il suo canto, facendo seguire al "la" centrale che conclude la frase, una scala di un'ottava e mezzo che è arrivata fino ad un "mi" sopranile falsettato. Dopodiché si è passati alla parte strumentale, quella che io non riesco assolutamente a digerire, per la sua notevole dodecafonia.
Sempre in griko e tratta da "Maledetti guai", si è poi avuta "Moira", che le voci di Cinzia Marzo e Rachele Andrioli hanno eseguito a cappella. Cinzia cantava nel suo inconfondibile colore limpido e dolce, quasi da cantante lirica, mentre Rachele rispondeva controcantando con la sua "potenza rispettosa". Va riconosciuto a questo brano di aver saputo plasmare come pochi una possibile strada per la sopravvivenza e per la rinascita o ricontestualizzazione del canto funebre griko, non più come "moroloja", spesso gridato, ma come qualcosa di più posato ma non per questo meno sofferto.
Dopo questa parentesi "mistica", si è tornati prepotentemente con i piedi per terra, e si è cantata quella meravigliosa serenata sdegnosa al nostro "grande capo" (chi mi conosce sa già di quale parlo...) intitolata "A mammata". Si è sentito il testo effettivo del brano, ossia quello presente nel cd "Maledetti guai", senza sconti e senza tralasciare quello che per me è un esplicito riferimento al dialetto romano, con l'espressione "lui ci vuole morto bene". Per quanto riguarda le parti a vocalizzi, che come avrete capito sono tra le caratteristiche che mi fanno apprezzare comunque questo brano, purtroppo non posso dire niente perché non le ho sentite.
Continuando con i "Maledetti guai" si è poi arrivati ad una perfetta versione di "Cu li suspiri". L'"Officina" non si è lasciata prendere troppo la mano e non l'ha velocizzata esageratamente, particolare che ha permesso al brano di conservare intatto il suo insuperabile romanticismo. Le nacchere di Cinzia sono entrate in corrispondenza dell'inizio della seconda metà del brano, equilibrando anche qui l'ossessività dei tamburelli con la loro innegabile dolcezza. Prima della fine si è avuto quel momento di gioco spensierato che fa sì che questo brano non sia completamente avvicinabile alla tradizione, provocando quindi una certa sensazione di esagerato in un ascolto di "Maledetti guai" che non sia condizionato da esperienze personali particolarmente forti (quindi non al mio).
Dopo nostre scalpitanti richieste di bis, perché nonostante fossimo pochi di festa ne facevamo quanta più volevate, Danilo Andrioli ci ha fatto sentire un canto di trainieri che ormai da quattro anni fa compagnia all'"Officina". È un canto ripreso paro dalla raccolta di Maurizio Agamennone "Musiche tradizionali del Salento. Le registrazioni di Diego Carpitella ed Ernesto de Martino" (Ed. Squilibri, 2008, Roma). La voce principale qui non canta ma emette delle note calanti e "sporche" a voce piena. Le voci femminili rispondono altrettanto quando entrano nel ritornello, che forse fa riferimento al tarantismo (sono solo supposizioni!).
Subito dopo si è avuto il piacere di ascoltare "Lu rusciu de lu mare" in versione integrale, ossia con le tre parti che troviamo nell'insuperabile versione di "Terra" (1997). Nella terza parte, che l'"Officina" non eseguiva da svariati anni, si è avuto un interessante arricchimento da parte della chitarra che ha fatto diventare questo ritmo mediterraneo veramente perfetto. Il canto era molto secco e tradizionale, segno che l'"Officina" si sta riavvicinando alla tradizione come spirito interpretativo, senza mai essersene distaccata come filosofia.
Il concerto si è chiuso nella miglior maniera possibile, con quella che secondo la sottoscritta è la più bella canzone degli Zoè e una delle canzoni salentine più belle in assoluto, la pizzica lenta e profonda "Menevò". La versione che l'"Officina" ne ha proposto ieri sera ha saputo conciliare un certo aumento di ritmo (purtroppo inevitabile!) con una grandiosa espressività e simbolicità. Bellissimo il dialogo tra i doppi flauti calabresi suonati da Cinzia e la mandola di Giorgio, che veramente permettevano a chiunque di vivere il dolore di questo brano.
Spero di avervi dato qualcosa di ciò che vi siete persi, ovviamente il consiglio resta quello di andarvi a vedere l'"Officina" se passa dalle vostre parti.

martedì 22 giugno 2010

Riflessioni a caldo sull'attarantamento di Umbria jazz.

Carissimi lettori, oggi la pizzica è dappertutto, perfino ad Umbria jazz.
Nel programma di Umbria jazz 2010, dicasi uno dei più famosi festival di jazz a livello mondiale, si può reperire la bellissima presenza di uno dei più grandi contaminatori e "concertatori" della pizzica il laziale allievo prediletto di Carpitella Ambrogino "nazionale" Sparagna.
Io dico spesso che i nomi hanno importanza, e qui mi pare che il nome storico di Umbria Jazz è sempre più usato per definire qualcosa di molto diverso da quello che questo festival dovrebbe essere, un percorso tra le varie facce del jazz italiano e straniero.
Sinceramente mi sembra che Ambrogio Sparagna potrebbe andare ad un festival di musica pop, a Sanremo ci stava benissimo, ma ad un festival di jazz non mi pare il caso.
Qualcuno forse dirà che io dovrei essere contenta, perché moltissimi scoprono la pizzica tramite lui.
Io rispondo che a me non interessa la quantità di gente che ama un genere musicale, ma come questo viene amato. Trovo davvero difficile che qualcuno che scopre la musica popolare salentina con Sparagna, poi sia anche solo aperto alla possibilità di sentirla dalle voci di Officina Zoè, Alla Bua (vecchia maniera), Agorà, Aramirè, Canzoniere di terra d'Otranto ed altri.
Sinceramente se volete un consiglio: perugini, sparagnatevi Sparagna, così risparmiate un pochino del vostro tempo libero e lo dedicate a cose migliori.

domenica 13 giugno 2010

Auguri "Guccio!"

Carissimi lettori, è raro che io scriva due articoli in un giorno, ma mi va di fare gli auguri tramite questo blog a Francesco Guccini che domani compie settant'anni.
Attraverso questo articolo non ripercorrerò la sua biografia, che d'altronde è ampiamente disponibile anche in alcuni bellissimi e caldissimi libri come "Un altro giorno è andato" di Massimo Cotto (non mi ricordo l'editore, mea culpa!). Mi limiterò a mettere insieme un collage di sensazioni dedicate al "guccinastro", soprannome personale di Guccini.
Non so dirvi come avvenne la mia scoperta di Guccini, perché credo di averlo sempre sentito nella mia famiglia. I primi ricordi sono legati a dei pomeriggi passati a casa di mio zio Claudio ad ascoltare, da due vecchi vinili, "Radici" (1972) e "Via Paolo Fabbri 43" (1976). Mi ricordo anche di bellissime suonate in duo di repertorio vario, lui alla chitarra ed io al pianoforte, che comprendevano spesso e volentieri qualche pezzo del nostro, soprattutto "Via Paolo Fabbri 43", brano per il quale mio zio nutre una passione fortissima.
Il mio primo ricordo personale legato a Guccini è l'acquisto di "Quello che non" (1990). Una leggenda metropolitana diffusa nella mia famiglia, narra che io, sul bancone di un negozio non esattamente noto per la vendita di cd che allora vendeva anche questo prodotto, chiesi questo disco ad una commessa sconvolta. L'album è tutt'ora tra i miei preferiti, insieme ad un altro che ha cullato la mia infanzia arrivatomi da Venezia. Mi riferisco a "Fra la Via Emilia e il West", primo disco che mi ricordi di aver posseduto in una copia di proprietà esclusivamente personale, estratta da un vinile abbastanza ben conservato ma leggermente rovinato sull'inizio, purtroppo sulla frase "siete un bel casino!", pronunciata da Guccini dopo l'immancabile "Canzone per un'amica".
Quando ero piccola avevo molto buoni rapporti con una signora che era madre di una compagna di scuola di una mia sorella, la quale era convinta che i cantautori avessero fatto cose belle fino alla fine degli anni Settanta, quindi mi regalava solo dischi di quel periodo (spero che ora si sia ricreduta, non lasciando gli anni Novanta fuori dalla sua vita...). Fu lei a regalarmi quello che io considero il più geniale lp di Guccini, il suo primo disco pubblicato, quel "Folk beat n. 1" del 1967. Ciò che mi fa trovare geniale questo disco è la sua irresistibile spontaneità, la sua ingenuità dilettantesca. Adoro tutt'ora due brani di quel disco, che ora possiedo in cd ma che all'epoca avevo in una bellissima cassettina originale: "Il sociale e l'antisociale" e "il 3 dicembre del '39". Mi piace molto lo stile chitarristico di Guccini, che non essendo il finger piking americano allo stato puro praticato allora da moltissimi cantautori di varia notorietà e spessore, è un interessantissimo e personale compromesso tra la tradizione dei canti di montagna tosco-emiliani e varie influenze nord-americane, che sono state sempre la bussola della musica del "Guccio". Adoro anche il timbro del giovane Guccini, ancora non diventato da basso, anzi ancora caratterizzato da una tenorilità perfetta.
L'album che mi è più indifferente di Guccini, se ne è ampiamente parlato durante il commento al Concerto del 26 febbraio, è "Stanze di vita quotidiana". La copia che possiedo, in cassetta originale, mi fu data da un amico, ma non posso essergli grata, me ne dispiaccio.
Sono invece gratissima ad un altro amico, amante di cantautori e possessore di alcune vecchissime incisioni che spesso ora conservo io nella mia nastroteca, che mi fece dono di quel gioiello di goliardia e sagacia che è "Opera buffa", album precedente del "Guccio", forse mai troppo ben capito anche perché il cantante stesso tende a snobbarlo (peccato mortale!).
Ritengo che Guccini abbia trovato uno stile molto migliore da quando ha incontrato Juan Carlos "flaco" Biondini, suo chitarrista di fiducia da trent'anni almeno. Credo che l'America Latina ha equilibrato le spinte esageratamente progressive che stavano rischiando di rendere Guccini un cantautore legato ad una musica emarginata ed emarginante, la stessa che non ha permesso ad un altro grande genio della canzone italiana, il bolognese Claudio Lolli, di emergere come si sarebbe meritato. Va anche detto oltretutto che io sono un po' scettica con i lupi solitari in campo artistico, quelli che fanno questo mestiere per una nicchia sparuta, facendo sì che il loro repertorio non sia apprezzato (fortuna Guccini non è tra questi!).
Nonostante la critica fatta a Lolli, anche lui gode di una stima incondizionata da parte mia. Tra i brani del suo repertorio ce n'è uno chiamato "keaton", che i due artisti condividono. La versione di Guccini è più godibile, anche perché più acustica, ed è contenuta nel cd "Signora Bovary" del 1987. Claudio Lolli la ha poi fatta propria nel cd "Viaggio in Italia" (1998", con un arrangiamento che su di me ha un effetto abbastanza estraneante.
Spero che abbiate gradito questo distillato di sensazioni gucciniane, ancora aguri grande maestro!

Commentoalla puntata del 13/06/10 di canzonenapoletana@rai.it.

Carissimi lettori, finalmente si torna a parlare di canzone napoletana in questo blog, con la terza puntata di "canzonenapoletana@rai.it" dedicata a Francesco Fiore (la seconda l'abbiamo saltata probabilmente per colpa mia!).
Si inizia con una canzone intitolata "Chi tene mamma", che ascoltiamo da un cantante particolarmente famoso in America chiamato Gennaro Cardenia. Il brano è uno di quelli mezzi in minore e mezzi in maggiore, dalla struttura "di giacca". E' il monologo di un innamorato arrabbiato con un'innamorata che lo ha lasciato, che si consola pensando a sua madre. E' bellissima e tragica.
Si arriva ad una delle canzoni più famose di Francesco Fiore, intitolata "Nun è Carmela mia". E' interpretata da Tito Schipa, l'usignolo di Lecce, che qui veramente dà il suo massimo, senza mai sfoderare quei colori popolareschi che in ambiente operistico non sono secondo me particolarmente belli. Il brano è un monologo di un innamorato che ritrova la propria amata ma non la riconosce quindi la rifiuta, bella.
Siamo con uno dei musicisti più prolifici della scena napoletana d'inizio secolo: Oscar Cattedra. La musica di questa "Nun sia maje" è caratterizzata da una precisa alternanza di strofe in un "modo minore" arricchito e di un ritornello in un "modo maggiore" altrettanto meticciato con tocchi minori. L'interpretazione che ascoltiamo è quella di Raffaele Balsamo, che riesce veramente a dare l'intensità giusta a questa serenata bella e paradossale.
Continuando si ascolta questa bellissima "Tu si spusata", che si gusta nell'interpretazione di Ciro Formisano, un tenore potente ma aggraziatissimo. Il brano ha la musica di Nicola Valente, ed è la storia di un innamorato che consiglia alla propria ex amata, che lui ancora ama profondamente, di ignorarlo. Il tappeto musicale ha una struttura di "giacca", paragonabile al più noto repertorio della coppia Bovio-Valente come "Brinneso".
Stiamo ascoltando un brano in tempo ternario dal titolo "'A sirena d''e canzone", inno alla napoletanità ed al rapporto profondo che i napoletani hanno con il canto, che si ascolta dalla voce di Giuseppe de Vita. Come in tutto questo repertorio, anche qui si ha il tipico quadro dei cantatori e della cantatrice che si trova davanti al mare affacciata ad un balcone. La voce del cantante è lirica ma è più leggera e l'impostazione non si sente. E' un brano bellissimo, che dimostra come questa città avesse trovato una maniera serena e profonda di raccontarsi in musica che la rende unica.
Per la prima volta devo dire di soffrire, perché questo disco di Salvatore Papaccio che ci permette di conoscere questa sconosciuta "Abbracciate cu mme" è davvero ridotto alla frutta. Il brano nonostante tutto è spassosissimo ed è veramente festoso, anche se del testo non prendo quasi niente. L'interpretazione di Papaccio, come spesso capita e sovente abbiamo qui sostenuto, è un po' esageratamente teatrale. L'allegria del brano, almeno secondo me, non è esattamente rispettata ma queste sono appunto opinioni personali e niente di più. E' comunque un brano molto bello. cantanti moderni, riprendete questi gioielli d'epoca!
E continuiamo a soffrire, se è possibile soffriamo ancora di più di prima. Il brano che si ascolta è molto bello, ma per farcelo ascoltare la Rai sta usando un disco ridotto alla frutta (aiuto!). La canzone si chiama "Parlame e chiagne" ed è interpretata da Ciro Formisano. E' un ritmo binario, eseguito in una tonalità minore con una scala non arricchita, anzi piuttosto semplice, se non fosse per un intervallo di quarta aumentata fortemente arabicizzante. Il ritornello, come è spesso avvenuto in questo repertorio, è più ricco della strofa in quanto i due "modi" convivono. Non mi sembra che questo brano si possa definire triste, anzi è solo romantico. Purtroppo, forse ve l'aspettavate, non sto capendo molto del testo.
E la puntata si conclude con una sofferenza a massimo grado elevata, rappresentata da un brano del 1928 intitolato "Io rido e chiagno". L'interprete è Salvatore Papaccio, che canta con sentimento dei versi dedicati alla madre musicati da Nicola Valente. Anche qui si ritrova quella vicinanza allo stile che molti associamo a certo repertorio sceneggiato di Bovio o anche Pacifico Vento. Il brano comunque è bello e riporta l'atmosfera dei posteggiatori, con il suo semplice accompagnamento mandolinistico. Suona strano questo gruppo cameristico per l'interpretazione del repertorio riconducibile al canto "di giacca", ma non fa un effetto sgradevole, anzi.
E' stata una bella puntata, con un po' di sofferenza ma ogni tanto purtroppo è obbligatoria.

venerdì 4 giugno 2010

Zoè a Gualdocattaneo!

Carissimi lettori, avrete notato che è da tantissimo tempo che non scrivo.
Oggi lo faccio con particolare piacere, per annunciarvi un evento che avrà luogo il 26 di giugno a Gualdocattaneo, in provincia di Perugia.
Nella Sede dell'associazione "Oleum" si esibiranno gli Officina Zoè.
Il pubblico è invitato a trovarsi lì per le 20.30.
Per ulteriori informazioni rimando ai manifesti che al più presto si troveranno in vari luoghi.
Ai miei lettori, che ho visto non essere solo perugini, ovviamente prometto un racconto più particolareggiato possibile della serata, così da poter loro far vivere quello che la distanza impedisce loro di assaporare.
Sono davvero felice di aver scritto questo post. Mi scuso per la sua vaghezza, ma ciò che ho riportato è ciò che mi è stato riferito.
Vi aspettiamo più numerosi possibile!