Carissimi lettori, vi avevo annunciato che ieri sera ci sarebbe stato un concerto degli Zoè dalle mie parti. Ovviamente io ci sono andata ed eccone il resoconto, dove finalmente si rispetterà l'ordine rigoroso delle canzoni.
Si è iniziato a suonare abbastanza tardi, il pubblico non era numeroso come la bravura del gruppo avrebbe meritato, ma erano giustificati dal tempo inclemente che ha fatto abbattere su Perugia e dintorni un temporale violentissimo. Nonostante questo si è suonato sotto una bellissima luna piena, e vi giuro che gli Zoè hanno dato il meglio di loro.
Il primo brano eseguito è stato un "Santu Paulu" in sol con voce solistica di Lamberto Probo. È stata una pizzica davvero emozionante, forte e festosa come solo in pochissimi oggi la riescono a suonare (fare festa non significa fare macello!). Le voci si muovevano con un canto "abbandonato", anche se in questo particolare frangente c'era molto contatto con la terra, cosa che, come si è già avuta occasione di dire in vari articoli dedicati agli ultimi Zoè, il gruppo forse stava un po' perdendo. Meravigliose, qui e durante tutto il concerto, le acrobazie di Giorgio Doveri soprattutto con il violino, di cui il musicista sa sfruttare al meglio le risorse, prime fra tutte tremuli e vibrati.
Subito dopo Cinzia Marzo e Rachele Andrioli, grandi voci femminili del gruppo e tra le più belle nel Salento, ci hanno fatto ascoltare un brano a cappella intitolato "La lettera ca me desti".
Il brano non era da me conosciuto quindi mi ha intrigato moltissimo. Era cantato in quel misto di dialetto ed italiano che caratterizza molto repertorio polifonico salentino, e musicalmente era basato su una scala di sibemolle arricchita da un interessantissimo "mi" naturale che costituiva un intervallo di "quarta aumentata". Il testo era un canto di sdegno, ma per niente caratterizzato da ironia.
Dato che c'erano state complicanze con la chitarra, subito dopo si è eseguita una "Filia", che Lamberto ha brillantemente e lungamente presentato, contestualizzando questa stupenda pizzica nella storia dell'"Officina", e raccontando come essa sia stata dedicata a Carlo Giuliani, una delle persone che hanno provato sulla propria pelle la violenza spesso gratuita di questo cosiddetto "Stato democratico".
C'è stato spazio ovviamente anche per la "pizzica tarantata", bellissima ed insuperabile, dove il violino brilla come nessuno. La parte percussiva era equilibratissima, data la convivenza delle nacchere e dei tamburelli, che rappresentavano da una parte la dolcezza insita in questo ritmo, dall'altra la sua conclamata e spesso esagerata ossessività.
Proseguendo ci è stata data la possibilità di ascoltare una curiosissima versione a valzer veloce, simile a quella strumentale presente nel cd in duo di Donatello Pisanello e Giorgio Doveri intitolato "Melodie salentine", di "Nia, nia, nia". Devo dire che, come avevo già confessato in occasione della mia recensione al "live in Japan", qui io tradisco quelli che sarebbero i miei gusti naturali. Trovo insostituibile il trio di corda, plettro ed arco che esegue questo brano su "Terra", mentre l'organetto e la velocizzazione del "tempo" gli dànno una allegria che forse non gli si confà (sono solo opinioni personali). Comunque era molto bella, ed il canto di Cinzia Marzo e Rachele Andrioli sapeva rendere come pochi la grande dolcezza insita nel testo.
Continuando si è avuta la prima canzone d'autore mai apparsa in un cd dell'"Officina Zoè", quella molto amata e forse sopravvalutata "Don Pizzica". Come si sa io ci sono legata da storie personali che ho più e più volte condiviso con voi, quindi l'ho comunque accolta con un grido di giubilo. Come in tutti i brani del primo periodo ("Terra" e "Sangue vivo") il canto di Cinzia prendeva un profondo contatto con la terra, era effettivamente secco e forte, senza gorgheggi né ghirigori sulle vocali. Questa volta però Rachele rispondeva con l'atteggiamento opposto, soprattutto quando entrava con la sua parte da solista "Intra stu munnu...". Molto caratteristico degli interventi di Rachele in questo brano è il giocare con l'espressione "ete quistu ca me face nnammurare", che viene sminuzzata, troncata e ristrutturata in svariati modi tramite abbellimenti e pause d'effetto variabile.
Di seguito si fa il primo dei quattro riferimenti all'ultimo cd degli Zoè, che come saprete da queste parti è considerato un capolavoro, con un bellissimo brano strumentale dedicato a quel popolo "che molti denigrano", ossia i Rom. È un brano di cui si è ampiamente parlato in sede di recensione di "Maledetti guai", qui converrà dire che se ne è potuta assaporare la dolcezza quasi mistica che dà un colore speciale al ritmo. Il brano è stato eseguito a velocità normale, peccato che il violino, almeno secondo me, non abbia saputo dare la giusta enfasi a quella breve parte tra sol e re minore dove è solista solo appoggiato dai bassi dell'organetto (non ha pianto abbastanza!).
Tornando a "Sangue vivo" si è potuta poi godere una strepitosa versione di "Ijentu", anche se anche qui tradisco i miei gusti naturali, perché sono stata sempre un po' contraria all'inclusione del "Cupacupa" nell'organico di questa canzone. Entrando tecnicamente nella struttura del brano, le voci hanno giocato moltissimo, trovando un equilibrio quasi meraviglioso tra la telluricità, che qui forse è stata un po' troppo smorzata anche se era sempre presente, e l'interiorità a cui questo brano inevitabilmente porta la sua interprete principale ed autrice, Cinzia Marzo. Impagabili inoltre gli assoli di armonica a bocca di Luigi Panico, che hanno permesso alle voci di "tarantarsi", tornando in alcuni momenti alla forza insuperabile dell'esibizione di Melpignano (peccato che nessuno l'abbia pubblicata in maniera decente su Youtube!).
Subito dopo si è tornato a cantare in griko, con il classico indiscusso di quella tradizione, "Kali nifta", scritta ormai moltissimi anni fa da Vito Domenico Palumbo. La versione dell'"Officina" ha una caratteristica che io le ho sempre spudoratamente invidiato: riesce a connettere in maniera veramente notevole la crescente velocità del ritmo, quindi la festa, con l'espressività del canto (non è facile, il novanta per cento delle versioni di riproposta lo provano!). Forse l'espressività è stata un po' diminuita dall'esagerato salto di velocità operato tra la prima e la seconda strofa, in questo è insuperabile la versione di "Crita" (Polosud, 2004).
Sempre dal repertorio di testi lasciatici dal grande studioso di Calimera morto nel 1918, l'"Officina" ci ha poi offerto una "Pizzica mistica", brano di cui si è già accennato in sede di recensione di "Maledetti guai". In questo caso forse è conveniente approfondire la questione, raccontando un po' meglio la struttura del brano. Esso parte con una lunga introduzione strumentale, che viene eseguita con un tempo di terzina talmente lento che potrebbe ricordare un valzer. Il canto di Cinzia, quasi dolce e sospirato, d'altronde del tutto simile al suo parlato, si inizia a stagliare dopo che la tammorra muta abbia iniziato ad accompagnare questo ritmo con delle varianti che obbligano alla sua velocizzazione. La cosa curiosissima di questa particolare versione è stato il virtuosismo vocale con il quale Cinzia ha concluso il suo canto, facendo seguire al "la" centrale che conclude la frase, una scala di un'ottava e mezzo che è arrivata fino ad un "mi" sopranile falsettato. Dopodiché si è passati alla parte strumentale, quella che io non riesco assolutamente a digerire, per la sua notevole dodecafonia.
Sempre in griko e tratta da "Maledetti guai", si è poi avuta "Moira", che le voci di Cinzia Marzo e Rachele Andrioli hanno eseguito a cappella. Cinzia cantava nel suo inconfondibile colore limpido e dolce, quasi da cantante lirica, mentre Rachele rispondeva controcantando con la sua "potenza rispettosa". Va riconosciuto a questo brano di aver saputo plasmare come pochi una possibile strada per la sopravvivenza e per la rinascita o ricontestualizzazione del canto funebre griko, non più come "moroloja", spesso gridato, ma come qualcosa di più posato ma non per questo meno sofferto.
Dopo questa parentesi "mistica", si è tornati prepotentemente con i piedi per terra, e si è cantata quella meravigliosa serenata sdegnosa al nostro "grande capo" (chi mi conosce sa già di quale parlo...) intitolata "A mammata". Si è sentito il testo effettivo del brano, ossia quello presente nel cd "Maledetti guai", senza sconti e senza tralasciare quello che per me è un esplicito riferimento al dialetto romano, con l'espressione "lui ci vuole morto bene". Per quanto riguarda le parti a vocalizzi, che come avrete capito sono tra le caratteristiche che mi fanno apprezzare comunque questo brano, purtroppo non posso dire niente perché non le ho sentite.
Continuando con i "Maledetti guai" si è poi arrivati ad una perfetta versione di "Cu li suspiri". L'"Officina" non si è lasciata prendere troppo la mano e non l'ha velocizzata esageratamente, particolare che ha permesso al brano di conservare intatto il suo insuperabile romanticismo. Le nacchere di Cinzia sono entrate in corrispondenza dell'inizio della seconda metà del brano, equilibrando anche qui l'ossessività dei tamburelli con la loro innegabile dolcezza. Prima della fine si è avuto quel momento di gioco spensierato che fa sì che questo brano non sia completamente avvicinabile alla tradizione, provocando quindi una certa sensazione di esagerato in un ascolto di "Maledetti guai" che non sia condizionato da esperienze personali particolarmente forti (quindi non al mio).
Dopo nostre scalpitanti richieste di bis, perché nonostante fossimo pochi di festa ne facevamo quanta più volevate, Danilo Andrioli ci ha fatto sentire un canto di trainieri che ormai da quattro anni fa compagnia all'"Officina". È un canto ripreso paro dalla raccolta di Maurizio Agamennone "Musiche tradizionali del Salento. Le registrazioni di Diego Carpitella ed Ernesto de Martino" (Ed. Squilibri, 2008, Roma). La voce principale qui non canta ma emette delle note calanti e "sporche" a voce piena. Le voci femminili rispondono altrettanto quando entrano nel ritornello, che forse fa riferimento al tarantismo (sono solo supposizioni!).
Subito dopo si è avuto il piacere di ascoltare "Lu rusciu de lu mare" in versione integrale, ossia con le tre parti che troviamo nell'insuperabile versione di "Terra" (1997). Nella terza parte, che l'"Officina" non eseguiva da svariati anni, si è avuto un interessante arricchimento da parte della chitarra che ha fatto diventare questo ritmo mediterraneo veramente perfetto. Il canto era molto secco e tradizionale, segno che l'"Officina" si sta riavvicinando alla tradizione come spirito interpretativo, senza mai essersene distaccata come filosofia.
Il concerto si è chiuso nella miglior maniera possibile, con quella che secondo la sottoscritta è la più bella canzone degli Zoè e una delle canzoni salentine più belle in assoluto, la pizzica lenta e profonda "Menevò". La versione che l'"Officina" ne ha proposto ieri sera ha saputo conciliare un certo aumento di ritmo (purtroppo inevitabile!) con una grandiosa espressività e simbolicità. Bellissimo il dialogo tra i doppi flauti calabresi suonati da Cinzia e la mandola di Giorgio, che veramente permettevano a chiunque di vivere il dolore di questo brano.
Spero di avervi dato qualcosa di ciò che vi siete persi, ovviamente il consiglio resta quello di andarvi a vedere l'"Officina" se passa dalle vostre parti.
domenica 27 giugno 2010
Qualche parola sul concerto degli Zoè.
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