Carissimi lettori, dopo due giorni di "digiuno scrittorio", torno a voi per fare un omaggio ad un fenomeno a cui, forse per mia superficialità, ho sempre semplicemente affermato di essere chiusa "a riccio".
Mi riferisco alle reinterpretazioni di brani di Fabrizio de Andrè, che spesso, invece, mi hanno emozionato molto e formato quanto le originali (se di buona qualità). Il pretesto del post, e ve lo voglio annunciare, è quello di fare da "cornice" e contestualizzazione, ad una bellissima, per lo meno per me, reinterpretazione che vi posterò alla sua conclusione.
Andrò, praticamente, a spulciare nella mia memoria, da molti ritenuta forse esagerando di ferro, e vi parlerò di più reinterpretazioni deandreiane possibili, condannandone aspramente alcune, per vari motivi che si spiegheranno caso per caso, ed elogiandone altre, sempre con i miei soliti criteri.
Entriamo subito nel vivo della materia, parlando, e condannandola completamente, della reinterpretazione, da parte di Gabri Ponte, dj che dopo avrebbe fondato i già sciolti Eifel 65, del brano "Geordie", composizione inglese tradotta e portata al successo dal nostro. Va riconosciuto al disk jokey, e non è un merito da poco dati i diritti che questi spesso si arrogano di stravolgere le canzoni che rielaborano, di aver lasciato intatto il ritmo, per lo meno nelle sue basi profonde. Ciò non toglie che, come sempre dico, una rielaborazione, affinché porti davvero acqua al mulino della canzone originale, deve mantenervisi molto fidedigna. Infatti, e mi ricordo benissimo che mi scandalizzava, nessuno di quelli che all'epoca pompavano il brano, diceva chi fosse l'autore del testo italiano e primo interprete. Nelle radio, frequentate da Asini a livello di musica, spesso, verso la metà degli anni novanta, quando uscì il brano, si sentiva: "Ecco a voi Geordie, successo di Gabri Ponte!".
Voglio ora fare una specie di recensione, non sarà questo ma per capirci va bene, di un tributo a Faber tra i più belli e riusciti, il concerto, inciso poi su doppio cd, con alcuni aggiustamenti vergognosi, "Faber amico fragile".
Il primo disco, ed eccola la nota vergognosa, si apre con ben due tracce dedicate ad Adriano Celentano, che per farsi sopportare da una platea ormai stanca della sua platealità, la sua pseudoprovocazione ed il suo qualunquismo, ha approfittato dell'occasione per sbandierare il suo problema di memmoria, che gli fa ricordare benissimo ciò che ha fatto quarant'anni fa, ma non gli fa restare in testa ciò che impara ora, quindi deve girare con un registratore che in cuffia gli ridica ogni frase. Quello che trovo vergognoso, signori miei, è la recita che il "molleggiato" iscena, tutta portata a farsi compatire. La seconda traccia, che è effettivamente la sua versione de "La guerra di Piero", non è poi male, ma è l'unica incisa in studio, quindi rovina l'atmosfera di un bello e caldo concerto.
Subito dopo arriva Zucchero, che interpreta una delle canzoni che gli stanno più lontane del repertorio del genovese, la bellissima, sudamericana e struggente "Ho visto Nina volare". Per un artista dall'impostazione inequivocabilmente blues, come innegabilmente è lui, sarebbe andata meglio "Quello che non ho", non contemplata nella scaletta del concerto, oppure "Una storia sbagliata", interpretata nella seconda parte del concerto, quindi se ne parlerà a tempo debito.
Credo che la parola "vergognoso", come ho già affermato in articoli precedenti, si possa spendere, senza timore di essere smentiti, riguardo l'atteggiamento tenuto dalla PFM nei confronti di una memoria, da lei stessa condivisa con il cantautore, in occasione di quei tanto amati, ma sicuramente discutibili, concerti del '79-'80. "Il pescatore", che sin da subito fu uno dei peggiori brani della scaletta, con gli anni è diventato "capro espiatorio" di quella "supponenza rockettara", secondo la quale, se un brano non si porta radicalmente verso il proprio mondo, non lo si riesce a suonare. (Fino a quando qualcuno non mi riuscirà a convincere del contrario, io, orgogliosamente, suonerò le cose per come sono o quasi!). Non mi va di dilungarmi sulle stonature e la sguaiataggine di Di Cioccio (batterista e front man della band), perché ne ho già parlato e mi sentirei male.
Il primo momento veramente bello del disco, in nome di quella combinazione di cose compatibili tra loro che io auspico sempre, è la mirabile interpretazione data da un "compagno d'avventura" di De Andrè, come il grandissimo Gino Paoli, de "La canzone dell'amore perduto", che fra l'altro è, da sempre, la mia canzone preferita del genovese. Paoli, con la sua voce potente e rotta, riesce a sublimare la dolce sofferenza del testo, "gridandola confidenzialmente" come solo lui sa fare. Oltretutto, l'effetto di estrema armonia, è accentuato dall'accompagnamento completamente acustico e chitarristico, che fa pensare alla serenata notturna popolare, a cui questo capolavoro senza dubbio si richiama.
Arriva Franco Battiato, con "Amore che vieni, amore che vai". L'interpretazione, signori miei, anche se non si può negare che sia sentita, la trovo assolutamente irrispettosa, più che altro per le stonature, forse dovute solo al fatto che il siciliano in fondo non ha voce. L'arrangiamento comunque è buono, ed è un ottimo compromesso fra gli spunti barocco-elettronici del siciliano, e il terzinato anni '60, in fondo di matrice bethoveniana, tipico del brano di Faber.
Il settimo brano, pur non essendo musica, va citato tra i più emozionanti del disco, in quanto ci cala nell'atmosfera che debbono aver vissuto tutti quei "Deandreiani" convenuti in quel prestigioso teatro ed in quella altrettanto prestigiosa piazza di Genova. Come settima traccia, infatti, il disco riporta i ringraziamenti di Fabio Fazio, sicuramente tra i maggiori esperti di De Andrè, a tutti coloro che stavano rendendo possibile questo miracolo.
Subito dopo Ornella Vanoni, forse troppo confidenzialmente, interpreta "Bocca di rosa", brano che non c'entra niente con l'impostazione "bossanovistica" della milanese. In De Andrè c'è sì la posatezza, ma è equilibrata dalla potenza dei francesi. La Vanoni, con il suo canto biascicato alla João Gilberto, non può cantare De Andrè, infatti, come ho già affermato in altri articoli, per scegliere se interpretare o meno un brano, si deve pensare al nostro stile "naturale", e piuttosto che rovinarlo ci si rinuncia. Una domanda che mi sorge spontanea dal ricordo di questa scaletta è: chi ha scelto le canzoni da interpretare ed affidare ai cantanti? Io rispondo semplicemente che se l'avesse fatto un vero estimatore di Faber non si sarebbe arrivati a queste approssimazioni.
Una curiosità interessante, proseguendo, è "La romance de Marinelle", traduzione francese, interpretata dallo sconosciuto Roberto Ferri, de "La canzone di Marinella". E' molto bella, sia perché è compatibile con una delle tappe fondamentali della formazione di De Andrè che è la Francia, sia perché si è trovato un arrangiamento, quasi argentino, che esalta la musicalità dolce e potente della lingua di Molière. Il testo qualche volta, giustamente, è "rivissuto", tramite delle metafore non letterali, che permettono a questa traduzione di stagliarsi come un brano rispettosamente autonomo dall'originale.
Teresa de Sio, dopo la parentesi sicuramente eccellente nei "Musicanova" e nella Nuova Compagnia di Canto Popolare, negli anni Ottanta si era data al pop, e lo cantava in dialetto napoletano, rispettandone però scrupolosamente e giustamente gli stilemi ("Aummo aummo", "Voglia 'e turnà" e dintorni). Gli anni Novanta, nella vita della partenopea, segnano un anelito di radici, che però non la porteranno mai più al livello di coscienza, sicuramente indotto da chi era più grande di lei, in primis De Simone, dei primi lavori. La cantante, da "Ombre rosse" in poi, si limiterà, stupidamente dico io, a cantare accompagnata quasi solo da strumenti moderni ed addirittura in italiano, ma con moduli che per lei sono "etnici". Perfino in questo tributo a De Andrè, lei ha il coraggio di comportarsi così, inserendo una rabbia che non c'entra niente con il testo del brano, ne "La ballata del Michè". Non vi voglio commentare più questo brano, rileggetevi le osservazioni fatte su "lu bene mio" di "Craj", che anche se prodotto cinque anni dopo, si trova allo stesso identico stadio.
Molto buona è, per fortuna, la versione di "Inverno" offertaci dall'arpista e cantante CeCilia Chailly, sicuramente avvantaggiata dal potere evocativo del suo strumento, certamente imbattibile nel ricordarci o descriverci nature. La sua voce, oltretutto, fa un tutt'uno con le magiche corde da lei suonate, ed il brano è a dir poco sublime.
Troviamo, continuando, uno dei più grandi cantautori italiani, che ora si è completamente dato all'interpretazione di brani altrui, di generi tanto disparati come il blues od il fado, Eugenio Finardi. Fra l'altro, e va detto, di Fabrizio de Andrè ha ricantato svariati brani, neanche particolarmente conosciuti, e questa "Verranno a chiederti del nostro amore" se la porta dietro quasi come una specie di distintivo. Qui, nel 2000, c'è più voglia di essere rispettoso dello spirito originario, piuttosto che nella versione riproposta quest'anno, in occasione del tributo, sempre presentato da Fabio Fazio, andato in onda per il decennale della morte del cantautore, dove Finardi è stato accompagnato dal quintetto di Nicola Piovani.
Andando avanti nella tracklist, si sente una versione, non tra le migliori, di "Geordie". E' interpretata da un gruppo, chiamato "Mercanti di liquore" in omaggio al "Suonatore Jones" di deandreiana e leemastersiana memoria, che però ha più rispetto dei cantautori nel nome che altro. Le chitarre, infatti, suonano con troppa modernità, la fisarmonica non riesce a fare se non scontate melodie, la voce del cantante è troppo rock, insomma tanta voglia di omaggiare cose che non si amano (se io amo qualcosa ne rispetto le sonorità, sennò mi compongo roba mia!).
Ecco qui Roberto Vecchioni, cantautore, professore e musicologo, che ci interpreta, con le insicurezze che gli sono affiorate negli ultimi vent'anni di carriera, una comunque emozionante "Hotel Supramonte". E' bella, molto rispettosa, ed anche dolce e piena di dolore.
Il cd si chiude con Luciano Ligabue, che ci offre una versione non deludente ma neanche spettacolare, di "Fiume Sand Creek". Ciò che non mi convince, è lo stridore che si crea fra gli influssi nordamericani dati dal fingerpiking della chitarra e la classicità del violino, per quanto compromessa dal fatto che esso sia attaccato all'amplificazione con un cavo, invece di avere un microfono davanti.
Il secondo cd inizia con un doppio intervento del rocker di Zocca Vasco Rossi, che, dopo averla introdotta con una lettura dall'omonimo libro di Cesare G. Romana (prima traccia), interpreta "Amico fragile". Non si può negare che questo brano abbia molto a che vedere con la storia dell'emiliano, ma questi non ha più voce, e quando non si ha più voce è meglio smettere di cantare (tanto lui potrebbe anche campare benissimo di rendita).
Arriva poi una delle più grandi interpreti italiane, la romana Fiorella Mannoia, che ci regala una Khoracané, senza il pezzo in romanì, ma comunque da brivido. E' un'interpretazione timida e ruvida, come quella di "Capelli rossi" nel suo ultimo disco. (Il movimento del dare, già recensito qui).
Subito dopo si assiste all'unica cover brutta di tutto il cd, la reggaeggiante, sguaiata e stonata reinterpretazione de "La cattiva strada" di Jovanotti. Ho già affermato che costui dovrebbe limitarsi a fare il rapper, però probabilmente dire che si canta De Andrè riempie troppola bocca, e molti preferiscono riempirsela piuttosto che evitare scempi.
Vittorio De Scalzi, storica voce dei New Trolls, in controtendenza con tutti, potendoselo permettere perché De Andrè ha aiutato questo gruppo a confezionare uno dei suoi lp migliori, reinterpreta, appunto da questo disco, intitolato "Senza orario e senza bandiera", "Signore io sono Irish", scritta anche con la collaborazione di Riccardo Mannerini. L'interpretazione è molto bella, seria e professionale.
Bruttissima, proseguendo, è l'interpretazione di "Via del campo" da parte di Enzo Jannacci. Il cantante milanese, d'altronde, mi pare che in questi ultimi quindici anni di carriera stia privilegiando il teatro, la lentezza della recitazione, piuttosto che la melodicità, magari approssimativa, che però lo aveva positivamente caratterizzato in ben trent'anni di carriera. Il brano è lento, funereo, ed ha un finale, non so se aggiunto dallo stesso Jannacci, letteralmente insopportabile.
Si arriva poi ad "Una storia sbagliata", brano tra i più rari e sconosciuti del genovese, interpretato, con la solita sguaiataggine ed il normale pressappochismo, da Loredana Bertè. Il pezzo, per permettere alla cantante di "urlare senza voce", è stato rallentato e portato ad un'insopportabile tempo blues, che nella versione di Faber era semplicemente accennato. Mentre il genovese "porgeva" il suo sdegno per la fine indegna di Pasolini, la cantante urla le parole come se fossimo ad uno di quei talk show televisivi, tipo "Porta a porta", dove per farsi sentire bisogna blaterare le proprie opinioni sbraitando.
Si arriva ad una mirabile, anche se un po' approssimativa a livello di accompagnamento chitarristico, "Canzone per l'estate", interpretata da Edoardo Bennato, completamente solo sul palco, munito di chitarra, armonica e tamburello. E' molto buona, seppure, anche qui, magari, c'è la voglia di portare il pezzo verso atmosfere che il genovese tratteggia in maniera troppo indecisa per farne il perno di un arrangiamento. Anche in questo caso, come sopra, c'è troppa rabbia, laddove, né nel testo né nella musica, se ne può ravvisare.
Mirabilissima, andando avanti, è la versione di Francesco Baccini, fan di Faber che ha avuto l'occasione di collaborarci per il suo brano "Genova blues", de "La ballata dell'amore cieco". Anche lui, credo sia solo sul palco, ravvivando i fasti degli insuperabili lp d'esordio come "Il pianoforte non è il mio forte". L'anima swing della "Ballata", insieme alla sua teatralità, viene solo resa con simboli diversi, ma praticamente non stravolta.
Molto dark, insopportabile, anche perché io questo brano non lo digerisco, è la versione de "La canzone del padre", interpretata da Oliviero Malaspina. Posso dire, senza paura di essere smentita, che la "cinematograficità" insita nella versione di De Andrè, portata dagli arrangiamenti di Piovani, viene completamente distrutta.
Si continua con uno di quei cantautori che, dopo la sua morte, ha fatto dell'interpretazione di De Andrè quasi una seconda pelle. Legato al genovese da vincoli di collaborazione, ha scritto insieme a lui gli lp "Rimini" e "Fabrizio De Andrè" oltre ad altre canzoni, Massimo Bubola, forse per deferenza, preferisce sempre interpretare brani da quel repertorio. Le sue versioni sono sempre più "ruvide", "statunitensi". Non starò qui a fare osservazioni sulla sua vocalità, si può andare a leggerle nel "Commento al tributo a De Andrè" tra i primi post di questo blog.
Un altro caso di collaboratore che deferentemente ama interpretare solo brani scritti da lui stesso a quattro mani con De Andrè, è il grande Mauro Pagani. La sua versione di "Sidùn", ripresa qualche anno dopo in un remake ben fatto ma brutto di tutto "Creuza de ma", è bella musicalmente, perché lui è un grandissimo virtuoso di molti strumenti etnici come il bouzouki greco, ma vocalmente non mi ha mai convinto. Il suo timbro, e lui stesso se ne rende conto infatti canta pochissimo, non è per niente dinamico e non può competere con la versatilità del suo suonare.
Cristiano, figlio di Fabrizio, interpreta poi "Creuza de ma", coadiuvato nei cori da Mauro Pagani. E' buona, il ragazzo ci sa fare, certo al confronto con il padre, perde un pochino.
L'ultimo brano, unico inedito del cd, va bene a livello di tematica in questa occasione, in quanto si parla di un emarginato, ma se lo sarebbero benissimo potuti risparmiare. E' troppo teatrale, sporco, veramente non ha lo spirito di De Andrè, ma per vendere cd anche questo si deve fare, inserire qualche merdolina, basta che sia inedita!
Facciamo ora un breve percorso attraverso i tributi discografici e televisivi extra "Faber, amico fragile". Mi limiterò a ciò che conosco, come è mia abitudine, ignorando quindi "Mille papaveri rossi" ed il suo seguito. Mi riferirò anche, ovviamente, ad apparizioni fugaci di repertorio deandreiano in cd non ad esso dedicati.
Nel 2001, Fiorella Mannoia, nel suo cd "Fragile", da una buona, magari non perfetta ma sempre convincente, versione de "Il pescatore. E' arrangiata dal suo fido compagno Piero Fabrizi, che non sconvolge assolutamente l'impianto originario del brano, lo porta solo verso idee musicali più moderne, senza la supponenza già condannata della PFM.
Un anno prima, nel cd "Amore nel pomeriggio", sicuramente uno dei più bei lavori di tutta la sua carriera, De Gregori si appropria, in maniera personale ma rispettosa, del brano, scritto da lui stesso insieme al cantautore genovese per l'album di De Andrè "Volume VIII", "Canzone per l'estate". Questo, in maniera curiosa ma non forzata, si può interpretare come una maniera che il romano trova per ringraziare il genovese, dopo venticinque anni esatti, per avere interpretato, sempre nel "Volume VIII", la sua "Storie di ieri", che sarebbe uscita qualche mese dopo anche nell'lp degregoriano "Rimmel". Se fra le due versioni del brano appena citato riesco radicalmente a schierarmi con Faber, nell'altro caso sono titubante anche perché le due versioni di "Canzone per l'estate" sono talmente diverse, anche in alcune parti di testo, che solo un cultore della materia cantautorale riesce a ricordarsi o ad essere sicuro che siano lo stesso brano. Nella versione di De Gregori, ovviamente, si accentua l'anima un po' country, perdendosi , in proporzione, tutta quella limpidezza europea così cara al genovese.
Di tributi a De Andrè se ne sono visti tanti, forse anche troppi, e ne vorrei parlare brevemente, per quello che mi ricordo. Al concerto del Primo maggio a Roma, nell'edizione 2004, quella presentata da Claudio Bisio che conteneva quell'orribile performance dell'Ensemble "Notte della Taranta" diretto da Steward Copeland, c'è stato un collettivo di artisti, diretto ovviamente dall'insostituibile Di Cioccio della PFM, che ha interpretato il testamento di Tito. Vergogna! Non posso scordarmi, ormai credo non ci sia speranza, dell'entrata di Linda, cantante che era esplosa a Sanremo e poi è scoppiata da sola, che alla sua strofa, "Non dire falsa testimonianza", ha dato un'interpretazione blues che con il pezzo c'entra come i cavoli a merenda. Questa è stata solo la punta di un iceberg, va da sé, ma è quello che mi ricordo.
Rai uno, qualche anno fa, si prodigò in un tributo a De Andrè, dalla Sardegna perché si amano molto i luoghi simbolo, presentato anche (l'altro non me lo ricordo) da Pamela Villoresi. L'orchestra non era male, se non altro era acustica, ma davvero si rasentava l'inascoltabile.Non mi posso scordare, anche perché la sua partecipazione sapeva molto di promozione personale, di Morgan, che interpretò "Un giudice" in maniera completamente elettronica, poco dopo aver fatto la sua vergognosa reinterpretazione di tutto "Non al denaro, non all'amore né al cielo".
Mi ricordo di una buona, non perfetta perché i jazzisti puri come lui non sanno cantare repertorio cantautorale non proprio, interpretazione de "La città vecchia" da parte di un Sergio Cammariere che, a quanto pare, ancora godeva dei favori del sistema radiotelevisivo.
Claudio Bisio, che in quel periodo era anche impegnato in una rielaborazione teatrale de "La buona novella", interpretò "Spiritual" e, nonostante le stonature, fu una delle cose più belle che si sentirono.
Le Palentes, valente gruppo sardo che in quel periodo spopolava con "Ciciri" (spero si scriva così), fecero una versione molto buona di "Volta la carta".
Prendiamo ora, abbastanza di petto perché ancora me lo ricordo, il tributo a De Andrè andato in onda all'interno della trasmissione di Rai tre "Che tempo che fa", ovviamente presentato sempre dal suo conduttore abituale, il già citato Fabio Fazio.
Sono stata particolarmente contenta, e lo dico, che la sigla che annunciava i vari rientri dalle pause pubblicitarie, sempre presenti nonostante l'esoso ed inutile canone rai, era un pezzettino strumentale tratto da "A çimma", brano non particolarmente conosciuto, ma tra i più belli della produzione dialettale deandreiana.
Il prologo, chiamato da Fazio anteprima, è stato un dialogo con l'architetto Renzo Piano, grande amico di De Andrè, su quanto un luogo può diventare simbolico in relazione ad un particolare momento della vita di qualsiasi persona. Non posso parlarvi precisamente di questo momento, posso solo dirvi che mi ha toccato molto, perché, non so a voi, ma le personalità famose magari a livello mondiale, come il signor Piano, solo molto difficilmente vengono credute dotate di umanità (questo anche grazie ai media, che amano tanto la creazione di miti).
Venendo concretamente alla serie di brani eseguiti, tutte versioni mai pubblicate prima, è iniziata con una "Don Raffaè", interpretata da Lucio Dalla insieme al suo alter ego, l'attore Marco Alemanno. Credo che, ormai, Dalla dovrebbe decidersi: o fa il cantante, di cose proprie od altrui, o fa altre cose (regista, professore, presentatore televisivo e chi più ne ha più ne metta). Il bolognese, come sempre quando si fa accompagnare da strumenti acustici, avrebbe dato sicuramente il meglio di sé se non fosse stato coadiuvato da questo attore, che non sapeva assolutamente cantare, né sostenere l'amico nello sforzo di cantare nel napoletano di De Andrè, che per quanto edulcorato, sempre lingua partenopea resta.
Subito dopo è arrivata Gianna Nannini, cantante troppo rock anche se con tinte popolareggianti, che ha interpretato "Via del campo", fortunatamente con un arrangiamento rispettoso, ma sicuramente non in maniera da incorniciare.
Franco Battiato, credo subito dopo, ha interpretato inverno, commuovendosi anche questa volta, tornando ancora una volta a sfoderare l'arma del patetismo per far scordare le sue quantomeno dubbie qualità vocali.
Roberto Vecchioni, insieme ad un gruppetto di bambini della scuola dove insegna, che fra l'altro è intitolata proprio al cantautore genovese, ha eseguito una bellissima versione di "Girotondo".
Antonella Ruggero, cosiccome aveva fatto in un vergognoso concerto svoltosi a Masciano, in provincia di Perugia, sempre di tributo al nostro, ha interpretato l'"Avemaria" da "La buona novella". Interpretazione notevole, d'altronde fu una delle poche cose, anche nell'altra occasione, che si potevano salvare (le nostre lacrime ed i nostri applausi andavano più a De Andrè che ai cantanti che interpretavano senz'anima le sue canzoni).
Jovanotti, che nel frattempo si è "ufficialmente" convertito al nostro cantautorato italiano, ha interpretato, non malvagiamente ma certo non egregiamente, "Il suonatore Jones", direttamente da Spoon River, che così si è scoperto essere posto esistente nella mappa degli Stati Uniti.
Ottima è stata, d'altronde il brano è nelle corde dei due interpreti, l'accoppiata Bubola-Bennato per "Quello che non ho". Il canto di Bubola si stagliava perfettamente su quel tappeto di blues, accentuato ulteriormente dalle improvvisazioni dell'armonica in mi di Edoardo.
Uno dei pezzi più maltrattati della discografia di De Andrè è "Il pescatore", che l'11 gennaio di quest'anno è stato cantato da Piero Pelù, specialista negli scempi di brani altrui, vedasi la sua versione di "kalinifta" al concertone di Melpignano 2005. (Per vederla basta andare su youtube). Il problema del cantante toscano è, ovviamente, quello di non saper contaminare il proprio stile con presupposti propri degli altri che man mano tocca, e questo per me è gravissimo.
Si è già parlato, all'interno dell'articolo specificatamente dedicato a quel cd, della canzone di Faber "Dolcenera", interpretata egregiamente dagli Alla Bua nel loro "Limamo". Il citarla ora serve ad introdurre un argomento che non posso sviscerare quanto vorrei, quello delle traduzioni di canzoni del nostro nei vari dialetti italiani. A questo, qualcuno di voi se ne ricorderà, era stato dedicato il cd "Canti randagi" nel 1995. Lì, pur se io l'ho sentita in un tributo televisivo, è stata pubblicata una versione da brivido di "Tre madri", interpretata dall'ottima interprete sarda Elena Ledda.
Peppe Barra, nel suo disco "Guerra", ha interpretato, dando il la ad una moda, "Bocca di rosa" in napoletano. La sua versione è, come al solito, troppo teatrale, ed è solo il brano di De Andrè a contaminarsi con lo stile di Barra, non c'è rapporto di reciprocità.
Eccoci arrivati al gioiello che chiude questa carrellata, la versione in salentino di "Sidùn", interpretata da Ninfa Giannuzzi, interprete della scena folk-rock salentina, durante l'ultima edizione de "La Notte Della Taranta". La cantante, che si cala molto nel ruolo del genitore che piange il figlio sbranato dai carri armati israeliani, dà davvero un'anima profondamente popolare ed antica al brano, coadiuvata in questo dal grande Pagani che suona il bouzouki e le fa il controcanto nella parte finale, quella che anche in "Creuza de ma" era polivocale.
Purtroppo, amici cari, devo rassegnarmi a non poterla postare, andate su youtube e la troverete, con il titolo "Omaggio a De Andrè dal Salento".
Buona visione e buona riscoperta di questo e molti altri gioielli.
lunedì 18 maggio 2009
Iscriviti a:
Commenti sul post (Atom)
Nessun commento:
Posta un commento