Carissimi lettori, a chiusura di questa miniserie di articoli dedicati a cd salentini che mi hanno formato, voglio ora parlarvi dell'album "Limamo" degli Alla Bua. Non sarà una recensione obbiettiva, d'altronde l'obbiettività non esiste. Spero solo che basti a ricordare, a chi non se ne vuole capacitare, che non è vero che fare musica popolare non serve a nulla (se non a scatenarsi ubriachi tra gonne svolazzanti). Oltretutto, credo, che ogni fenomeno storico avvenga in determinate epoche, per le quali esso ha un senso del tutto proprio ed autonomo.
Non starò qui a raccontare la storia degli Alla Bua, perché in Internet, anche in Wikipedia, è raccontata molto bene. Mi limiterò, brano per brano, a raccontarvi questo cd, che mi ha letteralmente curata. Uno dei motivi per cui lo amo, infatti, è legato alla grande gratitudine che sento nei confronti delle sue tracce, che mi hanno accompagnato in un difficile processo di metabolizzazione di un grave lutto. Non mi voglio considerare una tarantata, ho troppo rispetto per chi lo è stato davvero, ma a me la pizzica mi ha curato, quindi io a questo mito do una base fondata. La cura, e questa è l'ultima divagazione, non è quella che punta a far dimenticare i dolori, ma tutto ciò che serve a lenirteli facendotene restare cosciente. Questo è stato ciò che mi ha fatto questo cd, ascoltato spesso durante pianti interminabili, che a volte alternavo a canti.
Entrando concretamente nella materia, il cd, del 2004, contiene quindici tracce, spesso testi tradizionali musicati (anche se nei crediti risultano composti dal gruppo).
La prima traccia "L'arciprete" è un motto, dei tanti conservati dalla memoria di Gigi Toma, cantante e tamburellista del gruppo, a cui si deve anche il curioso titolo del cd (che non significa niente). Il brano, introdotto da tre colpi di piatti, suonati da Luca Rizzello, allora violinista del gruppo, è semplicemente recitato.
I brani cantati iniziano con "A muntagna", pizzica dall'andamento semplice e veloce, molto romantica. Qui il flautista Pier Paolo Sicuro, utilizza l'ottavino, che spesso nello stile del gruppo si usa quando si vuole scherzare (confessione dello stesso gruppo la sera in cui li ho visti in Puglia alla "Sagra della polpetta" a Felline, piccolo paese in provincia di Lecce).
Il brano è composto da due parti, uguali se non per la tonalità, una cantata da Gigi e l'altra da Irene Toma.
Subito dopo c'è il primo errore di appropriazione, reato che i salentini gradiscono molto ma che mi fa imbestialire. Il fatto riguarda la canzone "'Acaddrhina" scritta dal poeta Cesare Monte, dal gruppo attribuita ad una non definita tradizione. E' un quadretto delizioso di civiltà contadina, che parte da una gallina (appunto caddrhina), per poi addirittura venire alla donna amata dal protagonista. Qui il flauto, durante i suoi assoli, fa cose talmente mirabili, che si resta veramente storditi (è da qui che mi è nato il nomignolo di "siluro" attribuito al suonatore di fiati Pier Paolo Sicuro).
Il gruppo, di seguito, ci regala una delle sue composizioni più belle, la struggente "Jeu partu". Con un ritmo indefinibile, che giusto per dargli qualche nome chiamerò "Milonga", si fa un ricordo implicito e quindi non violento della tragedia di Marcinelle. Gli Alla Bua, con questo brano, di composizione recente, oserei dire che hanno composto un capolavoro di ponte tra i canti di emigrazione (quelli dedicati alle tragedie ed allo sfruttamento da noi patiti) e quelli di "immigrazione", che per essere veramente contemporanea senza perdersi, la nostra musica popolare dovrebbe iniziare a scrivere data la quantità allucinante di clandestini maltrattati che giungono sulle coste italiane (niente di diverso da quello che succedeva con noi fino a trent'anni fa, ma noi ce lo scordiamo). Un esempio mirabile di questo nuovo repertorio, e questa è una divagazione, è un brano, di cui non mi ricordo il titolo perché non lo possiedo più, scritto da Mario Salvi, organettista romano, curatore del bellissimo sito http://www.organetto.it/.
Subito dopo arriva una tarantella che si rifà ai canti sui mestieri, intitolata "Alle messi". E' molto bella in disco, ma, sinceramente, dal vivo acquista una sguaiataggine, di cui gli Alla Bua sono purtroppo sempre più pregni, che non le fa assolutamente giustizia. Brutti, per lo meno per me, sono i bassi "organistici" con cui la fisarmonica, per darsi un po' di arie, accompagna il brano.
Subito dopo arriva "Tutta te rose", brano lento quindi un po' deludente, perché non si può dire che gli Alla Bua siano cantanti mirabili e per fare i lenti ci vuole la voce, comunque molto romantico. Trovo però molto pretenziosa la melodia, ed ancora peggiore l'accompagnamento di chitarra, per di più acustica.
C'è poi "A punente", brano strumentale dove, soprattutto per quanto riguarda la tecnica di tamburello, si riesce a piegare lo stile della pizzica ad un ritmo diverso ed indefinibile. La virtù degli Alla Bua, ora credo che l'abbiano molto persa per strada, è quella di innovare senza tradire la tradizione. Magari, infatti, come ascoltatori si può apprezzare o meno lo stile del gruppo, ma non lo si può bollare come semplice snaturamento della pizzica.
L'ottavo brano, forse, è il più curioso della scaletta. Si intitola "Foresta", ed è il frutto di una incisione di discorsi, a quanto dice il gruppo completamente improvvisati, fatti in dialetto a microfono aperto. E' un brano molto cinematografico, ma non se ne può parlare tanto, io per lo meno non ci riesco.
"Quantave", classico indiscusso della tradizione salentina, purtroppo arrivato anche nelle mani della Notte della taranta, (o "Notte della pernacchia" come la si chiama spesso in http://www.pizzicata.it/), è il prossimo brano. Musicalmente, e lo dico senza pudore, fino a quando non ho scoperto la versione degli Zimbaria nel cd "Baciu 'nvelenatu", questa rielaborazione era la migliore secondo me. Quello che non mi ha mai convinto, ed in parte si ritorna ai deficit gravi del gruppo in campo canoro, è l'interpretazione e la scelta, sicuramente discutibile, di tagliare alcune strofe fondamentali per capire il dispetto dell'innamorato abbandonato.
Ora arriviamo a quello che è il più bel brano del cd, la ballata classica "Turmentu te luna", che io amo anche per "orgoglio di categoria", ossia perché vi si trova il pianoforte, strumento che suono ad orecchio. Musicalmente è un miscuglio tra un brano colto ed una ballata irlandese, quindi questa parte è sicuramente di pugno del gruppo. Il testo, però, era già stato registrato, anche se non pubblicato, dall'attore Brizio Montinaro, di cui in questo blog si è già accennato. L'interpretazione, magistrale sul fronte strumentale, lascia molto a desiderare su quello canoro. Il cantante, Gigi Toma, purtroppo per lui, non riesce assolutamente a cantare con note pure, né discendenti né ascendenti, che sarebbero quelle che ci vorrebbero su un ritmo simile.
Io sono una grande fan di Fabrizio de Andrè, e spesso mi chiudo a riccio nei confronti delle cover di canzoni del genovese. L'amico che mi regalò questo cd, sapendo queste mie opinioni, previde un particolare fallimento dell'undicesima traccia, pensò che non mi sarebbe mai piaciuta. Quello che a me non piace, l'ho già detto ma "repetita iuvant", è l'atteggiamento di presunzione per il quale, per evitare il confronto con l'originale, si stravolge un brano che non è proprio. Gli Alla Bua, invece, nel brano "Dolcenera", se da un lato si contaminano cantando in italiano, lingua in cui preferirei sentire esprimersi Cinzia Marzo cantante che ha una voce molto più adatta a questi esperimenti, dall'altro riescono a portare, soprattutto nel finale, il brano verso il loro mondo "tarantando" la protagonista e tutti noi.
Subito dopo arriva uno dei brani più scialbi, corti ed insignificanti che io abbia mai potuto sentire. Si intitola "Candida", ed è una ripresa in quartetto, violino, flauto, oboe e fisarmonica, del tema strumentale che divide le strofe di "jeu partu".
Gli ultimi tre brani, anche se sono divisi, sono poi effettivamente un brano unico. Si parte con la struttura innovatrice (Gli Zoè la usano da una vita, ma va bene!) di "Aggiu 'mparatu", pizzica in maggiore dove i pezzi strumentali vanno in minore, per poi arrivare all'insopportabile e fortunatamente cortissima "Martin", che annuncia il meraviglioso e spumeggiante finale di "Mattunaru".
Per quanto riguarda la prima, si può dire che è un altro esempio di brano dove un innamorato abbandonato dimostra tutta la sua rabbia, augurando, molto più esplicitamente di quanto già non si faccia in "Quantave", le peggiori sfortune alla traditrice.
"martin", come mi è stato spiegato da Dario Marti, chitarrista del gruppo, è una parodia, che sinceramente si potevano risparmiare, di quell'approccio, comune nel sud Italia, per il quale la musica popolare, se non è contaminata con strumenti elettrici od elettronici, muore. Il brano, praticamente, è suonato dal tamburello, che esegue una pizzica lenta, e dalla chitarra. La melodia così rovinata, è quella che poi fa da perno del brano che chiude il disco, altra pizzica veloce con strofe sciolte di vario argomento, tutte tradizionali. Il brano "Mattunaru", signori miei, non è assolutamente un canto di lavoro, semmai, l'avvertimento che si fa al costruttore di mattonelle, è quello di far sì che queste non si rompano durante i balli sfrenati delle persone.
Per scoprire gli Alla Bua, si può andare sul loro sito, a noi completamente inaccessibile, all'indirizzo http://www.allabua.it/, oppure su myspace, dove si possono ascoltare anche brani di questo cd, all'indirizzo www.myspace.com/allabua.
Dedico questa recensione, monografia su uno dei cd più festosi che io abbia, a chi, e c'è molta poca gente, invece di fare polemiche strumentali e pretestuose, con la musica popolare ci si vuole semplicemente divertire.
venerdì 1 maggio 2009
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