Carissimi lettori, avrei voluto sbizzarrirmi nel commento di una classifica postsanremese, ma non avendola trovata mi accontenterò di fare una cosa più piacevole e più curiosa, anche se appunto diversa da quello che volevo fare inizialmente. Commenterò la classifica annuale degli album più venduti nel 1968, nelle posizioni che mi appassionano e coinvolgono emotivamente. Vi auguro buona lettura di quello che verrà fuori, dopo aver ringraziato coloro che fanno il sito http://www.hitparadeitalia.it/ per la loro maniacale precisione e grande scientificità.
E' il caso di iniziare con un nostalgico "Che tempi!", perché nelle due prime posizioni troviamo due lp di Fabrizio de Andrè, ma soprattutto perché i "discofili" e "discomani" italiani compravano prevalentissimamente musica nostrana.
Entrando nel vivo la prima posizione è occupata da "Tutti morimmo a stento", secondo album del cantautore, che io, lo dico da deandreiana impenitente, non ho mai amato, eccezion fatta per "La ballata degli impiccati", "Inverno" e "Girotondo". Non mi è mai andata molto a genio, ma non è un problema di De Andrè, è generale, la tendenza a fare della musica cantautorale, che oltre che dare messaggi dovrebbe sempre fare compagnia a chi la scolta, un qualcosa di "altro" da sé con roboanti arrangiamenti e strutture. Per gli stessi motivi, anche se sono album toccati da altri tipi di suggestioni, non riesco a digerire dischi come "Radici" o "Stanze di vita quotidiana" di Francesco Guccini.
Sono felicissima della seconda posizione, appannaggio del primo vinile di Fabrizio de Andrè, che poi è una raccolta di alcuni 45 giri usciti precedentemente. Il disco, intitolato "Volume 1" o "Tutto Fabrizio de Andrè" nell'edizione contenente il brano "Caro amore", è forse, insieme ad "Anime salve", il mio preferito in tutta la discografia del cantautore. Trovo insuperabili, per semplicità e bellezza, quasi tutte le canzoni, incluse le traduzioni da Brassens ed il "pastiche" medievaleggiante di "Carlo Martello".
Al terzo posto troviamo quella che, fino all'arrivo sulle scene di Fiorella Mannoia, che l'ha sicuramente superata negli anni come classe interpretativa e coscienza di repertorio, si poteva comodamente considerare la più grande interprete femminile italiana. Ovviamente ci si riferisce a Mina, che troviamo innanzitutto con questo "Mina alla Bussola dal vivo", primo live dei due incisi dalla cantante, entrambi registrati nel locale viareggino, oggetto anche di una canzone di contestazione, scritta negli stessi anni da Pino Masi ed il Canzoniere Pisano del Proletariato. L'album in questione, che non conosco approfonditamente, è comunque molto bello, specialmente quando tocca canzoni come "La voce del silenzio", uno dei tanti brani ignorati di quella, meritevolissima come molte delle edizioni storiche, edizione del Festival di Sanremo. La versione di Mina mette insieme una pronuncia schietta dell'italiano, con un'interpretazione che miscela benissimo tocchi jazz a una certa assonanza operistica, d'altronde queste sono due grossissime passioni, entrambe palesate di recente dalla cantante.
In quarta posizione ci si trova con Patty Pravo, un'artista a cui non sono legata, ma su cui voglio comunque spendere due parole. L'album trovato in classifica, che porta il nome d'arte della cantante come titolo, contiene almeno tre canzoni famose e degne di essere citate. Da un lato troviamo la melodicissima "Se perdo te", brano difficilissimo e corposo; dall'altro "La bambola", forse il maggior successo della cantante, insieme a "Ragazzo triste". Quest'ultima, lo si sente pure troppo, è una delle tante ispirate ad un certo folk americano che in quegli anni aveva contagiato un po' tutti. I tre brani citati sono abbastanza buoni, ciò che non mi piace di Patty Pravo è questa sua necessità di biascicare le parole, cosa che odio di principio (cambiando genere, dio sa quanto mi arrabbio quando sento i brani degli Officina Zoè e non capisco le parole!).
Quando torniamo a cantare in italiano, dopo la prima sosta durata appena il tempo d'un quinto posto, troviamo il cantante di Monghidoro Gianni Morandi, che come saprete tutti gode di una buona stima da parte mia. L'album che troviamo è "Gianni Quattro", scritto proprio così, con il numero tradotto a parole. E' un disco pieno di brani che, anche se non tutti entrati nella "grande storia della musica leggera", ne fanno sicuramente meritatamente parte. Lo spirito sessantottesco, è sicuramente incarnato da due canzoni emblematiche e bellissime: innanzitutto "C'era un ragazzo che come me amava i Beatles e i Rolling Stones", scritta dal cantautore umbro Mauro Lusini, e da "Un mondo d'amore". I due brani sono meravigliosi, del primo è stupenda, divagando, la versione di Joan Baez, interpretata anche durante Woodstok. Quello che mi ha sempre colpito di "Un mondo d'amore" è la semplicità del ritmo binario, molto italiano ed europeo, che prende nella parte minore e nel finale del brano. E' anche interessante l'accompagnamento ad accordi lunghi del resto della canzone, segno che all'epoca non si scriveva per accompagnare gente che non si poteva permettere di cantare con pochissimo sostegno musicale.
Andando avanti troviamo il "medicantautore" Enzo Jannacci, una colonna sonora fondamentale della mia infanzia perché mio zio ha molti suoi vinili. L'lp che troviamo non credo abbia fatto particolarmente parte della mia infanzia, anche se contiene alcuni brani che l'hanno fortemente segnata, come le insuperabili "Vengo anch'io", che dà il titolo al disco, ed "Ho visto un re". I due brani sono esempi lampanti di uso moderno e modernizzato, senza tradimenti, di schemi popolari. Se ragioniamo da un punto di vista propriamente e freddamente strutturale, infatti, i due brani sono filastrocche più o meno caratterizzate dall'ironia e dalla giocosità. Ho visto un re, poi, la si può considerare, e io ce la considero, una grandissima satira sul livello di rassegnazione della classe popolare e subalterna (scusate questo termine antiquato e ormai tabù!) alle proprie disgrazie. Musicalmente, per quanto riguarda "Vengo anch'io" trovo geniale il fischio che si alza ogni volta che si sale di un semitono.
In ottava posizione troviamo un album di una cantante che io amo molto, anche perché ha segnato in maniera incontrastata un vero ponte tra varie culture, mi riferisco a Dalida, cantante di origine italiana nata in Egitto ma diventata famosa a partire dalla Francia. L'album che troviamo, ancora segnato da numerose "cover", come tutta la sua produzione migliore, porta come titolo il suo breve ma evocativo nome d'arte. Contiene, ben mischiate, cover di brani inglesi ed italiani, incluso un tango all'italiana molto bello scritto e lanciato da Jimmy Fontana ed intitolato "Pensiamoci ogni sera". Bisogna riconoscere che la cantante, almeno fino a tutti gli anni Sessanta, ed anche in gran parte dei Settanta, ha avuto una coscienza incredibile delle effettive caratteristiche della sua voce, limpida ma segretamente sofferta.
Al nono posto ritroviamo Mina, con una raccolta di successi che spazia in tutte quelle che erano le direzioni che la cantante prendeva. Troviamo, infatti, oltre a numerose cover di brani di varia provenienza, anche riletture di brani ingiustamente ignorati in varie edizioni del Festival, che grazie alla cantante sono diventati classici indiscussi della migliore musica leggera nazionale. Nella tracklist del vinile, infatti, figurano brani come "E se domani", Festival di Sanremo 1964, "Se tu non fossi qui", Sanremo 1966. L'unica canzone che non mi convince quasi per niente, anche se ne riconosco la validità e dico un "brava!" a Mina per aver pensato di inciderla, è "La banda", brano frutto della traduzione italiana, abbastanza fedele in verità, della canzone di Chico Buarque "A banda". Ciò che non me la fa amare, è l'anima esageratamente sambistico-carnevalesca data al brano, che nella versione originale è invece un compromesso tra questi ritmi e la malinconia, quella che prende subito dopo la festa.
La prima decina si conclude con le "Hits" dello Zecchino d'oro, manifestazione che non ho mai approvato, perché mette in mostra dei bambini che cantano completamente allo sbaraglio. Fra le canzoni che figurano in questo lp, sono da ricordare almeno "Il torero Camomillo", "Quarantaquattro gatti" e "Il valzer del moscerino", che ha fatto iniziare la promettentissima carriera della cantante per bambini che più di ogni altra ha traumatizzato la mia infanzia, Cristina D'avena.
Quando si torna in Italia, dopo l'undicesimo posto affidato al grande gallese Tom Jones, si sente cantare Brassens in Milanese. L'lp in questione, inciso con un accompagnamento più ricco rispetto alle versioni originali del cantautore francese, è di Nanni Svampa, grande musicista e cabarettista milanese che, dopo la fine dell'avventura con i Gufi, si è dedicato anima e corpo alla traduzione del cantautore provenzale sia in vernacolo che in italiano. Va specificato, però, che questo lp è ancora del periodo in cui questa attività non era predominante nella vita di Svampa. Tutte le traduzioni vernacolari di Brassens operate da Svampa, si possono comodamente reperire in un doppio cd meraviglioso intitolato "Il canta Brassens", mentre quelle italiane, incise prevalentemente di recente, sono raccolte nel doppio, secondo me meno riuscito, "donne, gorilla, fantasmi e lillà". Continuando la divagazione, voglio ricordare che Nanni Svampa è stato artefice dell'unico spettacolo mai realizzato in Italia con tutti gli interpreti di Brassens nelle varie lingue europee. Lo spettacolo, realizzato a Milano e ripreso dalla rai per il decennale della morte del cantautore francese nel 1991, contava tra gli altri con Paco Ibáñez, musicista spagnolo che si è concesso le traduzioni di Brassens, edite poi nel 1980 in un intero vinile, come unica divagazione dalla sua missione di divulgatore della letteratura nella sua lingua.
Nel periodo storico a cui ci stiamo dedicando, fortunatamente non esisteva una sola compilation dedicata al Festival di Sanremo, ma ve ne erano varie differenti a seconda delle case discografiche che le producevano. Al tredicesimo posto, innanzitutto troviamo quella della CGD. La maggiore curiosità di queste compilation è data dal fatto che, laddove i brani portati al successo al Festival fossero stati cantati da cantanti che non militavano nella rispettiva casa discografica, questa ricorreva ad artisti del proprio catalogo per far loro incidere versioni dei brani. In questo caso, oltre a trovare ad esempio la versione di Roberto Carlos di "Canzone per te", completamente normale dato che il brasiliano aveva fatto effettivamente coppia con Endrigo a quel Festival vincendolo (che tempi!), ci si trova con una versione, che sarei sinceramente curiosa di sentire, di "Casa Bianca" da parte dei Camaleonti, o de "La tramontana" da parte dei Profeti. Mi viene già più facile immaginare Massimo Ranieri che canta "Canzone", anche se trovo talmente mirabile la versione di Don Backy che sarebbe difficile che io me ne innamorassi, nonostante la mia notevole passione per il periodo giovanile del napoletano.
Anche il quattordicesimo posto è appannaggio di una compilation dedicata al Festival di Sanremo, quella prodotta dalla Fonit Cetra. Vi ritroviamo la canzone vincitrice nella versione originale, quella di Endrigo, "Casa Bianca" la ritroviamo nella versione di Marisa Sannia, mentre di curiosità vi sono quantomeno la versione della cantante sarda di "Quando mi innamoro" o quella di Gianni Pettenati de "La tramontana.
Il quindicesimo posto è un'altra piccola vacanza dall'italianità, quindi non ce ne occupiamo. Quando si torna a cantare in italiano, o meglio a parlare di dischi frutto di programmi della Rai, troviamo questo sunto della "Hitparade", edito dalla Cgd. Non è un gran disco, non c'è un granché da segnalare, segnalerò solo "Ho difeso il mio amore", uno dei tanti brani frutto di "traduzioni adulterate", qui reperibile nella versione dei Profeti.
Subito dopo troviamo l'album dei Camaleonti, il cui titolo prende spunto dalla canzone "Io per lei", che non ha neanche lui un granché da segnalare. Troviamo solo due brani che amo moltissimo, che sono "Applausi" e "L'ora dell'amore", versione italiana di un noto brano di un altrettanto noto gruppo inglese, di cui non posso riportare il nome sennò sbaglio la scrittura (ho un po' fretta, ve lo dico in sincerità).
Andando avanti, bisogna arrivare al ventunesimo posto per riparlare in italiano, questa volta grazie ad Ornella Vanoni, cantante che a me, come ho già detto, non piace molto. Le uniche due canzoni da segnalare nell'album presente, per lo meno per quanto lo conosco io, sono "Tristezza", comunque abbastanza deludente, e "La musica è finita", capolavoro scritto da Franco Califano ed Umberto Bindi. L'album, mi ero dimenticata di dirlo, si intitola "Ornella Vanoni".
Ritroviamo, andando avanti, un'altra volta la "tigre di Cremona", con un lp di cover intitolato "Dedicato a mio padre". Non conosco nessun brano dell'lp, quindi non ne posso parlare.
Al ventitreesimo posto, ed è per questo che mi ci soffermo, troviamo il gruppo inglese di cui prima non ho riportato il nome, l'ottimo gruppo di rock progressivo e sinfonico Procol Harum, con l'album omonimo, che non contiene nessuna delle canzoni che i gruppi italiani portavano al successo in quello stesso anno, segno che erano già state pubblicate in lp precedenti.
Al venticinquesimo posto si reperisce una compilation di brani estivi, intitolata sintomaticamente "Musica d'estate" ed edita dalla VDP, che va segnalata per la presenza all'interno della sua tracklist, di un brano di Francesco Guccini che si ritroverà, in versione live, nell'lp del pavanese "Opera buffa" (1973). Il brano in questione è "Il bello", tango "all'italiana", tra le cose più simpatiche mai scritte dal cantautore. Se ne ricorda, anche, una versione da parte di Lando Buzzanca.
Così finisce questo percorso, perché l'ultimo lp presente è un disco strumentale, genere che allora aveva perfino spazio nelle classifiche, cosa che oggi avviene solo se ci si chiama Giovanni Allevi e si fa una delle musiche meno interessanti da me mai sentite.
Spero che vi sia piaciuta questa mia idea, ogni tanto un po' di storia non fa male.
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