giovedì 30 aprile 2009

Aramirè "Sud est"

Carissimi lettori, voglio parlarvi ora di un altro cd fondamentale per la mia formazione. Ne approfitterò, così, per fare un omaggio al primo gruppo di musica popolare salentina che ho mai sentito, i già spesso citati Aramirè.
Il cd di cui parliamo si intitola "Sud est", ed è l'unico non autoprodotto dal gruppo. Risale al 2001, quando la moda della pizzica stava già iniziando.
Il primo brano del cd, "Sta strata", è una pizzica a "botta", voce e tamburo, tradizionale come tutto il repertorio del cd. E' interpretata con grande maestria dalle quattro voci, tutte maschili, del gruppo. E' un brano d'amore, che purtroppo nessuno ha ripreso.
Subito dopo arriva "Aremu", uno dei più bei canti in griko, dove si chiede alla rondinella, spesso messaggera d'amore, di raccontare la sua storia. L'arrangiamento del gruppo, come quasi tutti quelli che ho sentito, è deludente. E' molto raffinato, questo non si può negare, ma forse andrebbe meglio in un disco di jazz piuttosto che in uno di musica popolare. Va detto anche che la voce di Roberto Raheli, leader del gruppo e unico interprete del brano, forse non è particolarmente adatta.
Subito dopo arriva una versione di "Fior di tutti i fiori", brano che il gruppo integra con alcune strofe, sempre a metrica di stornello, tratte dal repertorio degli "Ucci", insieme di cantori a cui gli Aramirè sono particolarmente debitori. Questa versione, così come si farebbe in una vera e propria stornellata, è interpretata da due voci, Raheli e Chiriatti, che si rimpallano le strofe. Le parti di Chiriatti, ad ogni finale, sono sostenute dal controcanto di Alessandro Girasoli, che insieme all'albanese Admir Schurtaj, attualmente professore di musica, suona la fisarmonica. Questa versione, devo dire, mi risulta un po' pesante perché trovo molto pretenziose le parti di fisarmonica, che esegue dei controtempi mentre il tamhburello di Chiriatti e i campanelli di Castrignanò, fanno sì che il brano abbia una connotazione quasi "esotica", comunque inclassificabile, che non capisco cosa c'entri.
Subito dopo, arriviamo ad una versione di "'Ntunuccio", interpretata insieme al gruppo Giro di banda diretto dal trombettista Cesare dell'Anna. Riesco a capire il fatto che gli Aramirè abbiano voluto fare un omaggio a quella tradizione bandistica del Salento, così importante nell'acculturazione musicale della gente, ma questa presenza appesantisce abbastanza il brano, di cui, gli stessi Aramirè, hanno pubblicato una bellissima versione tradizionale nel libro + doppio cd "Il salento di Giovanna Marini".
Il brano, comunque, è uno dei pochi canti narrativi che ha avuto l'onore di essere riproposto, più spesso rovinato, come dagli Adria, che nel loro progetto "Rotta per Otranto" ne hanno fatto una versione rock completamente insignificante.
Subito dopo arrivano degli stornelli di tematica amorosa, interpretati con la melodia, controcanti quasi inclusi, degli Ucci. Il brano si intitola "Quanto me pari beddrha", e permette di scoprire, a chi magari lo conosce solo per essere stato l'autore della bellissima colonna sonora di "Nuovo mondo", l'infinita bravura di Antonio Castrignanò, che nei primi due cd degli Aramirè (questo è il secondo) dà sicuramente un impagabile esempio di come si suona e si interpreta. La sua specialità sono i canti alla carrettiera, oltre ad una terzina di tamburello fra le più belle del salento.
Di seguito arriva la migliore pizzica "tarantata" (si intitola "Pizzica con violino"), che a me sia stato mai dato di sentire. In questo brano, inciso con la collaborazione del grandissimo organettista romano (ma brindisino d'adozione) Mario Salvi, c'è tutta la forza della tradizione. In gran parte, specialmente gli interventi del cantante tamburellista e ricercatore Luigi Chiriatti, il brano è ispirato alle melodie di Stifani, che tra strofa e strofa vengono eseguite dal violino di Raheli, che ha imparato semplicemente ascoltando gli anziani (così dovrebbe fare chiunque volesse davvero fare musica popolare).
La voce di Chiriatti, sicuramente tra le più autentiche anche perché lui stesso è parente di suonatori tradizionali, qui esprime veramente tutta la forza del vero canto salentino, quello a voce piena ("minata"). Penso che il livello di trance a cui si arriva ascoltando questa pizzica, sia assolutamente fuori dal comune, anche perché tutto terzina, ma senza il "barocchismo" di alcune versioni di "riproposta", quella del già recensito "Terra" degli Zoè in primis.
Dopo un mirabile assolo di violino, che chiude simbolicamente la parte che più o meno monograficamente è dedicata a Stifani, si arriva ad alcune strofe, cantate da Raheli con il sostegno nei finali di Girasoli, tratte dal repertorio di Cosimino Surdo, anziano che era tra i pochi, negli anni '70' a ricordarsi come si suonasse il tamburello. Cosimino, poi, nel documentario "Il sibilo lungo della taranta" di Paolo Pisanelli, eseguirà una versione molto curiosa e personale di alcune strofe scritte dagli Aramirè contro il fenomeno della notte della taranta.
Il brano, purtroppo, si conclude nella maniera più innaturale, moderna e pretenziosa che si potesse immaginare. Dopo una piccola parte tamburello e chitarra acustica, già insopportabile, si arriva ad una parte a "botta", quindi con uno stile molto tradizionale, dove però le voci vengono usate con degli intervalli di seconda aumentata nei controcanti, che non ho mai potuto riscontrare negli anziani, non particolarmente belli da sentire.
Subito dopo questo capolavoro, arrivano due dei brani più brutti e deludenti del cd. Il primo è una lentissima versione di "Ferma zitella", la cui versione tradizionale, sempre pubblicata dagli Aramirè l'anno successivo nel doppio cd "Musiche e canti popolari del salento", è molto veloce, troppo, ma qui siamo troppo all'altro estremo. Oltretutto, le armonizzazioni di fisarmonica, basate su una ripetizione quasi organistica di un fa diesis, aiutato da altre note, sinceramente le ritengo insopportabili. Anche il canto, devo dire, non riesce assolutamente a far capire il romanticismo di questo canto, che è stato reso mirabilmente, invece, nel già recensito "Crita" dagli Officina Zoè.
Proseguendo arriva uno dei brani più rovinati della tradizione (o quasi) salentina. Il pezzo si intitola "Kaly nifta" ed io, proprio da questa versione, capii che era molto bello. Non so, sinceramente, però, spiegarmi come abbia potuto fare. Il ritmo è un miscuglio fra una tammurriata campana, un tango argentino e qualcosa che non saprei definire; il canto è qualcosa di vergognoso, soprattutto da parte di un gruppo il cui leader, in seguito, tuonerà in varie occasioni sulla necessità di dare importanza al testo. E' una serenata, dove un uomo, dopo aver visto che la sua innamorata, certamente molto antipatica, non s'affaccia dice molto amareggiato che "Dovunque io vada, mi spinga o rimanga, tu sarai sempre con me".
Arriva poi il momento de "Lu rusciu de lu mare", brano che Aramirè esegue in due parti molto evidenti, diverse e separate.
La prima, ripresa più o meno dal già citato repertorio salentino di Giovanna Marini, è una parte molto colta, dolce, e voglio anche dire ben fatta, anche se la presenza delle due chitarre che dialogano la rende un pochino pretenziosa.
Con questo ritmo il gruppo non esegue l'ultima strofa, che viene interpretata, come tutto il resto, con un ritmo mediterraneo, in verità abbastanza insulso.
In tutto questo, si vede che il gruppo sente come qualcosa di estraneo i ritmi mediterranei, che non sa né eseguire con gli strumenti, né tantomeno interpretare a livello di canto. Il giro, del tutto simile alla terza parte della versione del già recensito e qui citato "Terra" (casualità?), è di un pretenzioso che veramente tocca l'insopportabile, oltretutto il tentativo di Raheli di eseguire un vocalizzo arabo, fallisce miseramente perché non è in grado di gestire il fiato e respira troppo presto.
Subito dopo, sempre in nome di questa gratitudine agli "Ucci" di cui è pieno il cd, arriva "Santa Cesarea". E' un canto narrativo, in italiano, che interpreta Raheli, con il fondamentale controcanto di Antonio Castrignanò.
Un altro esempio di canto narrativo, sempre eseguito sulla base del testo e della melodia degli Ucci, intitolato "Scusate signor Conte". Non voglio raccontarvi la storia, perché anche questa è in italiano. Meritano particolare menzione gli intervalli di terza, forse particolarmente ed esageratamente rigorosi, interpretati dalle voci maschili (Raheli, Chiriatti e Castrignanò).
Subito dopo arriva un canto curiosissimo e simpaticissimo, intitolato "Pinna ponna", liberamente ispirato ad alcune grida di venditori ambulanti. E' una tarantella eseguita con tamburello, chitarra, fisarmonica e cupacupa.
Subito dopo arrivano degli stornelli, interpretati alla maniera degli "Ucci", ossia nel modo che Antonio Aloisi, unico sopravvissuto del gruppo, definisce "salentino". Qui, contrariamente al "Fior di tutti i fiori", non assistiamo ad un duetto-duello di cantori, ma a Raheli che canta strofe, i cui finali vengono riecheggiati da Castrignanò e Girasoli, che si controcantano.
E' un brano tra i più belli di questo cd, che, nonostante le numerose caratteristiche che non amo o non condivido, continuo a ritenere tra i migliori mai incisi.
Subito dopo arriva "Fimmene fimmene", in una versione che come struttura vocale, mi convince pienamente, soprattutto per una interessante triade di voci che ottiene un bellissimo accordo di settima, molto tipico dell'accompagnamento delle pizziche, ma molto poco utilizzato nei canti a cappella.
Il brano, cosiccome la versione degli Officina Zoè di cui si è già parlato nell'articolo precedente, si conclude con delle insopportabili strofe sul tarantismo addirittura portate a pizzica.
Subito dopo, a conclusione del cd, come in un ideale cerchio, arriva la terza pizzica, una pizzica tarantata suonata in maniera lenta, dove il violino quasi non si sente perché è suonato piano. Paradossalmente, qui è più importante il sostegno del tamburello, della chitarra e della fisarmonica, piuttosto che il canto del violino. Se si vuole cercare una fonte per questo brano, si può pensare alle ultime in cisioni di Stifani, molte delle quali sono state pubblicate, sempre dagli Aramirè, nel cd allegato al libro "Io al santo ci Credo."
Questo cd lo vorrei consigliare, perché dimostra come si possa andare avanti, davvero, rispettando altrettanto sinceramente il passato.

lunedì 27 aprile 2009

Officina zoè: Terra

Carissimi lettori, voglio togliermi una spina dal fianco, oltre a sancire il mio debito di gratitudine con un cd che non riesco ad ascoltare ormai da diverso tempo. Mi riferisco a "Terra" degli Officina Zoè. Questa non sarà una recensione dove si citino i menhir o i messapi, si parlerà concretamente, con un certo trasporto ma scientificamente di musica salentina, tramite una delle sue vette.
Il cd, ed è uno dei motivi che lo fa amare tanto a persone che solo per questo si ritengono cultori di musica popolare, è stato inciso, completamente autoprodotto perché ancora la musica etnica non faceva gola agli amministratori locali, dal gruppo tricasino Officina Zoè. L'album è del 1997, quindi viene prima della tarantamania, e si può dire, credo non a torto, che molti scempi fatti alla Notte Della Taranta, nella parte leggera del concertone, siano frutto di interpretazioni distorte o sommarie delle idee che vi si espongono. Non è, infatti, un cd dove il folklore non sia sfidato a convivere sia con il passato profondo che con il presente del Salento. Non è sicuramente un disco da cartolina, né è vittima, però, di questo cliché tipicamente tarantapoweriano, del "bisogna contaminare con la contemporaneità". Piuttosto, dimostra ai signori su citati, che qualsiasi suono, anche un oud mediorientale, può essere contemporaneo, per il solo fatto che si scelga di inserirlo in modo creativo in una musica che non gli appartiene per storia, i cui geni, però, gli sono molto vicini.
Io sono grata a questo disco, per avermi insegnato a creare rispettosamente, a rielaborare senza stravolgere troppo il passato di una musica che ha già almeno ottocento anni di storia, da cui, spesso, dall'alto della nostra maledetta contemporaneità, non vogliamo imparare più niente.
La formazione dell'"Officina" che lo ha inciso è, e questa è la ragione principale del mio allontanamento, troppo "sbilanciata" verso le percussioni (addirittura nelle pizziche, oltre ai due tamburelli che battono molto forte, troviamo anche le nacchere ed i cucchiai che eseguono una terzina completa) ed i plettri, mancando completamente di strumenti a mantice, che secondo me sono l'elemento fondamentale del nostro folklore. Credo poi che il gruppo sia stato un po' sommario, facendoci immaginare le pizziche come qualcosa di molto ripetitivo anche a livello di improvvisazioni all'interno dei brani. E' vero, spesso e volentieri Stifani faceva sempre lo stesso giro di "tarantata", ma la riproposta ha il dovere di ampliare lo spettro, mostrandoci le principali melodie di una tradizione, non solo quelle del maestro che il suonatore ha concretamente avuto.
Nonostante questa pleiade di difetti, che potrebbe far pensare ad una stroncatura completa, ovviamente questo non me lo posso permettere, perché, se io suono ciò che suono durante una pizzica ed ho un certo spettro di "ricreazione" del genere, lo devo in grandissima misura a questo cd.
Voglio quindi portarvi, brano per brano, anche utilizzando il linguaggio tecnico, perché non è detto che chi non è musicista debba restare ignorante di musica.
Il cd si apre con quello che è stato il primo brano da me ascoltato degli Officina Zoè, "Santu Paulu I". In questa pizzica, suonata qui con una breve parte accompagnata dalle corde prima dell'entrata dell'ensemble completo, c'è un sapientissimo riassunto, non manca neanche una fase, del percorso che faceva la "tarantata", (non sto qui a spiegarvi cos'è, provate a dare un'occhiata al web e vedrete che cercando tarantata o tarantismo verranno fuori una miriade di risultati, spesso scadenti ma bastevoli a capire), dal morso alla possessione, arrivando poi alla guarigione. Qui, come nelle prime quattro pizziche del cd, è fondamentale il violino di Ruggero Inchingolo, tra i primi ad aver imparato dal barbiere violinista. La melodia del brano, anche per il successo del cd che ormai si continua a vendere ininterrottamente da anni, è diventata una delle più toccate, rifatte e rovinate della tradizione salentina. Tra le strofe, per dimostrare che l'"Officina" fa ricerca e non copia dagli altri, mi va di segnalare una interessante coppia di versi ripresi direttamente dalla "Terra del rimorso" di De Martino, il quale a sua volta la riprende da uno scritto del '600. Nella strofa, con la solita semplicità disarmante che ha chi ha studiato poco, si semplifica tutto il tarantismo, che vi giuro è complesso, al semplice effetto di una bevuta di troppo. ("Non fu taranta né fu tarantellaca fu lu vinu de la garrettella").
Con questo, però, non si arriva a quelle teorie di negazione del fenomeno che certi studiosi mettono in giro per non averlo capito, se ne relativizza l'entità, il che è molto diverso. In questo brano, interpretato come voce solista dalla leader del gruppo (lei si arrabbierebbe molto ma questa è la verità) Cinzia Marzo, vi è , alla fine, una ripresa del tipico giro che Luigi Stifani, ultimo musicoterapeuta del tarantismo, eseguiva per curare le tarantate. La Marzo, qui, ne dà un esempio vocale, ispirandosi, anche se inserendosi in tutt'altro contesto, alla pizzica voce e tamburo, con soli vocalizzi, eseguita dalla tamburellista "storica" di Stifani, Salvatora Marzo.
Subito dopo arriva una delle versioni più mirabili (per me è la più mirabile, bando agli indugi!) di "Quannu camini tie". Questa è una serenata, che secondo quanto dice l'"Officina" è ispirata ad un canto di carrettieri, risalente addirittura a quando ancora il popolo non si era convinto del fatto che la terra girasse ed il sole stesse fermo. ("Me fa girare comu gira lu sule"). Io non conosco versioni tradizionali di questo brano, ma trovo che questa sia perfetta, in quanto qui si crea un'armonia tale tra musica e testo, che la barriera linguistica, che per chi non è abituato al salentino è davvero forte, viene distrutta. Oltretutto, nonostante che il brano sia cantato da una donna mentre è connotato come un brano di corteggiamento, attività storicamente eseguita da uomini, non perde assolutamente la sua aria inequivocabilmente romantica. Anzi, si può dire, che tra gli arabeschi del canto, già preparatori delle libertà che Cinzia sta imparando a prendersi ultimamente, che poi sono completamente nello spirito della vera tradizione, e le scale arabe, con il quarto grado aumentato di un semitono, presentate dall'oud di Inchingolo, si crea un unicum magico, che attira il brano verso il passato più antico del Salento, andando però anche verso il suo presente. Qui, ed il merito va riconosciuto sia a "Zimba" (storico tamburellista del gruppo scomparso poco più di un anno fa, qui incaricato di suonare le nacchere) che a Lamberto Probo (incaricato, credo, di suonare i tamburi a cornice), le percussioni dànno semplicemente un tappeto affinché le corde possano dialogare con la voce.
Subito dopo, arriva una "pizzica tarantata", esempio dei giri tipici di Luigi Stifani. E' strumentale, la si esegue con molto impeto, ma forse di tradizionale c'è ben poco. Il grande merito del brano, è che, tra le versioni di "riproposta", è l'unica a contenere un'intervallo di seconda aumentata, che Stifani eseguiva regolarmente, che non viene mai ripreso nemmeno dai signori che tutt'ora eseguono questo pezzo con il violino scordato (cacofonia pura!).
Eccoci all'unico brano in grecanico (lingua sulla cui origine si sa poco, molto simile al greco antico), intitolato "Nia, nia, nia". Il pezzo in questione, e va precisato perché uno dei pezzi più rovinati e comuni della tradizione salentina è la pizzica dallo stesso titolo, non ha niente a che vedere con quella filastrocca scanzonata, la cui migliore versione è quella del cd "Stella lucente" degli Alla Bua. Il brano griko di Zoè, è una delle più accorate ninnenanne che io conosca, che fa capire quanta importanza questo genere avesse nel mondo tradizionale. E' una madre che, per addormentare i suoi figli, augura loro di avere una sorte migliore di quella che le è toccata. Il gruppo, in questa versione, dà letteralmente, per lo meno sul fronte strumentale, una lezione impagabile su come si fanno le serenate o i pezzi dolci in genere. A livello di canto, invece, trovo che la voce di Cinzia sia un po' troppo potente, rinunciando, e data la sua proverbiale timidezza potrei dire vergognandosi, della dolcezza che le è consona.
Si prosegue poi con un brano di cui ignoro versioni tradizionali, intitolato "Canuscu na carusa". Penso di non sbagliarmi troppo, se dico che la versione che descriviamo è la prima "riproposta". E' interpretata a pizzica, con la voce solista di Lamberto Probo, tamburellista di Zoè. L'interpretazione non è delle migliori, mi scusasse la sincerità, perché vi sono numerose stonature, che in un contesto di esibizione "spettacolare" di musica contadina sinceramente reggo poco. Il testo, comunque, è uno dei tanti di corteggiamento, poco romantico ed un po' malizioso ed esagerato, presenti nella tradizione popolare.
Subito dopo troviamo il primo brano interpretato da Raffaella Aprile, una delle prime componenti degli Zoè "storici" a gettare la spugna. Il brano, ripreso paro paro a livello di testo e melodia dall'"Italian treasury Puglia: the Salento" di Alan Lomax, è una tarantella maliziosa, che in Zoè acquista una raffinatezza forse esagerata, data anche dai dialoghi magari un po' pretenziosi tra oud mediorientale e mandolino italiano.
Ecco qui "Lu rusciu de lu mare", cavallo di battaglia di qualsiasi gruppo che faccia questo genere di musica. Questa ballata, di cui non si sa più di tanto sull'origine, è un po' "turchesca", quindi Zoè ci ha giocato, facendo un arrangiamento dove la tradizione salentina scompare, per volatilizzarsi nel suo passato più antico e profondo. Non so descrivervi i ritmi che Zoè usa, rischierei di andare troppo lontano con la mente e la fantasia, quindi andiamo avanti.
Nel Salento, lo si fa ancora ma ora lo fanno gli emigrati, i nostri nuovi schiavi, si raccoglieva il tabacco. L'officina Zoè, come ottava traccia del cd, ci regala una commovente, anche se magari non perfetta, versione di "Fimmene fimmene", canto che si cantava durante questo faticosissimo ma ispiratore lavoro. Il brano, come molti di questi popolari, non ha né un numero di strofe né un argomento predefiniti. Quindi, a partire dagli anni '70, quando si è insomma iniziato a fare "riproposta", si è mischiato un po' del contenuto originale del brano con strofe ispirate al tarantismo. Sin da quando ebbi terra, questo fu uno dei motivi che non mi fece amare questo brano, anche se io non ero cosciente della possibilità di fare di questo motivo un qualcosa di veramente rivendicativo o comunque lavorativo. Sono molto grata, nonostante tutto, a questo brano, poiché mi ha dato, involontariamente, l'idea dell'accompagnamento musicale della mia "Preghiera allu ientu", che circa un mese fa ho postato in questo stesso blog.
Subito dopo, e questo è uno dei momenti migliori del cd, arriva Santu Paulu II. E' una pizzica che, iniziando a cappella, come se fosse una preghiera fatta nella cappella di Galatina, (luogo dove si recavano le tarantate per chiedere la fine del male al loro santo protettore), diventa poi, piano piano, un'irruentissima pizzica, con voce solista di Lamberto Probo. L'"Officina", e si sente sin da questo primo disco, ha sempre voluto rispettare, ampliandola, quella convenzione più o meno standard, secondo la quale, in pizzica, gli strumenti entrano ognuno secondo un preciso turno d'entrata. A differenza dell'altro "Santu Paulu", questo non può essere tanto vincolato al tarantismo, quanto ad un gruppo fondamentale, se si vuole cercare un "anello" tra tradizione (ossia musica acustica suonata da dilettanti, radicata in un determinato territorio e legata a determinati usi), e riproposta, reinvenzione spettacolare di un repertorio, eseguito spesso al di fuori dei luoghi e delle date tradizionali. Il gruppo in questione si chiamava "Gli Ucci", ed è stato mirabilmente "ritratto" dalle Edizioni Aramirè nel cd "Bonasera a quista casa".
La cultura salentina, tarantismo incluso e soprattutto, ha avuto il suo motivo di esistere nella maniera così ben studiata, grazie alla mancata emancipazione della donna. Un brano che la rivendica, senza violenza perché ci è completamente estranea, per fortuna, è "La turtura". Il brano è una metafora, che Zoè forse non sa rendere con la nitidezza di "Quannu camini tie", ma anche questo è un brano al quale sono molto legata, anche se purtroppo, bisogna capire il dialetto per apprezzarlo. Infatti, neanche la casa discografica Anima Mundi, che ha curato un'ottima edizione di questo cd, ha pensato di pubblicarne i testi con la traduzione a fronte.
Subito dopo arriva "E lu sule calau calau", brano molto simile al noto "Sciur padrun da li beli braghi bianchi". Nei due brani, infatti, vi sono lavoratori che reclamano stipendio, ma credo che le minacce che elabora il salentino nei confronti del suo padrone siano insuperabili (Ci nun me ne porti [i soldi] me settu 'n terra e fazzu carotti). L'interpretazione che ne dà il gruppo, è divisa in due parti molto evidenti. La prima, completamente a cappella, è costituita solo da due strofe, le prime del canto, mentre poi si arriva ad una tarantella (non ad una pizzica, perché in verità le due forme musicali sono simili ma non uguali), introdotta da una bellissima, e purtroppo poco usata nel Salento, tammorra muta. Questo trucco, ad una persona coscienziosa, permette di non dimenticare la tristezza dei lavoratori, comunque presente, mentre magari se la spassa e si balla il brano.
Il cd si chiude con un omaggio all'insuperabile "Simpatichina" Niceta Petrachi, con la "sua" "Pizzicarella", brano che ormai è diventato talmente comune, che i signori della polemica, che in Puglia purtroppo sono tanti davvero, non la eseguono più. L'"Officina" in nome della sua proverbiale filologia, la esegue, a livello di testo e melodia, così come la si trova nel doppio cd "Musiche e canti popolari del Salento" delle Edizioni Aramirè. Questa versione è interessante perché ci permette di ascoltare uno strumento che ha di recente, circa una novantina di anni fa, grazie al ritorno di numerosi salentini dai fronti di guerra del nord Italia, affiancato quello che è il grande assente di questo cd. Lo strumento di cui si parla è l'armonica a bocca, spesso chiamata in dialetto "organetto a bocca", il grande assente è invece l'organetto, chiamato spesso in dialetto "organetto a mano". Il cd, dopo la mitica chiusura a quindici colpi di tamburello tanto caratteristica dell'"Officina", si conclude, in senso assoluto, con un grido di "Zimba", che a me dà delle emozioni del tutto particolari, perché mi ricorda una bellissima serata passata con lui, che magari vi racconterò in futuro.
Spero che con questa recensione, dato che sono pochissimi i cultori di musica popolare salentina che non hanno questo cd, otterrò solo di trovare in giro un testo che non lo idolatri ma ne parli con obbiettività, mettendo a nudo le conseguenze, non tutte positive, che esso ha avuto.

domenica 26 aprile 2009

Ve ne parlo ancora

Carissimi lettori, voglio battere un'altra volta il tamburo (come sempre a cornice!) su un tasto dove non mi stancherò mai di mettere le mani: siamo sicuri che la musica tradizionale debba essere portata nella contemporaneità contaminandola con le musiche che le sono più lontane, ad esempio con la tanto amata musica elettronica?
Ho appena ascoltato i Rione junno, gruppo garganico che aprirà l'edizione di quest'anno del Pisa Folk Festival diretto da Vincenzo Santoro. Il gruppo, che ormai da diversi anni fa parte del circuito Taranta Power, creato da quell'opportunista di Eugenio Bennato che è tornato alla musica etnica solo quando se ne profilava la moda, è l'esplicazione più perfetta di quella filosofia: prendiamo il passato per quello che ci interessa, derubando gli anziani della loro memoria, ma per portarlo verso la contemporaneità facciamolo sparire.
Questo gruppo, ascoltabile su myspace all'indirizzo www.myspace.com/rionejunn0, dice di usare alcuni strumenti acustici del gargano (chitarra battente, tamburello, mandola), ma vi giuro che sono talmente elaborati e filtrati dalla sensibilità elettronica e computeristica, che neanche si riconoscono!
I brani del gruppo, ne ho sentiti solo due perché più non ce la facevo, sono brani tradizionali, lo si capisce perché parlano con quella delicatezza e deferenza che noi oggi tanto dovremmo riacquistare, ma sono effettivamente pura musica elettronica (preferivo i primi Nidi d'Arac che per lo meno facevano sentire la fisarmonica e lu tamburreddu!).
Sinceramente, per lo meno secondo me, facendo così si arricchisce la musica elettronica con un po' del nostro passato, sputtanando però questo passato stesso. Vi immaginate che putiferio si creerebbe se si decidesse di rielaborare Bach o Bethoven con questa filosofia, o anche solo di portare la musica classica fuori dai conservatori ed insegnarla per strada come si faceva con la musica contadina?
Va bene che, da noi, c'è questa credenza per la quale la musica contadina, essendo orale, può essere cambiata e modificata a piacimento del "suonatore" (tanto lo facevano gli anziani!).
Invece, signori miei, questo repertorio ha le sue regole ferree, che le comunità tradizionali non si sognerebbero mai di infrangere. Credo che, per far finire questi deplorevoli fenomeni, ci vorrebbe una vendetta: che effetto farebbe ai signori Rione Junno, Triace, Nidi d'Arac ecc il sentire una bellissima canzone dei Rolling Stones suonata con gli strumenti della nostra tradizione?
Tornando alla contemporaneità della musica popolare, io consiglierei a questi signori di non sfruttare più gli anziani, di comporre pezzi, magari ispirati a questa stessa tradizione (in dialetto, con gli strumenti acustici, che qui non si sa dove sono ma ci sono, ecc), ma comunque di loro pugno. Trovo infinitamente più contemporaneo il progetto di rock (con matrice folk anche perché lui è uno dei più grandi tamburellisti del Salento) di Umberto Papadia, ascoltabile sempre su myspace all'indirizzo www.myspace.com/upapadiaonline, oltre ai ripetutamente citati Aramirè di "Mazzate pesanti" (puru ci ulia tantu le mazzate li sciane rreta).
Se proprio pensate che la musica popolare salentina (o di qualsiasi posto) non sia adatta per raccontare il presente, "lassatila muriri".
Leggo spesso su http://www.pizzicata.it/ che negli altri paesi esistono progetti che fanno cose simili a quelle che in questo post ho deplorato. Bene, a questi signori, specialmente a Giovanni Semeraro, vorrei ricordare che ce ne sono anche molti acustici, e che comunque, quando si suona la musica popolare, negli altri paesi la tradizione non la si conosce solo per averla appresa dagli anziani, ma la si rispetta anche.
Mi sarebbe molto difficile, infatti, girare per i paesi di cui amo la musica, e trovare un equivalente dei Rione Junno o gruppi simili alle Triace. Devo dire, poi, che in coerenza con quanto affermato sopra, io non chiamo musica popolare tutto quello che si crea a partire dal nostro passato, specialmente se questa matrice è ridotta ad un canto falsamente stonato e poco più. Quella, secondo i casi, diverrà jazz, musica elettronica, ecc.

venerdì 24 aprile 2009

Un po' di 25 aprile

Carissimi lettori, mi va di fare una riflessione musical-politica sul giorno che vivremo domani: la festa della nostra liberazione dal fascismo (dal primo fascismo, perché da quello che c'è adesso la liberazione è ancora lontana). Confronterò la nostra situazione con quella del Portogallo, paese che ha chiuso la sua dittatura nello stesso giorno, anche se trentun anni dopo di noi.
Posso capire che una persona si possa scordare i piccoli o grandi eventi della propria vita, ma quando un popolo inizia a dare per scontate le circostanze che gli permettono di vivere la vita che vive, è sicuramente grave. Da noi, in questa cosiddetta democrazia, parlare di 25 aprile, o anche solo di canti partigiani, è tabù. Quando dico parlare di canti partigiani, non intendo ovviamente le interpretazioni che se ne dànno come se fossero brani qualsiasi, ad esempio la travolgente ma bruttissima versione di "Bella ciao" dei Modena City Ramblers, ma far capire lo spirito di lotta che c'era dietro. Forse, e non sto spezzando una lancia a favore di Berlusconi o del revisionismo, in una società patinata come la nostra, imbevuta di televisività ed immagine ad ogni costo, il fatto che noi possiamo aver sofferto fa troppo male. Io, personalmente, mi emoziono ancora quando sento Maria Carta, grandissima cantante sarda che spero non sia parente di Marco, che nell'lp "Vi canto una storia assai vera", canta con vero trasporto alcuni canti politici tra cui "Figli di nessuno". Questo canto partigiano, bellissimo, racconta il disprezzo di cui si sentivano vittima i partigiani durante la lotta di liberazione, ma credo che si possa interpretare, con le dovute modificazioni, anche come sintomo dell'attuale disprezzo per ogni forma di libertà.
Situazione tutta diversa, è quella del Portogallo. In questo paese, tramite la rivoluzione dei garofani, il 25 aprile 1974, si dette fine ad una delle più lunghe dittature europee, quella inizialmente capeggiata da António de Oliveira Salazar, sostituito poi da Marcelo Caetano. Negli ultimi quindici anni di dittatura, sono partita nel conteggio dalla pubblicazione del brano"Os vampiros" del cantautore e professore José Afonso, si inizia a comporre un repertorio di intervento, chiamato "Canção de intervenção", con il quale si tende a dar vita a brani dalla cantabilità abbastanza spiccata, niente sul modello dei "Treni per Reggio Calabria" di Giovanna Marini, che però in molti casi costituisce un esempio di poesia e letterarietà invidiabile. Nella radio di Stato, le private non le conosco, questo repertorio viene passato sia il 25 d'aprile, che, magari più sporadicamente, negli altri giorni dell'anno. Perché da noi non succede con i nostri canti partigiani?
E' vero che in Italia ormai le radio, tra pubbliche e private non c'è differenza, sono prese in ostaggio dalle multinazionali tramite quel marchingegno micidiale che si chiama radiocontrol. Credo, però, che se ci fosse effettiva volontà culturale di riappropriarci dei nostri canti politici (magari non come ha fatto Ginevra di Marco con i brani di Profazio, Trincale ed altri), supereremmo tutto. Il problema vero dell'Italia è che la sinistra non esiste più perché si ghettizza, mentre la destra ha paura ancora che essa esista.
Per quanto riguarda le allucinanti dichiarazioni del nostro presidente del Consiglio, "non bisogna lasciare il 25 aprile alla sinistra", non me ne stupisco perché a lui se manca la democrazia non importa niente, basta che ha le sue televisioni e le sue passerelle, come l'Abruzzo terremotato dove domani lui celermente tornerà e lì passerà il suo giorno della liberazione.
Credo che fino a quando da noi non si estirperà la piaga del neofascismo, o non si riuscirà effettivamente a circoscriverlo ad una nicchia disperata, questa festa sarà appannaggio solo di chi vuole ricordarsi dei partigiani e del loro sacrificio.

domenica 19 aprile 2009

Una recensione "officiniana" a quattro mani.

Carissimi lettori, questa mattina voglio parlarvi di un altro disco che mi ha formato molto. E' il cd che ha segnato la mia effettiva scoperta degli Officina Zoè, ed è intitolato "Crita". Sin dal titolo, parallelo a quello del loro primo disco, il fondamentale ma forse sopravvalutato "Terra", è un ritorno alle origini. Infatti, anche qui, si affrontano i brani della tradizione salentina. Il gruppo, però, ormai è indubbiamente cambiato, essendo passato per quell'insuperabile tappa di interiorizzazione della tradizione e delle sue sonorità, rappresentata da "Il miracolo". Il cd, e va detto subito, è uno dei più mirabili esempi di tradizione che sgorga dalla modernità, unita a modernità che sgorga dalla tradizione. Il tutto, è ottenuto con una serenità disarmante, che non ha forse permesso al vecchio pubblico del gruppo, troppo legato alla precedente formazione, di capirne la forza. Va detto, oltretutto, che negli anni in cui il gruppo tricasino si "faceva le ossa" con le colonne sonore, vari musicisti, più o meno improvvisati, hanno dato nuova vita, in maniere più o meno discutibili, al repertorio che poi sarebbe confluito in questo disco. Questi fattori, insieme alla tendenza del salentino a giudicare i progetti secondo il loro grado di innovazione, spiegano il poco successo e la minor comprensione avuta da questo album.
Entrando concretamente nella materia, il primo brano, intitolato "Ferma ferma", è tradizionale come impianto, ma l'"Officina" lo fa talmente proprio, da poter aspirare a pensarlo come un brano d'autore. Per la sua esecuzione, il gruppo utilizza semplicemente una chitarra acustica, un mandolino e la voce eterea di Cinzia. Le parole, come spesso accade nel più autentico stile Zoè, diventano suoni, senza però mai perdere il loro significato, o mutarsi in qualcosa di immateriale.
Si prosegue poi con il primo brano veloce del cd, intitolato "Allu sciardinu". E' un brano che io non saprei catalogare, perché il ruolo di dare il ritmo effettivo, invece di essere affidato al tamburello, come prevederebbe la più schietta tradizione leccese, è affidato a due strumenti, la chitarra battente e le nacchere, che sono più tipici di altre zone. Il tamburello, infatti, si limita quasi a battere dei colpi secchi, accentuando a malapena le parti principali della struttura ritmica. Le voci, qui, si contrastano. Se, da un lato, le voci maschili cantano in maniera "urbana", con colori più tipici dello stile popolare moderno, la voce di Cinzia, si staglia con un'irruenza che da diverso tempo non si ritrovava, quantomeno dalla "Macaria" di "Sangue vivo".
Subito dopo si arriva ad una stornellata, fatta, per ammissione dello stesso gruppo nel libretto del cd, da proverbi e detti salentini. Il ritmo, per chi conosce un po' i primi Zoè, potrebbe ricordare "Nifta maiu" o "Ttuppi ttuppi", mentre per gli appassionati di musica sudamericana e da ballo, potrebbe ricordare una 'beguine'. Il brano in questione è "Anima bella", uno dei più caratteristici e "rurali" del repertorio del gruppo. Infatti, e va detto, a parte l'organetto e la chitarra, tutti gli strumenti che vi figurano, sono oggetti della quotidianità contadina. Abbiamo, innanzitutto, il "tamburo a frizione", chiamato in salentino "cupacupa", costituito da un pezzo di coccio dentro il quale si mette un bastoncino di legno, che si suona con una spugna per piatti bagnata d'acqua (una volta si bagnava anche con la propria saliva!); troviamo poi il "lavaturu" e dei normali cucchiai.
Il brano successivo è l'unico strumentale del disco, una "Pizzica paccia", fatta sul modo di un anziano soprannominato "pacciu" ("pazzo"). Il protagonista del pezzo è l'organetto, coadiuvato, oltre che dal tamburello, anche dagli strumenti "quotidiani".
Per dimostrare che si può fare qualcosa di nuovo ed inaspettato anche partendo da testi e melodie più che conosciute, arriva poi il "Fior di tutti i fiori". E' uno stornello, eseguito, a livello di testo e melodia, così come lo si trova nel cd "Musiche e canti popolari del Salento" delle edizioni Aramirè. Ritmicamente, però, l' "Officina" si è presa la grande libertà di rallentarlo, facendo forse fuoriuscire quella tristezza che è insita nelle parole, causando però un certo "appesantimento" durante l'ascolto. Qui, poi, è particolarissimo anche l'insieme di strumenti che suonano accompagnando il canto. Troviamo infatti, insieme ad uno strumento "quotidiano" come il cupacupa, la chitarra, strumento di origine colta ma ormai entrato nella tradizione, ed il bouzouki, elemento greco tanto caro a molti gruppi salentini attuali.
L'anima greca degli Zoè, però, si sfoga in pieno nella traccia seguente, la bellissima, romantica e festosa "Kali nifta". Questo canto, d'autore ma ormai diventato della tradizione, eseguito in lingua grika su una melodia probabilmente macedone, qui viene portato ad un'allegria discreta, che non fa perdere mai il romanticismo di base. Non va dimenticato, anche se poi molti lo fanno, che il brano è una delle più belle e struggenti serenate del nostro Sud.
Di seguito troviamo il primo brano completamente a cappella mai eseguito in studio dal gruppo. Il pezzo, reperibile con una strofa in meno nel cd "Le cicale" della casa editrice Kurumuny, è uno dei classici indiscussi della tradizione leccese, e si intitola "E l'acqua ci te llavi". Anche questa è una serenata, di quelle che si cantavano nei campi per corteggiare a distanza la propria innamorata. La versione del gruppo è la più tradizionale tra quelle di "riproposta" che conosco, infatti rispetta gli intervalli tipici del canto polivocale salentino, limando solo quegli aspetti che oggi non si accettano più.
Subito dopo arriva una tarantella, eseguita con cupacupa, chitarra, organetto e voci, che non era mai stata riproposta da nessuno, ed era presente solo in un vecchio film di Pietro Germi, che l' "Officina", con il suo attaccamento alle fonti, cita come personale modello. Il brano è "Maria Nicola", tarantella spassosa su una giovane che, invece di sposarsi, dilapida tutti i soldi che gli altri le offrono per fare cose di cui si può fare benissimo a meno. Anche di questo brano, nel 2007, la Kurumuny ha pubblicato una versione "tradizionale" nel già citato "Le cicale". Questa versione, come tutto il disco, è a cappella, ed è più lenta di quella dell' "Officina".
Tornando a Crita, che a casa mia viene da sempre chiamato "Il mostro", andando avanti arriva una strabiliante "Tambureddu meu". Questo brano è il più tradizionale del cd, e forse sarebbe stato meglio metterlo a chiusura del percorso, per "intrappolare" l'ascoltatore in un ideale cerchio, simbolo d'altronde caro alla tradizione meridionale, che va dalla dolcezza gentile di "Ferma ferma" alla durezza contadina di questa pizzica. Comunque, il pezzo è uno dei più famosi all'interno del repertorio tradizionale, ed è eseguito senza strofe né melodie particolari, senza neanche eccessiva cura nell'addolcire la tradizione. Si è registrato, infatti, lo so per testimonianza diretta dell'armonicista Antonio Corsano che vi ha partecipato, completamente in presa diretta. Qui, infatti, forse Zoè mostra il suo spirito più vero: ci fa capire che ciò che cerca è una vera comunione con il proprio pubblico, per il quale, poi, prova una vera e propria gratitudine.
Il cd si chiude con una geniale versione di "Camina ciucciu", brano molto poco eseguito, del quale, fino all'uscita del cd di cui parliamo, esistevano solo due versioni di ispirazione tradizionale, tra l'altro eseguite dallo stesso gruppo a vent'anni di distanza l'una dall'altra.
Descrivendo concretamente la versione dell' "Officina", è la più riuscita perché, anche non capendo le parole e non conoscendo il dibattito di interpretazione causato da questo brano apparentemente così semplice e scanzonato, si arriva a capire che ci si trova davanti ad un pezzo ispirato dalla figura del carrettiere, che per andare avanti incita sempre il proprio animale a camminare. Musicalmente, il brano è positivamente caratterizzato dalla presenza del mandolino di Antonio Calzolaro, mandolinista di Uccio Aloisi.
Prima, introducendo il brano, l'ho definito "geniale". L'apprezzamento è riferito ad una piccola cosa che succede a metà esatta dell'esecuzione: la musica etnica è bella perché fa grandi le piccole cose. Il brano, prima di ricominciare daccapo per il secondo giro, si caratterizza per una presenza del tipico suono che si produce per incitare gli animali da locomozione. Dopodiché Cinzia, forse trasportata dall'atmosfera creata da questo trucco, utilizza un tipico melisma salentino, una semplicissima scala di quattro note con un leggero trillo, non utilizzata abitualmente in questi contesti, ma che qui acquista un colore tutto particolare. Dopo la fine del canto, che sfocia in una piccola parte a pizzica lenta, si arriva ad un dialogo serrato tra il mandolino e l'organetto, che purtroppo è troppo breve per permetterci di goderne come si dovrebbe e come si sarebbe portati a fare.
Voglio sperare che con questa recensione ho portato qualcuno ad ascoltare questo cd non più condizionato dagli stereotipi e dai luoghi comuni.
Cari salentini: quando verrà il giorno che con la vostra musica tradizionale tornerete a fare semplicemente festa senza più nessun tipo di polemica?

Carissimi lettori, voglio regalarvi la recensione personale di un mio grande amico, l'ormai inguaribile "malato di pizzica" Gianluca.
Il mio approccio con la pizzica si è avuto, ormai la bellezza di quattro anni fa, con la scoperta (grazie alla mia superamica!) proprio di questo cd. Il retroterra musicale dal quale provenivo era assai scarso e nello stesso tempo rigorosamente selettivo: posso dirvi che i miei generi preferiti si riducevano sostanzialmente a due, vale a dire le canzoni popolari e politiche e l'opera lirica, soprattutto di carattere buffo e di scuola italiana.
Quando cominciai a prendere confidenza con la musica salentina del genere pizzica, scoprii letteralmente un 'universo parallelo'; un nuovo mondo alternativo e davvero magico, di "emozione musicale". Ma entriamo nel vivo del cd "Crita", ovvero la mia 'iniziazione' alla pizzica ed in particolar modo alla musica degli "Officina".
Partiamo da "Ferma ferma": l'armonia è come un pizzicare l'anima, e la dolcezza che oserei dire rimbomba, farebbe pensare ad una normale serenata... Una serenata in cui il dialetto tricasino rende le parole e la melodia ancora più dolci. (Zoè, siate più tricasini nella vostra filosofia di canto, dimostrate che anche da voi c'è una grande tradizione. Ve lo dice una perugina, quindi non ci sono sospetti di campanilismo!n.d.r.).
"Allu sciardinu" si pone come una melodia altrettanto singolare. Non saprei dire il motivo, ma mi evoca moltissimo l'aria del Salento (in cui ancora non ho avuto la fortuna di capitare...), e tranquillamente potrebbe fungere da colonna sonora ad un documentario superdettagliato sulle terre della provincia di Lecce. E questo nonostante sia un pezzo forse, tra quelli di "Crita", dei più lontani dalla tradizione salentina.
Ed arriviamo alla terza, in ordine cronologico, del cd: "Anima bella". La prima volta che l'ho sentita, devo essere sincero, non ho colto immediatamente il suo vero valore. Forse proprio a causa della poca dimestichezza che avevo con il genere "musica popolare salentina", non era, in un primissimo tempo, tra le mie preferite. Il motivo, credo, fosse il "distacco" dalle altre, o meglio, in un primo momento, l'avrei vista di più in "Terra", oppure come singolo a sé (cosa che, nella musica popolare, è inaudita!). In realtà mi è bastato solamente ascoltarmela un po' più di volte, per comprendere quanto veramente ci stesse bene lì. E' da ricordare, anche, che la prima volta che li abbiamo visti insieme, il 7 luglio 2006, alla "Palma" di Roma, ce l'hanno anche dedicata (n.d.r).
Molto piacevole e di gran gusto, è la "Pizzica paccia", che rivela il talento del grande "Don pizzica", ossia Donatello Pisanello.
Arriviamo così a metà disco, con "Il fior di tutti i fiori", un pezzo veramente superbo! Inconfondibile e unico. A parte il testo, una dolcissima poesia stornellata che sa di profondo sentimento e oserei dire di tenerezza, la musica, ancora una volta, eleva le parole ad una quinta essenza. Si può far poesia in moltissimi modi, e forse ci sono ancora molti segreti che la nostra lingua ed i nostri dialetti possono e debbono dirci... Ma quando entra in gioco la magia della musica, e questa musica si concatena perfettamente a quello che sono le parole ed a cosa esse vogliono mirare, è davvero tutta un'altra cosa.
Se questo è vero per il brano precedente, è innegabile che lo si possa riscontrare anche nella successiva "Kali nifta". Ma sarà anche il fatto che la lingua greca detiene sul sottoscritto un potere di seduzione non indifferente...
Arriviamo ad un pezzo che ha insita una certa vena classica. (Non a caso è stato cantato anche dal celebre tenore Tito Schipa). Il pezzo è particolarmente impregnato di calore e sentimento, e secondo me risponde ad una esigenza che sento particolarmente viva, di richiamarsi ad una certa galanteria nei rapporti sentimentali. Per la cronaca, il pezzo in questione, si intitola "L'acqua ci te llavi".
Ed eccoci a quella che considero la mia canzone preferita: "Maria Nicola". Ha un ritmo dolce a tutti gli effetti, che troppo bene si abbraccia alla voce della "Maria Callas del Salento", (mi dispiace per chi la pensa diversamente...!) insieme alla tradizione più spontanea del centro-sud. Non ne abbiano a male gli studiosi di etnomusicologia e nemmeno i cultori più preparati di me di musica popolare, ma tengo a precisare che una voce come quella della Marzo ha in sé un 'potere' assai particolare ed unico. Non si deve - e lo dico anche da teorico - omologare un genere musicale a canoni predefiniti ed aprioristici. (per quanto essi siano tradizionali n.d.r.). La musica popolare, scusate, non è la musica operistica o classica in genere, nelle quali è doveroso rispettare con rigore certi canoni. Ben venga, nella musica popolare, l'uso di un ampio spettro, il più possibile largo e teso all'estensione, della voce: della tonalità, del modo stesso di far vibrare l'aria, ma continueremo il discorso.
Molto carina è pure la successiva "Tambureddu meu", assolutamente tradizionale, piacevole, molto oserei dire distensiva, pur nella sua carica forte e rapida.
Il cd si chiude con "Camina ciucciu", rigorosamente la mia seconda preferita, anch'essa molto vicina a "Maria Nicola", per la dolcezza e la spontaneità con cui canta la Marzo.
Queste le opinioni di un semplice ascoltatore, di un "non addetto ai lavori", di un cultore tardivo della musica popolare salentina, che non vogliono insegnare niente di tecnico e cattedratico a nessuno, semplicemente offrire qualche spontaneo parere che potrebbe esservi di una qualche utilità.

sabato 18 aprile 2009

María Dolores Pradera "En directo"

Carissimi lettori, erano già diversi giorni che non scrivevo, ed il fatto mi rendeva abbastanza triste. Oggi, però mi è arrivato un gioiello tra le mani, direttamente dalla Spagna, quindi lo voglio recensire per voi, anche se, purtroppo, devo dire che in Italia lo troverete solo molto difficilmente.
Si tratta del cd "En directo" della cantante ed attrice spagnola María Dolores Pradera. E' un disco dedicato, come tutta la sua produzione, all'incrocio di pezzi spagnoli e sudamericani. L'album è del periodo migliore della cantante, quello caratterizzato dall'accompagnamento strumentale de Los Gemelos, un duo di fratelli, eccellenti chitarristi.
L'album si apre con un pezzo strumentale, incrocio di una "ranchera" messicana ed un valzer peruviano, eseguito dal trio di basso e due chitarre che caratterizza tutto il cd.
Il primo brano cantato è una bellissima "ranchera" (componimento abitualmente cantato da orchestre molto numerose chiamate "mariachi"), intitolata "El tiempo que te quede libre, scritta dal più grande autore di "rancheras" messicane, José Alfredo Giménez. Subito dopo, il primo intermezzo parlato, permette di conoscere il quartetto, che ci accompagnerà in questo viaggio, insieme alla Pradera. Oltre ai citati "Gemelos" c'è un contrabbasso, suonato da Fernando López, e si sentono in alcuni brani le percussioni, suonate da Pepe Ebano.
Andando avanti con le canzoni, abbiamo una versione, non molto convincente per lo meno per me, di "Fina estampa", valzer peruviano scritto da Chabuca Granda, a cui Caetano Veloso si è ispirato per il titolo del suo omaggio alla cultura hispanica dell'America latina. Quello che mi convince poco, premetto che non conosco la versione originale, sono le numerose pause che scandiscono il ritornello, che io ho abitualmente sentito tutto attaccato.
Il cd è come un viaggio, e María Dolores Pradera, facendoci divertire, ci guida in questo mondo che per noi italiani è spesso sconosciuto, infatti non aspettatevi l'America Latina commerciale e facile.
Subito dopo abbiamo un ritmo, che a me pare una cueca, ballo nazionale cileno, con il quale si canta di un protagonista che, credo tra Cile ed Argentina, è sempre ben servito per quanto riguarda gli amori.
Arriva ora un valzerino alla segoviana, lo chiamo "valzerino" per la mia proverbiale ignoranza sui ritmi popolari spagnoli, intitolato "El ramilletillo", "Il rametto", una filastrocca incentrata sull'amore, con queste sentenze fulminanti tipicamente popolari, che però, tradotte, perdono ogni forma di forza.
Con la stessa atmosfera ascoltiamo ora "El gabilán", una piccantissima canzone venezuelana, della zona della pianura, la cui musica è caratterizzata spessissimo da ritmi veloci.
Nello spirito di comunione che secondo María Dolores Pradera e non solo secondo lei unisce la Spagna con il continente latino-americano, viene ora una canzone argentina, del cantautore Horacio Guaraní, unita con un brano popolare spagnolo del secolo XVII, intitolato "La hija de Don Juan Alba". Se devo dire la mia, però, mi pare un'unione abbastanza artificiale, non tanto per i ritmi, che si fondono molto bene, ma per le armonizzazioni che fanno da "ponte".
Il pubblico, comunque, aprezza ed applaude in maniera appassionata e composta, magari noi fossimo così.
Il contatto con L'Argentina continua, ed anche questa volta ascoltiamo un gioiello della musica del nord di questo paese, la più lontana dal tango, che è un genere tipico di Buenos Aires, anche se nel mondo intero è quasi la sola cosa che si conosce del paese sudamericano. La canzone in questione è stata scritta da Atahualpa Yupanqui, artista citato da Paolo Conte nella sua "Alle prese con una verde milonga", e si intitola "Luna tucumana", "Luna della zona di Tucumán". I cultori di musica sudamericana, se ne potrebbero ricordare per la bellissima versione di Mercedes Sosa. La versione della Pradera è sicuramente affascinante, anche se la velocità la rovina un po', e le fa perdere la passionalità "norteña", che è racchiusa nella versione della Sosa.
Di seguito la Pradera ci propone una delle più belle canzoni dedicate alla rivoluzione dei garofani portoghese, anche se la cantante non lo dice sbagliando completamente l'interpretazione del brano, scritta da Carlos Cano, uno dei più grandi cantautori spagnoli. La versione della Pradera, è molto più simile ad un Fado rispetto all'originale, ma Carlos Cano utilizza la chitarra portoghese, dimostrando un'apertura musicale infinita a ciò che gli è vicino.
Molta musica popolare messicana, rancheras e dintorni, è ispirata alla rivoluzione del 1910. La Pradera ce ne offre uno degli esempi più belli in "Caballo prieto azabache", valzer lento. E' la storia di un rivoluzionario, della parte sconfitta da Pancho Villa, che viene salvato dal cavallo che caparbiamente, anche davanti ai giudici che stanno per fucilare il protagonista, esegue i suoi ordini, prendendo poi i colpi di proiettili che sarebbero dovuti andare alla persona. Questa storia è una delle tante di fedeltà agli animali ed alla natura, di cui è piena la musica sudamericana (si pensi a "Mi arbol y yo" del cantautore argentino Alberto Cortéz).
Il primo disco si conclude con una versione, filologicamente ineccepibile, della canzone "Caballo viejo" del venezuelano Simón Díaz, da tutti conosciuta nella terribile versione flamenca dei Gipsy Kings ("Bamboleo").
Il gruppo gitano, oltre ad aver fatto sparire ogni traccia del ritmo venezuelano, ha ridotto il brano ad un normale pezzo d'amore, senza far vedere la semplice ma illuminante, filosofia dell'anziano contadino venezolano, che potrebbe dimostrare, a chi ancora non lo ha capito, che quando gli amori sono veri non ci sono limiti d'età.
Il secondo cd si apre con una polka, che io non avevo mai sentito e di cui ignoro completamente il titolo, della quale non si sa neanche la provenienza esatta, o cilena o messicana (come vedete due paesi che stanno agli estremi dell'America latina, quindi vi giuro che c'è un pochino di differenza in quanto a musica popolare!).
Il brano è, comunque, tutto giocato sugli iperbati, che spesso causano cambiamenti di senso di frasi, ossia sugli spostamenti di parole (scusate i tecnicismi, ma oltre ad essere musicista ed appassionata di musica studio anche lingue!).
Si ritorna a cantare un pezzo della peruviana Chabuca Granda, non catalogabile con il nome di valzer peruviano, o per lo meno non compatibile con l'idea comune che gli ascoltatori normali di musica sudamericana, si sono fatti di questo genere. Il genere, di solito, è caratterizzato da una profondissima leggerezza, mentre qui c'è la tristezza che porta addirittura ad una certa filosofia e ad un certo senso della morte dell'anima, o dell'imminenza di quella fisica. Lo stile dei musicisti e degli strumenti, non si può descrivere, ma comunque permette ai pezzi, pur restando se stessi ed autonomi, di dimostrare ciò che più volte dice la stessa Pradera, cioè l'omogeinità di fondo, pur fra tante e profonde differenze, tra Spagna ed America latina.
Arriva ora un "Candombe" argentino, dedicata ad una "negra", che in Argentina si usa anche per indicare una donna, senza darle particolari connotati di razza, che, purtroppo, muore prestissimo. La prima parte, infatti, è la descrizione delle speranze che causa nella sua famiglia la sua nascita, che si spezzano ben presto. L'interpretazione della Pradera, che d'altronde è anche un'attrice di teatro, è molto incisiva, e permette, anche a chi non sa la lingua di Cervantes, di capire questo e tutti i testi che canta (è la cantante in lingua spagnola con la migliore dizione in assoluto, tanto che i suoi pezzi vengono fatti studiare nelle scuole).
E a proposito dell'incrocio tra Spagna ed America latina, la traccia successiva è un pezzo composto in Spagna, con la musica di un compositore di Mallorca, e le parole di Vázquez Montalbán. E' una descrizione tra le migliori, della tristezza che può causare, in chi resta, un abbandono amoroso, quando già tra i due coniugi od amanti, si rompe quel miracolo che fa scordare tutto, età inclusa.
Per reazione, lo afferma la stessa Pradera nella presentazione, arriva un "bambuco" colombiano intitolato "Yo también tuve veinte años". Non c'è nostalgia, anzi, durante tutto il brano si elogia la tranquillità e la calma che dovrebbero contrassegnare la maturità.
Di seguito, tornando in Spagna, si torna ad omaggiare Carlos Cano, cantautore andaluso con cui la Pradera ebbe una relazione del tutto particolare. Il brano scelto questa volta, è forse il più bello mai scritto dal cantautore, un fado intitolato "María la portuguesa". Il brano, nonostante il nome hispanico della protagonista, è un omaggio alla grande cantante portoghese Amália Rodrigues, di cui ancora qui non si è mai parlato, ma che è stata una delle tappe più importanti della mia formazione.
L'interpretazione della Pradera è molto convincente, anche se vi sono delle armonizzazioni che non rispettano molto l'originale. (Fortunatamente bisogna conoscerla molto bene per capirlo!).
Per continuare a commuoverci, la cantante madrilena ora ci porta in America latina, con una delle più struggenti serenate, un po' alla napoletana, intitolata "Llora mi guitarra", "Piangi chitarra mia". E' un'invocazione allo strumento re delle serenate, affinché, almeno lui, sia fedele compagno del protagonista nella sua fortissima sofferenza d'amore. Nonostante la profonda tristezza del tema e del brano, il canto, sia nella versione della Pradera che in quasi tutte quelle che siano fatte con un minimo di filologia, non si trova mai quella tristezza melodrammatica che a noi piace tanto. (Sinceramente questo è uno dei motivi della mia grandissima passione per questa musica).
Ora, nel nome di quell'unione indissolubile dell'anima hispanica di cui si è già parlato, arriva una bellissima trilogia di canzoni dedicate al "palmero", che dato il profondissimo legame delle isole canarie con il continente sudamericano, è diventato un topos onnipresente (da noi si potrebbe fare una cosa simile, non so con quali risultati, unendo ad esempio in un unico brano alcuni dei tanti esempi di canzoni dedicate alla rondine come messaggera d'amore). Il brano di cui parliamo, comunque, è caratterizzato da un crescendo, infatti la seconda e la terza parte, non sono che due diverse interpretazioni, molto lontane geograficamente tra loro, della stessa struttura ritmica. A me, dato che ci sono stata, mi emoziona particolarmente la parte terza, quella dedicata alle isole canarie. Infatti, e voglio dirlo, dei miei viaggi scolastici, quello alle Canarie è quello che mi porto più nel cuore, anche perché quella terra possiede una delle più belle musiche popolari che io conosca.
Dopo questo omaggio alla terra canaria, si arriva ad uno dei classici indiscussi, per lo meno per un hispanoparlante, della musica sudamericana in genere e del repertorio della Pradera e di Chabuca Granda in particolare, ossia "La flor de la canela". E' uno dei brani dove, con più orgoglio e poesia, si racconta la storia di un Perù mitico, che raramente si crederebbe esistito.
Andando verso la fine, la Pradera ci dedica tre dei classici indiscussi del suo repertorio. Il primo è "El rey", una delle "rancheras" più famose del grande José Alfredo Giménez. Non saprei, sinceramente, descrivere il testo della canzone, ma potrei dirvi, senza paura di essere smentita, che è un vademecum di sentenze che incarnano come poche la filosofia di vita del messicano, un po' pazzo e sui generis.
A proposito di José Alfredo Giménez, ecco una delle canzoni dove si scopre la tendenza del messicano ad affogare il proprio dolore nel vino, cosa che, d'altronde accomuna spesso tutti i popoli del sud del mondo, soprattutto latino-americani. Questo pezzo, tra l'altro è stato tra i tanti che mi hanno iniziato all'ascolto di questa bellissima voce spagnola, che non vi ho descritto perché è impossibile o per lo meno io non lo so fare. Si chiude con "Amarraditos", che era la canzone che apriva l'antologia, intitolata "Álbum de oro" con la quale io mi sono introdotta nel mondo dell'interpretazione confidenziale della musica sudamericana. Infatti, sarebbe ora, che noi italiani, che amiamo tanto definirci latini, conoscessimo seriamente e un minimo bene la musica di popoli che ci amano davvero.
Secondo la persona che me ne parlò, María Dolores Pradera era simile a Mina. Sinceramente, lo dico dopo circa tredici anni di conoscienza della spagnola, non credo giusto il paragone, se non per dire che le due cantanti sono accomunate dalla ricerca di gioielli spesso dimenticati. Bisogna dire, però, che mentre Mina, soprattutto negli ultimi anni, si sta dedicando al pop od al jazz, la Pradera, con una coerenza che alla cremonese non si può riconoscere, interpreta tutti i ritmi sudamericani e spagnoli, unendo folk e musica d'autore, in un unicum magico.
Chiudendo l'articolo, voglio semplicemente dirvi buona ricerca del cd, e poi, se lo trovate, buon ascolto. Il consiglio che vi do è di andarvi a godere un pochino la Spagna e riportarvelo da lì!

mercoledì 15 aprile 2009

Commento sugli artisti italiani nell'ultima classifica FIMI

Carissimi lettori, scusate l'invadenza, ma ho voglia di commentare l'ultima classifica di vendita in Italia. Vi dico che mi limiterò al mercato del disco "tradizionale", ossia ignorerò quella grandissima furbata che si chiama "mercato digitale", inventata dalle case discografiche per mettersi "dalla loro" la tanto odiata pirateria musicale. Va da sé, che quest'articolo sarà pieno di "mazzate pesanti cu li soni e cu li canti".
Intanto, prima di iniziare, voglio subito dare la prima mazzata pesante a quelli della FIMI. Come pretendete di avere uno sguardo obbiettivo sul mercato discografico e soprattutto sui gusti di noi acquirenti di cd, ignorando i vecchi e cari negozi? (le classifiche da noi si basano sui media word e dintorni, una vergogna completa!)
Comunque, entrando concretamente nella materia, bisogna dire un "Urra!", perché il disco più venduto, nonostante il vergognoso metodo di rilevazione, è ancora il buon ultimo cd di Zero, quel "Presente" che qui è stato recensito subito dopo la sua uscita. Mi rende particolarmente felice, da "sorcina" quale sono, che si trovi in questa posizione da quando è uscito (stiamo commentando la prima classifica d'aprile).
Anche al secondo posto c'è una cantante italiana, la "giannissima" nazionale, ma non gioisco, anzi, come appassionata di pizzica piango in griko. Infatti, scusatemi la divagazione, non mi riesco a scordare la protervia con la quale lei cantò nel 2004 "Fimmene fimmene", e, soprattutto, non riesco a capacitarmi dell'orgoglio che i salentini hanno provato nel sentire quell'interpretazione. E' vero, voglio riconoscerlo, la Nannini ha una voce dalle tinte forti, che spesso ricorda quella di certe cantrici popolari. Devo dire, però, con il mio proverbiale "purismo", che questo non mi basta per permetterle di cantare un simile gioiello.
Al terzo posto si continua a parlare ancora italiano con un gruppo che io ho stimato fino a quando aveva il suo storico e carismatico leader: Augusto Daolio. Da questo nome avrete riconosciuto i Nomadi.
Una speranza di avvicinamento agli ultimi Nomadi, e l'operazione per la verità era anche abbastanza riuscita, si era avuta con il cd "La settima onda", trainato, per me, dal brano "In favelas" interpretato superbamente insieme agli Inti-Illimani. L'ultima canzone "Lo specchio ti riflette", interpretata con un esponente del pop spagnolo come Jarabe de Palo, me li ha fortemente fatti sprofondare nel baratro.
Il quarto posto è appannaggio degli U2, quindi con proprietà non italiana ma irlandese. Sugli U2 voglio solo dire che il loro impegno sociale, per l'Irlanda prima e poi per l'Africa, mi pare tutta una grandissima montatura per restare sulla cresta, ovviamente frodando il fisco inglese e mandando i propri diritti d'autore nei paradisi fiscali (forza Unione Europea aboliscili! Rendi difficile la vita ai furfanti, invece di legiferare sui decibel delle cornamuse o sulla porchetta perugina!)
Al quinto posto troviamo Pino Daniele, con il progetto tra "musica pura" e cantautorato, che si divide in due parti per far digerire i venti euro del suo prezzo. Queste operazioni io, nella mia veste di acquirente di dischi, le trovo davvero esecrabili. Basterebbe, ad esempio, ridurre l'I.V.A. sui cd del 15 per cento, riducendo quindi il costo effettivo del disco, per renderle inefficaci, impopolari e insignificanti, facendo però qualcosa di concreto per la rinascita della discografia.
Al settimo posto troviamo un cantante che dovrebbe davvero chiedere "Perdono", come il titolo del suo primo successo, sia per il fatto d'aver scelto questo mestiere, sia per la sua incoerenza. Mi riferisco al cantante di Latina Tiziano Ferro, nato come cantante di RMB, ma presto convertito al più facile pop da battaglia (non politica si badi bene!). Il signor Ferro, ha veramente una testardaggine di Ferro, ma peggio ce l'ha chi gli compra i dischi, e peggiore ancora chi lo va a vedere dal vivo. Fortunatamente, magari, questi ultimi non si accorgono degli scempi che costui fa, dato il suo essere un prodotto creato a tavolino. Tiziano Ferro, infatti, con i suoi vocalizzi da scimmiottatore nato degli americani, riesce assolutamente a nascondere benissimo il suo essere una nullità interpretativa. Scrive buoni testi, questo gli va riconosciuto, ed anche questo lo aiuta. Secondo me, però, se non si è nessuno in concerto, allora si fa l'autore e non il cantante!
Di seguito troviamo il primo cd sanremese presente, quello della vincitrice delle nuove proposte, (scusate, proposte 2009!), la lucana Arisa. Se devo parlare con "sincerità", citando il titolo del cd e della canzone del festival, bisogna che rendo pubblica la mia indignazione. Questa cantante non ha alcun fascino vocale, la canzone forse è carina ma a me non basta. Mi ricorda un po' Carla Bruni (ora prima signora di Francia!), la quale, con una voce abbastanza simile strutturalmente a quella della nostra, sempre così pseudosussurrata, falsamente intima, affettatamente dolce, era riuscita ad affascinare il mondo intero (perfino me!). Va detto, però, che la signora in questione, poi, quando pubblicò il suo secondo disco, non solo non riuscì a replicare il successo del primo, ma fece completamente flop. Non voglio augurare questo ad Arisa, che nel suo mestiere ci crede e non lo fa per stanchezza o convenienza, ma forse, sarà proprio questo il suo destino, che condividerebbe con un bel gruppettino di brillanti giovani promesse sanremesi.
Di seguito troviamo la rivelazione della prima edizione di "x factor", Giusy Ferreri. Era stata presentata come una portatrice di novità nella canzone italiana, il tempo, un annetto a malapena, ha dimostrato che niente era più lontano dalla realtà. Ascoltate un brano qualsiasi della Ferreri, ad esempio "Novembre", poi ascoltate Malika Ayane, la ragazza che tra le proposte 2009 al festival ha cantato la canzone scritta da Giuliano Sangiorgi dei Negramaro, e noterete, con vostro grande stupore e sconvolgimento emotivo, che hanno le voci molto simili, oltre ad alcuni colori di canto completamente uguali.
Al nono posto troviamo una bella voce americana come Diana Crall, ma a noi non ci compete.
Al decimo posto troviamo il cd "Le donne" del cantautore romano Antonello Venditti. Qui bisogna spendere due parole, sia perché è italiano, sia perché lo amo, sia pe' tiraje un ber corpo ar core.
Nel 2006, per festeggiare non so quanti anni di carriera, il cantante e pianista (anche se se ne vergogna e dice che da quando non suona in pubblico è rinato) romano, aveva pubblicato un bellissimo triplo cofanetto intitolato "Diamanti. Dopodiché, l'anno successivo, aveva donato al suo pubblico di fedelissimi a oltranza, tra cui io non mi conto perché lo amo fino a "Benvenuti in Paradiso", il cd più brutto, scialbo ed elettronico di tutta la sua carriera: "Dalla pelle al cuore". Ora, se io avessi il privilegio di fare questo mestiere, oltre a non mettermi con le multinazionali a nessuna condizione, tenterei di pubblicare raccolte solo in momenti davvero nevralgici, e comunque preferirei sempre fare dischi dal vivo. Invece, l'Antonello nazionale, ci ha regalato un'altra raccolta. Sinceramente, voglio ammetterlo, io non la possiedo, anche perché io non ne compro quasi mai, direi per principio.
Anni addietro, quando seguivo in radio spagnole o portoghesi le loro classifiche di vendita, mi domandavo esterrefatta: come faranno i dischi a restare per più di un anno in classifica? In Italia, signori miei, ora ne abbiamo un lampantissimo esempio con l'undicesima posizione, il plurivenduto, troppo venduto in realtà per la sua discutibile qualità, "Safari" dell'"idiota di Cortona", Lorenzo Jovanotti. Se lui avesse continuato a fare un suo percorso ma seguendo la sua strada, che era sicuramente il rap, io non avrei niente da eccepire, pur ammettendo che non lo amo. Quello che mi fa infuriare, e lo dico senza mezzi termini, è il fatto che, questo signore, quando ha visto che lo stile statunitense da noi smetteva di essere di moda, si è adagiato sulla scialuppa della melodia. Il problema vero, signori, è che per fare certe cose ci vuole la voce, e questa, il cortonese non ce l'ha.
Bisogna risalire molto indietro nel tempo, ad esempio a "Nel blu dipinto di blu", per trovare una canzone vincitrice a sanremo al primo posto della classifica. Il vincitore di quest'anno, il sardo Marco Carta, che ha vinto per la madrina che lo ha traghettato verso sanremo, ossia la scopritrice di talenti Maria De Filippi, lo troviamo ad un deludente dodicesimo posto. Questo, a me che ancora ragiono con "la forza mia", o con la forza della testa mia, mi dà speranza sul fatto che vi sia svariata gente che ancora lo fa.
Un'altra "straniera" presenza, la troviamo subito dopo, incarnata in una compilation dedicata ad Annie Lenox, ottima voce, bellissima la sua "Why?", ma noi non ne parliamo.
Subito dopo si torna a cantare (o a miagolare?) in italiano, quindi tocca cu cuntu (bisogna che parlo). Abbiamo, infatti, il secondo (o terzo?) volume della trilogia "Fleurs", concepita, arrangiata e interpretata dal siciliano Franco Battiato. Questa è una serie di cd, nei quali, il nostro ci presenta alcuni dei brani che lo hanno formato, dalle canzoni napoletane, alle statunitensi, alle francesi. Come si può capire anche solo da questa sommaria e superficiale carrellata geografica, i pezzi appartengono a generi diversi, anche se soprattutto al cantautorale-intimistico. Il signor Battiato, però, si dimentica di far notare queste differenze, uniformando tutto al suo stile patinato ed inconsistente, sicuramente insostituibile per i testi del suo fido compagno Mallio Sgalambro, ma completamente incompatibile con qualsiasi altro tipo di musica e concezione letteraria.
Al quindicesimo posto troviamo la già citata e commentata Malika Ayane, ma non ci torneremo sopra.
Al sedicesimo posto c'è un'artista che canta in lingua inglese, quindi non ci interessa. Subito dopo possiamo parlare di Biagio Antonacci, a cui Simone Cristicchi aveva dedicato quel tormentone che gli aveva procurato tanta fortuna, cantante specializzato nell'autocopia. Devo ammettere che, all'inizio della sua carriera, circa una ventina di anni fa, il ragazzo milanese ne aveva fatta più di una carina, nonché qualcuna geniale (Il festival di Gabicce mare). Con il tempo, però, si è perso, smarrendosi credo irreparabilmente con il progetto "Convivendo", primo disco in "fasi" della discografia italiana. Giusto per fare un esempio di autocopia, il groove della batteria del brano "Il cielo ha una porta sola" che dà il titolo al cd presente in classifica, è esattamente lo stesso del brano "Non ci facciamo compagnia" presente in una delle "fasi" di "Convivendo".
Andando avanti troviamo l'idolo dei latino-americani, la cantante Laura Pausini, con il suo ultimo cd "Primavera in anticipo". A me, e l'ho dichiarato in più di un'intervista ai tempi della mia notorietà, la Lauretta nazionale non è mai piaciuta. L'ho sempre ritenuta un po' smielata, pensando che sfruttasse questo stereotipo della donna italiana dolce e romantica per essere famosa all'estero.
Scendendo troviamo una delle raccolte più deludenti di uno dei cantanti più bravi e trasgressivi che l'Italia abbia mai potuto vantare. Mi riferisco al cd "Rino Gaetano live & rarities". Intanto mi fa imbestialire il titolo, infatti mi altero quando vedo titoli in inglese dove si sarebbe potuto usare il nostro nobilissimo idioma fiorentino. Non si sarebbe potuto chiamare questo cd "Rino Gaetano: rarità in concerto ed in studio"? Andando in concreto alla struttura del cofanetto, va detto che l'unico cd che consiglierei di ascoltare è il secondo, quello prevalentemente basato su materiale in concerto (c'è un'esibizione a Maglie riportata per intero, oltre a stralci di altre occasioni concertistiche), che finalmente farebbe capire quanto sbagliano tutti coloro che paragonano Le luci della centrale elettrica al grande crotonese. Infatti, mentre la quasi stonatura di Rino Gaetano veniva dalla rabbia e dall'impeto che questi metteva nel contatto con il pubblico e nel suo donarsi, nel caso del signor Vasco Brondi la stonatura è semplicemente stonatura. Oltretutto, nel caso di Gaetano, non esiste solo questo "scrivere alla burchia", ma esistono anche momenti più lirici e riflessivi, o comunque votati ad uno "scanzonato logico". Nei testi del ragazzo di Ferrara, invece, il rimare "alla burchia", che riferito ai rimatori quattrocenteschi era una maniera di sovvertire le regole dell'accademia facendo ridere, diventa un metodo per fare venire un magone così a chiunque l'ascolti.
Subito dopo troviamo Karima, una cantante che non mi convince anche perché mi ricorda Giorgia, la quale poi si è dimostrata abbastanza disonesta con chi l'aiutata creando anche problemi di diritti d'autore sul suo brano sanremese, bella ballad ma troppo americana.
Nominata e vista! Ecco qui lo "spirito libero" romano, che con orgoglio alterna il blues, al pop ed alla dance più sfacciatamente elettronica. Se questa è libertà, lo è solo di fare soldi!
Continuando abbiamo il nuovo cd di Filippo Neviani, in arte Nek, che con tutta la sincerità non mi è mai piaciuto. L'ho sempre ritenuto un gran qualunquista: è stato tra i primi a fare una canzone antiaborto, "In te", e tra i tanti a denunciare l'ingiustizia della guerra in Iraq, con il brano "Anno zero", mettendo, però, in mezzo una bella quantità di smielatissime canzoni d'amore. Per quanto riguarda l'ultimo cd non vedo cambiamenti di rilievo, anzi non ne vedo nessuno.
Sono tornati anche gli Stadio, ma io li rimpiango quando erano il gruppo del signor Lucio Dalla, perché Gaetano Curreri, leader e cantante del gruppo, ha una delle voci più insopportabili che io abbia mai sentito.
Si va avanti e si trova una "signora" della canzone italiana, come la milanese Ornella Vanoni. Il suo cd, intitolato "Più di me", è un cd di Duetti. Non voglio negare che qualcuno sia bello, si pensi ad esempio a quello con Gianni Morandi o a quello con la grandissima Fiorella Mannoia, ma, devo dire, che fra le tante controindicazioni, la musica leggera ha un limite d'età ben preciso entro il quale può essere cantata in pubblico od incisa su disco con buoni risultati. Mi pare, infatti, che la signora in questione, abbia ormai forti problemi di fiato, quindi non se ne può più.
Abbiamo poi due posti appannaggio degli stranieri, e quando si torna a parlare italiano si trova il più conosciuto gruppo salentino di tutti i tempi: i negramaro. Non ho niente in contrario, anzi alcuni brani, come "Solo tre minuti", mi fanno venire i brividi. Dopo aver riconosciuto al signor Sangiorgi che ha una bella voce, però, non gli perdono di aver riarrangiato "Meraviglioso" di Mimmo Modugno in quella maniera, ossia cambiando l'ottanta per cento degli accordi. Se si decide di fare una cover, di reinterpretare un brano, la melodia e le caratteristiche base dell'armonia sono intoccabili. Brutto è, e qui lo dico, il voler portare la "salentitudine" dei tamburelli nei concerti di un gruppo rock, anche se questo è salentino. Non mi fa rabbia il fatto in sé, questo è ovvio e naturale. Mi adiro quando penso che il novantanove per cento di chi comprerà il cd non capirà, non imparerà niente sui suoni tradizionali, perché in fondo non gliene importerà niente.
Arriviamo all'ultimo cd della "tigre di Cremona", ovviamente Mina. Il cd, intitolato "Sulla tua bocca lo dirò", è dedicato, come si sa, al melodramma. Lo trovo un grandissimo atto di presunzione: intanto trovo ingiusto cantare arie con voce non impostata liricamente, in secondo luogo credo scorretta l'accozzaglia di arie maschili e femminili. In terzo luogo, e mi fa male dirlo perché a me Mina piace, trovo che la cantante ormai sia molto fuori forma, e vittima di quella presunzione secondo la quale, siccome è famosa, tutto le viene perdonato.
Troviamo, andando avanti, l'ultimo cd di uno dei pochi veri rapper che abbiamo in Italia, il cantante degli Articolo 31 J.ax. A me non piace, perché non ho mai sopportato questo stile volgare, sguaiato e spesso arraffone, ma gli riconosco coerenza.
Troviamo poi un cd, che si intitola Helldorado, che quindi, facendo un miscuglio di inglese e spagnolo potremmo tradurre come "Inferno dorato", presentato dai Negrita. E' un cd di un'ipocrisia, faziosità e qualunquismo disarmanti. Questo gruppo, infatti, è uno dei tanti che ha iniziato a cantare in modo "protestatario" solo quando, ultimamente questo stile ha fatto finta di tornare di moda.
Troviamo poi l'ultimo disco del cantante di Zocca Vasco Rossi. A me lui non è mai piaciuto, meno ancora mi piace adesso che basa il suo successo sul suo moralismo da "uomo che ce l'ha fatta".
Devo dire che saltare il cantante americano che segue un po' mi amareggia, perché è il grande Leonard Cohen, ma le regole sono regole e si seguono.
Troviamo, dopo aver saltato svariati posti, il best of (mamma mia!) dei Gemelli diversi. Devo dire che non mi sono mai piaciuti, infatti, anche loro, per fare canzoni di denuncia hanno sempre voglia di fare venire un magone così alla gente, mentre per le canzoni d'amore si divertono troppo a copiare e rubare parti intere di brani altrui.
Un altro cd sanremese lo troviamo in quarantesima posizione, ed è esattamente quello del "neomelodico" Sal Da Vinci. Mia sorella Maria Chiara, che non è assolutamente cultrice della canzone napoletana di nessun tipo, una volta, poco dopo sanremo, mi viene a chiedere tutta sconvolta se io sapessi chi era questo signore, a lei completamente sconosciuto, di nome Sal Da Vinci. Io le dissi che lo conoscevo, ma quello che mi allarma è che ora lo conosce una bella fetta del popolo italiano.
Troviamo poi un cd di Amedeo Minghi che, dal titolo, ha tutta l'aria di essere una raccolta. A me, e ve lo confesso, il cantautore romano non è mai piaciuto, anche se ritengo capolavori tre suoi brani: "La vita mia", "L'immenso" e "1950".
Voglio esprimere per una volta la mia contentezza, perché al quarantaquattresimo posto di questa classifica, troviamo Fabrizio de Andrè, con uhna delle antologie più complete mai realizzate, "In direzione ostinata e contraria".
Sono ancora una volta felice, perché anche il prossimo cantante si merita la mia stima, ma non approvo la furbata che ha fatto, di pubblicare un concerto acustico avvenuto in Francia ventitré anni fa. Il cantautore di cui parlo è Angelo Branduardi, il quale, mi amareggia dirlo, non riesce assolutamente ad emozionarmi se lo sento dal vivo, anche perché è totalmente stonato. Mi pare di non sbagliare se dico che punti troppo sullo spettacolo e sulla sua cultura accademica, che "infiora" sicuramente chiunque si voglia dedicare alla musica leggera. Ma è possibile costruirsi una carriera solo su queste caratteristiche culturali non avendo spessore sull'arte che si decide di abbracciare ossia il canto?
Troviamo poi Luciano Ligabue, un altro grande stonato famoso. Ci sono alcune ballate che non mi dispiacciono, da "Ho messo via" a "Metti in circolo il tuo amore", ma ultimamente mi pare che si stia ripetendo molto, limitando tra l'altro il suo strumentario all'essenziale del rock.
Ecco l'altra rappresentante salentina, dopo i Negramaro, nello sfavillante mondo del pop. Mi riferisco a Dolcenera, che io non ho mai sopportato, anche perché, da accanita fan di De Andrè, non mi è mai andato giù che abbia usato un suo personaggio come nome d'arte, pur esprimendosi in maniera diversa, e direi antitetica, rispetto al grande genovese.
Il prossimo italiano andrebbe accolto con un'espressione di meraviglia: "Oh!". Infatti ci riferiamo a Giuseppe Povia, il cantante per bambini un po' stupidini, per incominciare ad annichilirli sin dalla più tenera età.
C'è poi un cd di Alice, cantante che ha segnato la mia infanzia, anche se la "mia" Alice non esiste più da un pezzo. Il cd che io amo, che resta l'unico contatto con questa artista che in fondo non ho mai capito, è "Alice canta Battiato", regalatomi da una mia dirimpettaia.
Ecco a voi Raf, con il cd "Metamorfosi". Questo artista, secondo me, è tra i più inutili del panorama italiano. Inizialmente, quando aveva incominciato ad accarezzare la possibilità di cantare in italiano, aveva anche trovato una certa melodicità sicuramente compatibile con la nostra maniera d'essere. Con gli anni, però, ha fatto capolino il suo spirito inglese, che lo ha portato a sperimentare un pop sempre più elettronico ed alienato.
Arriviamo ad un dente che non vedevo l'ora di togliermi, al primo cd di Paolo Conte che al solo pensiero mi fa venire l'esaurimento nervoso, il signor "Psiche". Mi ricordo, cari signori, che io, "contiana" puro sangue, andai, sotto un diluvio universale, la mattina che uscì questo cd, ad ascoltarlo dalla mia negoziante di fiducia. L'unico brano che ritengo bellissimo, ma io non compro mai un cd per una canzone, per quanto bella essa sia, è "L'amore che". Qui, infatti, l'avvocato astigiano, più che rimanere se stesso, si è fatto prendere dagli "strumenti senza letteratura", ossia dall'elettronica, quindi così ha praticamente messo i due piedi fuori da casa mia.
Eccoci qui a fare i conti con un artista che ha partecipato al festival di Sanremo, anche se io non ho mai sentito la sua canzone, il toscano Marco Masini. A me non è mai piaciuto, l'ho sempre trovato triste e qualunquista.
un altro caso limite, insieme a Battiato, per quanto riguarda l'impossibilità di andare fuori dal proprio repertorio, è quello di Pino Mango. Infatti, il suo ultimo cd, che è purtroppo tutto di cover, non si può assolutamente ascoltare. Ne ho sentite poche, ma ad esempio, la canzone "Amore bello", duettata con Claudio Baglioni, mi ha letteralmente ferito le orecchie.
Subito dopo troviamo Vinicio Capossela, ma non quello dei tempi migliori rievocato nel post precedente, ma bensì quello delle stravaganze. Voglio dargli atto del fatto che, nonostante tutto, ha avuto una riappacificazione con il nostro comune strumento, quel pianoforte che per dieci anni nei suoi cd non si era più sentito. A me, però, questo non basta, e dico che la sua, più che ricerca, è furberia allo stato puro, poiché è completamente caduto di voce. Sono lontanissimi i tempi in cui, poco dopo l'uscita di "Camera a sud", prima d'un concerto in un teatro di Perugia, egli venne a casa mia e mi suonò una "Che cos'è l'amor" che tutt'ora mi risuona nelle orecchie.
Si arriva poi al capostipite dei neomelodici napoletani, il pianista e cantante Gigi d'Alessio. Ritengo particolarmente vergognosa la sua popolarità, poiché tra i nuovi cantanti napoletani è il più scadente, il più povero e banale. Io ho sempre stimato molto Finizio, che non è mai stato capito, forse perché punta all'acustico senza essere pesante, caratteristica che invece di giovare ad un artista in Italia gli porta sfortuna.
Il prossimo disco è stato traghettato dal festival di Sanremo verso una sicura popolarità, anche se credo che chi abbia veramente a cuore la memoria di De Andrè si rifiuterà di acquistarlo, o anche solo di sopportarlo. Mi riferisco a PFM canta de Andrè". Il cantante e batterista di questo gruppo, da quando ha riformato la compagine storica, e soprattutto dopo la definitiva consacrazione del progetto al Concerto del primo maggio a Piazza San Giovanni, sta puntando e sfruttando Faber per rinascere e far scordare la propria nullità e il proprio decadimento interpretativo. Addirittura il Festival di Sanremo, nel decennale della morte di De Andrè gli ha reso omaggio, permettendo un'altra vetrina al gruppo che è riuscito a far fare a De Andrè le sue cose peggiori (i due live di fine anni '70).
Arriviamo poi ad un artista bolognese che, preso dalla vergogna per "Cinquanta special" e le prime canzoni che lo avevano portato alla popolarità, si è ora messo a fare l'intellettuale, l'impegnato e lo scrittore. Cesare Cremonini, questo è il suo nome, non sarebbe neanche un malvagio pianista, ma siccome non si ha più voglia di essere artigiani della musica, condizione che porta con sé il decidere di fare musica strumentale, costui ha deciso di cantare pur avendo la peggiore voce maschile apparsa nel territorio commerciale italiano negli ultimi venti anni.
Un artista immancabile in classifica, poi è il laziale Lucio Battisti, che troviamo con un cofanetto triplo riepilogativo della sua avventura con Mogol. Io, pur avendo sempre ascoltato Battisti perché piaceva a mio padre, l'ho sempre ritenuto un disprezzatore dell'arte come forma nobilitante. Ho sempre pensato, infatti, che l'arte, pur avendo il dovere di restare legata alla vita, la deve raccontare da un'altra dimensione. In poche parole, preferisco dei testi che siano giocati anche un minimo su risorse letterarie, a pezzi scritti come la lista della spesa. Mogol, poi, non mi sta particolarmente simpatico, ma queste sono cose personali.
Troviamo poi la voce più nasale d'Italia, il ragazzo "nato ai borghi di periferia", il romano Eros Ramazzotti. Con gli anni, dopo aver fatto qualcosa di carino, è completamente finito al servizio dei pubblici stranieri che lo idolatrano, mantenendo, come unico legame con la patria, la lingua in cui pensa e si esprime.
C'era una volta un bluesman, italiano, che aveva fatto un percorso coerente che lo aveva portato verso album belli come "Oro incenso e birra", o lo stesso "Blues". Dopo un live al Kremlino, registrato con il titolo di "Live in Kremlin", pensò che la sua esperienza di bluesman potesse considerarsi finita, perché aveva fruttificato in un cantante di dance demenziale e commerciale. Poi, forse segretamente pentito, fece il cd "Fly", che conteneva "Dentro agli occhi", ma niente di più.
Ed ecco qua il "Ragazzo della via Gluck", "Il re degli ignoranti" e dei qualunquisti, che ha dato una possibilità a chi già era sdoganato di sdoganare ancora (Sud Sound System), relegando all'oblio, da ormai quarant'anni a questa parte, chi gli poteva dare filo da torcere. Infatti: chiedetevi perché mai si parla di Don Backy? Perché è Celentano che fa pressioni, "o me o lui". Celentano, pur non avendo più niente da dire, fa raccolte su raccolte ed è ancora sulla cresta!
Carissimi acquirenti di dischi nei centri commerciali, vi dico ufficialmente che siete una massa di ignoranti e pecoroni. Come si fa a relegare all'ottantanovesimo posto della classifica uno dei cd più belli e coraggiosi usciti negli ultimi anni? Va bene, e questo un po' attenua la vostra colpa, che neanche i negozianti spesso riconoscono il valore a questo cd (Musiche ribelli, di Luca Carboni), confondendolo con tutti gli altri cd di cover che abbiamo incontrato durante questa classifica. Io che lo conosco, lo possiedo e lo amo non lo posso confondere. Infatti, non è la solita accozzaglia di temi più o meno classici del passato, ma un vero e coraggioso omaggio ai cantautori. Quali cantautori? Quelli per cui questa parola si addice, coloro che davano messaggi tramite le canzoni, che pizzicavano la coscienza della gente con l'arte, e nonostante questo non si scordavano, ed alcuni non si scordano, di essere soprattutto artisti.
Poco sopra avevamo trovato il rifacimento da parte della PFM del repertorio di De Andrè, mi consola il fatto, che l'ultima decina di posizioni inizi proprio con uno dei volumi del doppio, che comunque, lo ribadisco, reputo la peggior cosa mai fatta dal genovese. Infatti, l'ho già detto ma "repetita iuvant", la contaminazione, per essere effettiva, deve essere doppia e non univoca. Purtroppo, secondo me, in questo progetto, solo De Andrè si contamina, acquistando uno stile da rockettaro che non gli si confà, mentre solo molto raramente, si riescono a sentire, o ad intuire, echi delle vere e storiche influenze della formazione del genovese. E' vero che il cantautore aveva paura del pubblico, e forse devo anche dire che era ancora ingenuo, ma si è veramente lasciato maltrattare dalla PFM. Quel che è peggio, forse, però, è che, spessissimo, chi inizia ad ascoltare De Andrè con questi dischi, non riesce poi a capire la grandezza del De Andrè precedente e successivo.
Devo darvi, carissimi acquirenti di dischi, ancora una volta degli ignoranti. Ho trovato, infatti, al novantaseiesimo posto di questa hitparade, il capolavoro della Mannoia "Il movimento del dare". Il cd è già stato recensito qui, quindi non mi dilungherò a descriverlo, voglio solo darvi un consiglio: riscoprite la gratitudine nei vostri comportamenti quotidiani, così può darsi che l'apprezzate.
Questa volta sono felice, perché l'artista che devo citare mi ripugna. Parlo di Morgan, cantante che sta sistemando la sua carriera malandata, tramite "X factor" e tramite i capolavori altrui, tradotti in italiano ed in inglese, perché così nel mondo intero li capiscono. Vorrei farvi notare che, fuori, la nostra lingua è ancora molto apprezzata, e noi ne dovremmo avere più orgoglio. Oltretutto, data la superbia di inglesi ed americani, che le lingue straniere neanche se le imparano, non capisco perché si debba tributare loro tutto questo grande amore.
E' uscito, tra gli altri, il disco di una delle voci più insipide della canzone italiana, il cantautore torinese Umberto Tozzi. Avrei di molto preferito, e parlo con franchezza, che avesse sfondato suo fratello Franco, che per lo meno, negli anni '60, aveva lanciato quella bellissima "Per i tuoi occhi verdi".
Così si chiude il nostro percorso nella classifica e tra i suoi artisti, il consiglio che vi do è di ascoltare qualsiasi cosa meno che il pop.

martedì 14 aprile 2009

Commento alla puntata di "Effetto notte in Italia" del 13 aprile 2009

Carissimi lettori, sto ascoltando adesso, tramite una web radio, il programma "Effetto notte in Italia" di Blusat 2000, canale satellitare di ispirazione cattolica. E' una puntata sul jazz italiano e ve la voglio commentare.
Devo subito dire che ho perso il primo brano del programma, che, dicono, sia stato di Paolo Conte. Dopo è arrivato un bellissimo pezzo di Buscaglione "Che bambola". Devo subito dire che, Immediatamente dopo è iniziata una serie di pezzi che, solo in maniera un po' dubbia io definirei "jazz italiano", perché secondo me, questa espressione, più che indicare chi fa jazz in Italia, indica chi ha cercato una via italiana al jazz.
Comunque, si è sentita la versione jazz, incisa da Gino Paoli nel 2007 per il cd "Miles Tones", della canzone "Una lunga storia d'amore". Subito dopo è arrivata una versione, insopportabile secondo me, di "Senza fine", strumentale, e con improvvisazioni troppo free per i miei gusti.
Subito dopo è arrivata "Sono stanco" di Bruno Martino, reinterpretata, però, da Niky Nicolai, insopportabile e sguaiata, perché, neanche lei, cerca una via italiana al jazz.
Adesso stiamo ascoltando "L'inverno e l'estate" di Ivan Segreto, un giovane siciliano che, sinceramente, avrebbe fatto meglio a mantenere "segreta" la sua passione per la musica. Qui, l'unico legame con il jazz, è la presenza di Paolo Fresu, trombettista sardo, neanche di mio particolare gradimento.
Il brano, se dovessi descriverlo, è un pezzo un po' new age, meditativo, con strumenti inclassificabili, intellettualoide, come tutta questa musica che è commerciale, ma siccome questa parola ha una brutta reputazione generalizzata, finge di essere underground nel peggior modo possibile, ghettizzandosi da sola.
Devo dire che, per la prima volta da quando ho acceso la radio, sto provando piacere. E' partita, infatti, una bellissima canzone di Vinicio Capossela, di quando non si era ancora perso dietro i violini a tromba, le tarante e le stravaganze. E' un brano tratto da Camera a Sud, intitolato "Non è l'amore che va via". Il piacere, però, carissima Paola de Simone e carissimi compagni d'avventura di Inblù, non mi toglie il gusto e il mordente della polemica. E' vero che Capossela non fa propriamente jazz, ma vi sono alcuni pezzi, sempre in cd come "Camera a sud", o "All'una e trentacinque circa", che sarebbero stati molto più compatibili con un'analisi dell'italianità nel jazz. Purtroppo non so citare titoli, perché "Camera a sud" è da molto tempo che non lo prendo, e gli altri album ce li ho in cassetta, quindi addio.
Adesso è partito un brano in dialetto napoletano, perché l'esotismo in questi casi fa sempre nicchiettina undergroubnd, che non saprei cosa ci "accucchia" con il jazz, dato che musicalmente è un brano soul. Il soul, nato intorno agli anni 30-quaranta, pur essendo spesso interpretato dagli stessi cantanti di jazz, ha subito preso una fortissima autonomia, che l'ha portato, appunto dagli anni 70 in poi, ad essere una musica prevalentemente o fortemente basata sugli strumenti elettronici od elettrici. Il jazz, lo ricordo solo ai più sprovveduti, e sono confortata dalla testimonianza di una persona a me vicina che ne è grande cultore, è ancora prevalentemente acustico, e le sperimentazioni con l'elettronica o gli strumenti elettrici, sono appunto ancora delle sperimentazioni.
Ora, è vero che questo si potrebbe considerare free jazz, ma, credo, che tecnicamente sia rock progressivo, quindi esula da una seria trasmissione sul jazz italiano. Ma, diciamocela tutta per favore, questa sera stiamo assistendo ad una pagliacciata allo stato puro. Pensate, il brano in questione era dei Napoli centrale, evviva!
Ora è partito un brano che, quantomeno, strutturalmente, può ricordare il jazz, specialmente la ballad jazz, lenta e suadente. E' un brano di Amalia Grè, una delle tante cantanti che, sinceramente, non si sa cosa abbia fatto dopo quelle due partecipazioni, non malvage certamente, al Festival di Sanremo. Comunque, ragazzi, qui si parla di "musica italiana che scimmiotta o sfrutta il jazz", in qualche suo aspetto, ora non importa quale. Non mi venite a dire che questo è il jazz italiano, o per lo meno non mi venite a dire che questa è la via italiana al jazz. La cantante sta cantando, scimmiottando completamente le cantanti americane, che fanno cinquantamila vocalizzi durante mezza parola. Vergogna!
Ora sto provando vero piacere, e finalmente posso parlare di qualcosa senza ombra di polemica. E' infatti arrivata ad avvolgermi una canzone di un grande cantante napoletano, il crooner Joe Barbieri. L'unica osservazione, forse, è che non si può magari definire solo jazz italiano, ma si dovrebbe definire bossanova italiana. Comunque, se non altro, lui riesce ad unire bene la nostra melodicità con uno stile che sente particolarmente suo, senza né tradire noi e la nostra maniera di essere cantando, né la musica brasiliana. Armonicamente è comunque brasilianissima, ha delle parti d'archi che ricordano molte incisioni di Caetano Veloso con Morelembaum (il suo violoncellista).
La chiusura è affidata a Nicola Conte, che fa un samba molto brasiliano, un po' simile a ciò che trent'anni fa poteva fare in qualche caso Piero Miliani. Non è male, ma devo dire che a puntata finita non posso dire che si è sentito jazz italiano nella maniera che intendo io.
Non mi piace, e lo si può vedere su uno dei post dedicati alla Notte Della Taranta, fare solo la distruttiva. Voglio ora, infatti, presentare una scaletta ipotetica, da cui probabilmente si dovrebbe sfrondare qualcosa per farci un'effettiva puntata di "Effetto notte in Italia", ma che comunque io ritengo coerente con il tema scelto.
Innanzitutto, anche se le interpreti sono straniere, dato il profondissimo legame che queste avevano avuto con l'Italia negli anni '30, si potrebbe iniziare con un qualsiasi brano del Trio Lescano. Lo so: sto infrangendo un tabù, in Italia la musica è nata negli anni '50, che si ascoltano pochissimo, e ad ascoltarla si parte dai Sessanta.
Passerei poi, con sommo piacere, a qualche brano di gente come Ernesto Bonino, Natalino Otto, Alberto Rabagliati, tutti ovviamente presi in registrazioni degli anni Cinquanta e Sessanta, per la loro indubbia superiorità qualitativa, non dimenticandomi, ovviamente, dell'insuperabile Quartetto Cetra.
Si potrebbe poi ascoltare qualche brano di Fred Buscaglione, a cui fortunatamente è stato dedicato spazio, affiancandolo, però, al suo amico e rivale Renato Carosone (ecco chi doveva dare il tocco napoletano, non i Napoli Centrale!).
Arrivando agli anni Sessanta, si sarebbe poi potuti passare a Lelio Luttazzi, o in veste di cantante con la spassosissima "Legata ad uno scoglio", o in veste d'autore, ad esempio con "Bum! Ahi! Che colpo di luna!", interpretata da Mina.
Si potrebbe omaggiare poi Bruno Martino, ascoltandolo cantare e non parlandone ipocritamente, per poi passare a Paolo Conte, di cui proporrei, ad esempio, brani come "Sotto le stelle del jazz", "Lo zio", "Via con me", ed altre. (Devo ammettere che non so cosa è stato trasmesso del cantautore astigiano). Si potrebbe, poi, per citare un esempio di persona che si è fatta "contaminare" dal jazz, perché su questo in fondo verteva la puntata, omaggiare Renzo Arbore, con uno dei suoi numerosi brani swing. Si sarebbe potuto, da un lato far ascoltare brani del primo cd del foggiano come "Il clarinetto" o "Vecchia mutanda", o mostrare un qualsiasi brano del disco "Tonite Renzo swing", oppure, ancora, mostrare qualcosa, non so fare esempi concreti, dal cd "Vintage ma non li dimostra".
Per citare altri "Contaminati", molto più "contaminati" di Arbore perché hanno sfidato il jazz a perdere un po' della sua naturale struttura cameristica od orchestrale, si potrebbe poi presentare qualche brano di cantautori come Piero Ciampi ("Don Chisciotte", "Tu no", "Livorno", "Il merlo", ecc); Umberto Bindi (Il nostro concerto). Perché non ricordarsi, poi, del bel progetto dedicato da Cristian de Sica alle canzoni swing italiane dagli anni '30 agli anni '50? Perché non presentare anche qualcosa da altri progetti di riappropriazione di quel repertorio come "Abbassa la tua radio", al quale avevano partecipato numerosi cantanti idolatrati da tutte le radio commerciali (che è quello che Inblù è diventata) come Irene Grandi? Perché, se si vogliono citare delle versioni jazz di brani pop, non si ricorre mai al bellissimo "Strane stelle strane" di Enrico Rava?
Ultimissima: dove è andato a finire il grande amore dimostrato da una gran parte dei giornalisti musicali per Nicola Arigliano? Ve lo ricordate? Lui sì che avrebbe meritato di essere tra i citati, insieme ad un musicista che da diverso tempo non sento più per radio, quel grande Sergio Cammariere, di cui io, dalle colonne di un quotidiano locale perugino, avevo parlato un anno prima che tutti lo cominciassero ad idolatrare dopo la sua prima, bellissima e trionfale partecipazione a Sanremo. Perché non citare, ascoltandola, come curiosità anche "Dopo il liceo che potevo fare", segno di una "contaminazione" jazzistica da parte di Edoardo Bennato?
Ascoltatevi, carissimi lettori, un po' dei brani e dei cantanti che si citano in questa coda d'articolo, capirete così cosa intendo io per jazz all'italiana, soprattutto via italiana al jazz.