Carissimi lettori, questa sera mi va di riparlare di musica salentina, musica della quale ho una grandissima nostalgia, perché qui non si muove niente che la riguarda né sul territorio né nei posti dedicati all'informazione.
Per sfogare la passione repressa, proverò a parlarvi di "Sangue vivo", che è l'unico cd degli Zoè al quale non avevo ancora dedicato una monografia. Le ragioni di questa assenza sono presto spiegate: è un album che non amo, che riesco ad ascoltare pochissimo (ad esempio se sono stanca od arrabbiata mi fa peggio!), e comunque non mi piace né come è cantato né come è suonato (io inizio ad amare Zoè dal terzo cd in avanti).
Venendo tecnicamente al cd, esso si apre con quella che da molti è considerata una delle più belle pizziche del gruppo, quella "Don pizzica" la cui buona esecuzione fa spaccare la testa a più di uno. Voglio ammettere che la parte di organetto ha il suo fascino, ma non mi vanno giù né la parte di violino né le parti cantate (qui non mi piace neanche la voce di Cinzia, è tutto dire!). Non sono mai stata un'ammiratrice, in ambito di "riproposta" o di composizioni originali, come questa è, del riuso delle tecniche degli anziani, che qui si pratica in maniera molto forte. Sono molto legata comunque a questo brano perché l'ho suonato con una persona che mi è carissima, l'unico allievo di Donatello Pisanello in tutta Italia, l'organettista di Acquarica del Capo Antonio Corsano (www.myspace.com/antonio corsano, www.myspace.com/maracinesente, www.myspace.com/fadodafne). Il testo, scritto da Cinzia Marzo, è molto interessante perché, nella sua disarmante semplicità, ci invita a riscoprire le cose e ssenziali della vita, cosa che lei ama fare spesso (pensate anche a "Ijentu", ma soprattuttto a "Menevò" e "Pizzicannella", tratte rispettivamente da "Il miracolo" e "Maledetti guai".
La seconda traccia del cd, di cui Winspeare ha fatto un uso completamente inappropriato nel film di cui questo disco è colonna sonora, è "Ijentu", una delle pizziche più liberatorie e belle mai scritte. E' meraviglioso l'accompagnamento dell'armonica di Umberto Panico, che, secondo me e non solo, è tra i migliori armonicisti salentini (per me è il migliore, basta eufemismi!).
Il brano, composto come se si trattasse di un'antica pizzica adatta per tirare di scherma, ha un testo a strofe sciolte, quindi completamente tradizionale, con vette di poeticità completamente insuperabili. Il modo di cantare di Cinzia Marzo e Raffaella Aprile, ancora è impreciso ma Cinzia, aiutata dall'armonica di Umberto Panico che parole testuali sue "è l'unico che mi fa tarantare a me", riesce davvero a tarantarsi, scoprendo una semplicità che, forse, il gruppo ha perso con gli anni, anche se in contropartita ha acquistato un'interiorità ed un'essenza quasi alata che lo rende magico. Forse questa ragione spiega, ma non giustifica, l'allontanamento della gente dagli "Officina" ultima maniera, che forse, stanno premendo troppo l'acceleratore su un'arte che, ormai, è satura di se stessa (ogni tanto per andare avanti bisogna anche tornare indietro!).
Andando avanti nell'ascolto del cd, si arriva ad una "Nifta maiu", bellissimo canto griko che mi ricorda un inimitabile concerto degli Officina Zoè nel Salento, che ne contemplò un'interpretazione meravigliosa che mi si è assolutamente scolpita nel cuore. Il brano, testo tradizionale musicato con sapienza dal trio Pisanello-marzo-De Nicola, è interpretato con sentimento ma non perfettamente da Raffaella Aprile, con la cui voce dialoga un flauto dolce suonato da Cinzia. Il brano, ancora una volta caratterizzato da una grande semplicità, è un ritmo binario, che in alcuni momenti diventa un qualcosa di paragonabile ad una beguine.
Bellissimo è l'accompagnamento della tammorra muta, strumento meraviglioso che, purtroppo nel Salento è sottovalutato in nome dell'idolatria imperante del tamburello, che si usa anche in ritmi dove non può dare niente.
Continuando si arriva al brano che, giustamente e furbescamente, Edoardo Winspeare ha usato per i titoli di coda del film di cui questo cd è colonna sonora: la bellissima "Filia". Divagando, mi verrebbe da dire che poteva usare la stessa furbizia con "Menevò", facendola sentire nel "miracolo" non solo durante la ripresa dell'inseguimento del motorino da parte dei poliziotti, ma anche in corrispondenza della scena in cui il personaggio di Cinzia fa tutto quel putiferio prima di essere salvata dal bambino miracolato, ma questa è un'altra storia appunto. Parlando di"Filia" è una pizzica meravigliosa, che soprattutto ai concerti di Zoè crea un'atmosfera che è raro trovare. E' un brano in minore con interessanti alternanze tra passaggi di coppie di accordi minori e maggiori, che veramente permettono di dire che Pisanello abbia creato una forma di pizzica nuova senza aver poi stravolto la tradizione (questo forse il gruppo lo sta facendo un po' troppo ultiamamente, anche se ottenendo frutti più che buoni come "Cu li suspiri").
Subito dopo si arriva ad una canzone che è tutt'ora una delle più amate da moltissimi fan degli Zoè, la pizzica "Sale". Sinceramente non so se dire che è una pizzica di Ugento rielaborata con armonizzazioni fuori dal comune, oppure se è una melodia creata come una variante d'autore di questa stessa pizzica. Comunque, ciò che non mi è mai andato giù di questo brano, lo dico senza peli sulla lingua come sempre, è questo unico accordo che accompagna tutta la struttura della pizzica, che già di per sé ha un ritmo ossessivo, quindi così diventa insopportabile. Oltretutto non amo mai quando si mettono a contatto strofe tradizionali con giri d'accordi non tipici della tradizione. Da questo punto di vista, e non solo da questo, amo molto di più una "Cu li suspiri", che inizia ad innovare fortemente solo dopo che il canto si tace.
Ho sempre amato moltissimo la parte finale di questo testo, fortemente filosofica e, ancora una volta, incentrata sull'importanza del saper vivere la vita a contatto con ciò che è veramente essenziale. Nella discografia dell'"Officina", questo messaggio lo si può ritrovare benissimo in brani da me molto amati come "Menevò" ("Il miracolo") e "Pizzicannella" ("Maledetti guai").
Continuando con "Sangue vivo" arrivano ora due tradizionali, lasciati, per fortuna, allo stato puro quantomeno per quanto riguarda le melodie. Nel primo, purtroppo, c'è un'invadentissimo accordo unico di chitarra, che va a disturbare l'ascolto della tellurica vocalità salentina di Cinzia Marzo e Raffaella Aprile, che si può recuperare, anche se per pochissimo tempo, durante la visione di "Sangue vivo", dove questo brano, che è l'esempio che il gruppo offre all'impresario barese che deve rappresentare il suo futuro, è eseguito a cappella, facendo di "Mamma la luna" una delle vette della riproposta salentina. Il consiglio che vi do tra le righe, ovviamente, è di guardarvi il film con un occhio di riguardo a questo gioiellino.
Il brano è un lamento tristissimo, pieno di quella tristezza che oggi dà fastidio, perché ricorda che questa musica non è stupidamente allegra come noi la vogliamo vivere, ma ha un respiro malinconico che la rende magica.
A proposito di tragedie che il popolo italiano tende a dimenticare, ecco un canto di emigrazione, direttamente dalle profondità del folklore salentino, intitolato "L'America". Risale probabilmente all'inizio del Novecento, e l'"Officina" ce ne dà una versione veramente sofferta ed emozionante. L'unico problema è il ricamo barocco della chitarra, che non permette a Cinzia, unica voce del canto, di esprimere tutto il dolore della donna che vede sfumare la pace della sua famiglia per la partenza del marito.
Subito dopo, in nome di quella sinergia tra tradizione e modernità che forse è la virtù più grande di questo disco, che non riesce ad essere offuscata neanche dai suoi numerosissimi difetti, arriva una delle pizziche meglio riuscite dell'"Officina", se non fosse che... il canto di Cinzia qui mi risulta inascoltabile, aiuto! Mi riferisco alla bellissima "Macaria", spudorato grido di rivolta contro una società completamente venduta al denaro ed al potere. Il mio amore per questo brano, devo chiarire questo dato ancora prima di parlare della sua parte strumentale, è nato da quel concerto del 2005 di cui si è già parlato in questo stesso post, dove Cinzia ne dette una versione forte ma serena, che tutt'ora mi risuona nel cuore. Qui, per la prima volta, Cinzia usa i flauti doppi calabresi, che faranno poi capolino altre due volte nella discografia del gruppo, in altri due brani composti da Cinzia, esattamente in "Menevò" ("Il miracolo") e "Pizzicannella" (Maledetti guai". Non sopporto, non solo qui ma durante tutto il disco, gli assoli di tres cubano, strumento che mi piace solamente suonato nel contesto proprio. Nella pizzica, sinceramente, ci vedo meglio il violino ed il mandolino, oppure, se proprio vogliamo fare gli esterofili, un oud mediorientale (Cinzia mi ha detto che Ruggero Inchingolo lasciò le sessioni di registrazione di Sangue Vivo mentre esse erano già in corso, sicuramente con lui questo cd sarebbe stato un capolavoro!).
Meraviglioso è, ancora una volta, l'uso moderno di tecniche ed intervalli tradizionali, soprattutto le interessantissime quarte aumentate dell'organetto di Pisanello.
La penultima traccia del cd è un bellissimo tema strumentale, dove le voci sono strumenti coadiuvati solo da dei bassi meravigliosi di organetto, che già annuncia alcune delle migliori soluzioni del periodo successivo dell'"Officina", a partire da alcune parti della prima traccia de "Il miracolo". la melodia, che si snoda semplicemente per terze, è veramente un esempio dorato di come si sarebbe dovuta evolvere la musica popolare salentina, invece di andare verso questo generale stravolgimento della tradizione. Quando faccio queste osservazioni non mi riferisco mai agli Zoè, il cui lavoro è andato di paripasso con la maturazione della coscienza vocale di Cinzia Marzo, che con gli anni, per fortuna, ha perso la sua ritrosia nel far sentire la magica dolcezza della sua voce. Mi ricordo benissimo che quando la conobbi meglio, in una bellissima serata romana, mi colpì molto questa dolcezza meravigliosa che io non le avevo mai sentito, infatti si può dire che lei abbia iniziato quasi ad esserne orgogliosa solo a partire dal "Live in Japan", disco che è quasi tutto basato su questi nuovi colori, che poi sono quelli naturali nella voce dell'"usignolo salentino".
Il cd si chiude con un altro di quei brani che io ho sempre amato, anche se preferisco sentirlo ricantato piuttosto che in disco. Il brano, intitolato "Ttuppi ttuppi", è un inno alla coerenza, questo sentimento che è ormai completamente bandito da troppi cuori. Il testo, completamente in lingua italiana se non fosse per qualche smagliatura qua e là, tipica dell'italiano dei contadini e di quelli che non lo parlano abitualmente, è un tradizionale musicato egregiamente dagli Zoè, con una melodia che è completamente nel tronco della tradizione, senza pretese di fare cose straordinarie.
Tramite questo articolo, devo dire la verità, forse mi sono ufficialmente pacificata con questo cd, che, nonostante i suoi numerosi e generali difetti, forse è veramente la più grande sintesi tra tradizione e modernità, soprattutto ora, dieci anni dopo la sua pubblicazione, quando ormai nel Salento nessuno fa veramente musica tradizionale salentina, tutti portati verso progetti che la reinventano facendone morire arbitrariamente forme e stili.
Spero di avervi fatto piacere, a me provare a raccontarvelo me ne ha fatto tantissimo!
martedì 30 marzo 2010
Officina Zoè: "Sangue vivo"
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