giovedì 31 ottobre 2013
Renato Zero "Amo capitolo 2"
Carissimi lettori, oggi mi sfogherò su questo blog su almeno due cd, usciti freschi freschi questo martedì.
Il primo di cui parlo è "Amo capitolo 2", seconda parte di un progetto con cui Renato Zero si racconta.
La prima traccia è un filtraggio di situazioni da parte della filosofia del cantautore romano.
Si potrebbe dire che il brano sia dedicato al nostro paese, a distanza di quindici anni dalla più arrabbiata "L'italiana", che apriva (ulteriore coincidenza) "Amore dopo amore".
Musicalmente siamo con questo sound tra italiano e internazionale, che sta piacevolmente caratterizzando il nuovo Renato Zero.
Il brano, dal titolo "Nuovamente" ha una chiusura con un riferimento (solo letterario) a uno dei classici della canzone italiana vernacolare, anzi della canzone classica napoletana, "'O paese d'o sole".
Nella traccia successiva, sempre ballata ma leggermente più elettrica, l'amore è declinato in maniera privata, si può dire che sia una dichiarazione, diremmo quasi da serenata.
Andando verso un sound leggermente elettronico ma restando nel melodico arriva "La fabbrica dei sogni", che potremmo paragonare a brani come "L'incontro", di quelli in cui Renato sprona il suo pubblico a vivere meglio e più forte. Melodicamente è diviso in due parti, una in tonica e l'altra un semitono sotto, ognuna con parole diverse, insomma se cercate il ritornelluccio facile vi prego di scordarvelo.
La traccia successiva permette di assaporare un rock, con sfumature anni '70 soprattutto nella chitarra elettrica d'accompagnamento. Nella bella tonalità di sol si cantano dei consigli per i quali Renato viene spesso considerato populista, mentre è un grande aiuto a vivere in maniera migliore.
Il brano si divide in due parti, dopo quella rock c'è una sezione classica in tonalità minore, che Renato canta accompagnato solo dagli archi (e non è poco).
Con "L'eterno ultimo" si ritorna alla serie di canzoni di sprone, particolarmente rivolte ai giovani.
Qui ci lasciamo avvolgere dalle sonorità acustiche, solo archi e piano avviluppano la voce di Renato, con una melodia che potrebbe ricordare certe cose dalla commedia musicale italiana condite con un p'o' di raffinatezza armonica americana.
Entra anche uno strumento che Renato Zero ha usato poco, ma quelle poche volte lo ha fatto in maniera geniale. Mi riferisco all'armonica cromatica suonata su lamella singola, che già c'era in "La grande assente", omaggio a Mia Martini, contenuto nel già citato in questa stessa recensione "Amore dopo amore".
Andando avanti si torna alle sonorità pop quasi anni '70, riviste in salsa leggermente e discretamente elettro. Con queste atmosfere si canta "Nessuno tocchi l'amore", brano che ci ha fatto scoprire questo cd.
La canzone è un inno all'amore in senso largo, anche come forma di denuncia di ogni forma di discriminazione o violenza (Renato aveva già cantato una canzone dove si spronava le donne ad avere coraggio nel denunciare la violenza, mi riferisco a "Digli no" nel disco "L'imperfetto" del 1994).
Tornando a ritmi lenti e sonorità acustiche (quelle che io preferisco sempre) arriva un brano che parla di un sentimento che oggi non ha una grande popolarità, anzi abbiamo gente che in Parlamento ci si è seduta sbandierando (e guai chi glieli tocca) sentimenti contrari. Il brano invita gli italiani, che ne hanno già passate molte, ad essere solidali. Bellissimo messaggio ad un paese che ha paura di riscoprirsi nel suo insieme. Il brano, dal titolo "Si può" (come un noto brano di Giorgio Gaber) si chiude con un assolo di chitarra elettrica inequivocabilmente blues.
L'armonica cromatica torna anche per questa specie di bossettina dal titolo "Una volta non ci basta".
Le strofe sono su un ritmo classificabile molto difficilmente, la "specie di bossettina" è il resto del brano, che comunque non ha ritornello.
Il finale sembra qualcosa di inclassificabile, tra dialogo e cantato (anzi tra sospirato e cantato). L'arte del sospiro, e lo sanno i veri sorcini, è una di quelle in cui Renato non ha rivali attendibili.
Su sonorità anni '70 solo riviste con elettronica attuale, arriva "Titoli di coda", un brano dedicato all'alienazione causata dai media che pretendono di renderci dipendenti dalla loro produzione spesso senza qualità.
La traccia successiva, ritornando alle sonorità per bambini di "Dormono tutti" di "Presente", si intitola "Via degli sciacalli n°0". Molto bella, ricorda molto "La casa" di Sergio Endrigo, da cui, forse, riprende il titolo.
Una delle canzoni di "Amo" ha anche una seconda vita. Nel primo volume era "Dovremmo imparare a vivere", nel secondo è "O si suona o si muore", inno dei musici, musicisti e musicanti. Molto bella e leggera, quasi da cartone animato (registi, pensateci!).
un brano tra il ritmato ed il classico, sulla fine di un amore, senza smielonerie e retorica, alla Renato insomma. , quello che Potrebbe ricordare, per citare brani del volume I di "Amo" "I '70", molto belli gli arrangiamenti che riportano di moda gli anni '70 anni che, l'idolatria di questa supposta contemporaneità, forse avevamo archiviato superficialmente.
La traccia successiva ci fa scoprire un Renato Zero che è emerso solo negli anni recenti, quello che canta Roma ed è orgoglioso di cantarla nel suo dialetto.
Molto bella, con quelle melodie che fanno emergere quelle qualità per cui Renato è ancora lui.
Le orchestre, come anche il testo, riportano alla Roma anni cinquanta, a quella dei grandi Trovajoli, Garinei, Giovannini...
Si torna a sonorità rock, implacabili. La melodia naturalmente nella parte in minore è stretta, quando rallenta e va in re si allarga per poi raccontare un mondo a due facce.
La parte in re dimostra una coppia che dialoga, nella parte in minore si denuncia l'ambizione sfrenata dell'uomo che reprime i sentimenti più istintivi.
Le caratteristiche musicali più evidenti, di parti specifiche del brano, sono l'inizio a cappella e l'entrata del sassofono contralto (dalle sonorità graffianti) per sviluppare il finale.
Il brano ha poi una specie di codina, dove la voce di Renato Zero torna filtrata da un mondo lontano.
Quando si torna alle sonorità acustiche, lo si fa con quella che per me, sin da quando l'ho sentita via Internet registrata negli ultimi concerti, è stata da subito uno dei miei riferimenti.
La canzone, dal titolo "Il principe dell'eccentricità", è un dialogo grato con i fan, con i quali Renato, nonostante qualche spigolosità, ha sempre avuto un rapporto franco (non se ne è mai dimenticato).
Musicalmente è una ballata molto bella, melodicamente orgogliosa di quella musicalità italiana che noi, dimostrando la nostra proverbiale superficialità, rinneghiamo in nome di una supposta internazionalità.
Bel disco, bentornato ad un artista che resta in forma e non vuole mai coprirsi di ridicolo.
mercoledì 9 ottobre 2013
Andrea Tarquini: "Reeds"
Carissimi lettori, oggi mi va di parlarvi di un bellissimo disco, acquistato stamattina stessa.
Il cd si intitola "Reeds!", di Andrea Tarquini, allievo di Stefano Rosso.
Proprio al cantautore romano è dedicato questo album, che si apre con una versione, dalle forti tinte bluegrass, di "E intanto il sole si nasconde". Il brano è cantato insieme a Luigi Grechi - De Gregori, che ha una voce molto più limpida e bella del ben noto fratello.
Il brano è eseguito con una chitarra accordata nell'inconfondibile tonalità di re maggiore, così cara ai bluesman.
La stessa atmosfera riecheggia nelle acciaccature del violino, nell'anima country del mandolino di Carlo Aonzo.
Alla chitarra e al mandolino è dedicata l'esecuzione del brano successivo, tratto dal vinile "Unastoria disonesta", primo e più glorioso vinile di Stefano Rosso.
La leggerezza della scrittura di Rosso viene sviluppata e fatta evolvere nella volatilità del mandolino e nel pudore con cui la schietta voce di Tarquini reinterpreta il brano, solo un po' meno ironica, per il diminuendo alla fine di ogni frase melodica.
Sempre all'universo dei valzer (poi il brano si evolve in parte verso un 5/4 alla "Take five") arriva "Anche se fosse peggio", sempre tratta dal vinile su citato.
Qui il Tarquini riprende, con personalità ma con voglia di rispettarla, quella istrioneria romanesca tanto tipica del Rosso.
Le spazzole della batteria danno un'anima leggermente jazz al brano, confermata dal giro di violino che potrebbe rimandare qualche orecchio agli assoli di Grappelli con Django Reinard.
E a ritmo di swing si va avanti, con "C'era una volta e ancora c'è", una canzone che dietro la solita ironia tenera, denuncia, neanche troppo mascheratamente, la repressione che continuava ad esserci (e ancora c'è quarant'anni dopo).
Notevole l'assolo di clarinetto, ma stupenda è la chitarra alla Reinard.
Continuiamo e arriviamo ad una ballata più blues che swing, interessanti i finali calanti che caratterizzano alcuni finali di verso, che mostrano i bellissimi toni gravi della voce di Tarquini.
Il clarinetto dà essenza immateriale ai vagheggiamenti di filosofia spicciola ed eterna tanto rossiani.
Il clarinetto e la voce dialogano, in maniera semplice, prima che lo strumento ci porti verso il finale. Ilbrano si intitola "Ancora una canzone".
La traccia successiva è una versione tra il jazz ed il folk di "Preghiera", canzone di Stefano Rosso lanciata da Mia Martini.
La melodia acquista un'anima quasi folk americana grazie alla seconda voce, che ricorda certe cose del De Gregori di qualche anno fa ("Bellamore" in primis).
Il testo che viene cantato in questa versione non è quello cantato da Mimì, che Stefano Rosso incise nel 1997, ma quello dedicato a Giorgiana Masi, militante radicale uccisa a Roma nel 1977.
La prossima traccia è "Via del tempo", un country spudorato, dove i giri di chitarra acustica dànno allegria frenetica, anche grazie al grande mandolino che dialoga con il gruppo acustico.
La successiva è un swing, uno dei ritratti di luoghi così cari a Rosso.
Il swing si snoda tra personalità, oggetti, crepuscoli tradotti in poesia.
La prossima traccia continua questo discorso, ma non siamo a Roma, siamo a Milano.
Il brano, a tempo di valzer, racconta la delusione avuta quando si aspetta troppo da qualsiasi luogo.
Anche la delusione però riecheggia in tenerezza poetica e crepuscolare, il valzer ha una leggerissima anima blues, ma la melodia è italiana e si snoda alla nostra maniera (musicisti d'oggi: imparate da Rosso).
Negli ultimi anni Stefano Rosso ha coltivato in maniera profiqua, da indipendente, lo stile del finger piking americano, tramite dischi di indubbia qualità dedicati a sue composizioni su quello stile.
Proprio a questo si ispira Tarquini per la sua "Ho capito come", che si snoda su un giro di sol abbastanza ostinato su un basso, dove si stagliano il mandolino ed il clarinetto.
Il cd si chiude con quella che più di ogni altra, insieme alla "Storia disonesta" è stata la croce e la delizia di Rosso.
La "Letto 26" di Tarquini ricorda "Everybody is talking at me". Il banjo a cinque corde si staglia con un giro ostinato e ricco, su un contrabbasso ritmico e su una chitarra che si scopre strumento percussivocon strappate.
La parte in mi diventa un caloroso bluegrass, molto bella.
Più che consigliato, per riscoprire Stefano Rosso e scoprire en passant un grande cantautore ed interprete come Andrea Tarquini.
venerdì 16 agosto 2013
Parlando di un concerto di Joan Manuel Serrat.
Carissimi lettori, mi va di parlare di un concerto di un cantautore spagnolo che amo da morire.
Mi riferisco a Joan Manuel Serrat. Parlerò di un concerto del tour "Cansiones", in cui il cantautore catalano cantava brani in castigliano provenienti dall'America Latina.
Dopo un interessantissimo parlato di Serrat che racconta con poesia e un po' di teatralità il suo alter ego, si inizia con un classico, di cui però mi è difficile parlare, perché pur conoscendolo ne ignoro la provenienza.
Sì, in America Latina cantano i loro classici con orgoglio, il brano è un brano fortemente romantico, probabilmente questo è il miglior repertorio latinoamericano.
Nell'arrangiamento si sentono echi di tango e di bolero, musiche che il cantautore interpreta da sempre.
Il secondo brano è tratto dalla track list di "Cansiones", un brano dall'anima spagnola antica, a cui il cantautore ha dato una veste flamenca.
Ma non è il flamenco esotico che usano anche troppi cantanti italiani, ma quello che i catalani conoscono bene e coltivano con arte in forma di rumba.
Il testo potrebbe ricordare, sia per certi riferimenti che per tecniche di scrittura, le poesie di Antonio Machado, poeta a cui Serrat è legatissimo perché da ormai quarant'anni lo canta con maestria quasi insuperabile.
La successiva canzone ci fa arrivare al tango, infatti ascoltiamo "Fangal", che nella voce di Serrat acquista un'anima spagnola che non riesce a distruggere l'anima tanguera che ha questo brano in ogni sua nota.
Notevole la miniorchestra di tango, il bandoneón da una grande prova della sua inconfondibile sonorità.
Serrat non trova il tempo né per imitare né per stravolgere, canta queste canzoni come se fossero sue.
Il cd conteneva un solo inedito, in un ritmo misto tra America e Spagna, concepito benissimo.
Come molti brani del miglior Serrat è in minore, il musicista catalano si trova particolarmente bene a rallegrare le tonalità minori.
Va chiarito però che non è l'allegria semplice di una salsa, il ritmo continua ad essere lento, seppure dà adito al ballo, il bandoneón ci può specchiare la sua eterea malinconia.
Riprendiamo contatto con i classici latino-americani con "Soy lo prohibido", un bolero che nella versione di Serrat diventa qualcosa di clandestino e sussurrato, quasi irriconoscibile, una parte del ritmo manca sempre.
L'essenza notturna è data da piccolissimi tocchi di spazzole e dalla solita ma insostituibile malinconia del bandoneón.
La voce del nostro non ha la limpidezza di dischi degli anni Ottanta, ma proprio questa imperfezione nel timbro, dà un'interpretazione più sentita e profonda di brani di vari generi.
A dimostrazione di ciò si continua con la "Mazúrquica modérnica" di Violeta Parra, dove si gioca dicendo delle verità ancora attuali a distanza di cinquant'anni dalla sua composizione. Per capirla noi possiamo ascoltare la versione di Maria Monti in italiano.
La versione di Serrat è un misto tra una Mazzurka, di cui ha l'incedere, e una sevillana, di cui ha l'anima "jonda" della chitarra.
Dopo una bevuta (rituale che noi conosciamo bene grazie a Guccini), Serrat riprende e torna al tango con "El último organito". Quasi provocatoriamente il bandoneón è lo strumento che suona meno, se non fosse che poi, quasi per vendetta, fa un breve ma folgorante assolo.
Il brano infatti è accompagnato dal piano e dagli archi.
Ovviamente queste non sono interpretazioni filologiche,anche perché nessuno spagnolo potrà mai cantare con l'anima di un argentino, ma non si può dire sia un progetto brutto o superficiale, anzi è un progetto da far sentire a qualcuno, magari ad esempio ai maestri concertatori della Notte Della Taranta.
Si continua con un ballenato colombiano, che se non ricordo male viene dal repertorio di Rubén Blades. La versione di Serrat ha moltissimi elementi di flamenco, a partire dallo stile del cantautore, continuando con il cajón peruviano (strumento re del flamenco), continuando con le nacchere.
Questo concerto dimostra a chi non lo sa che Spagna e América Latina sono una cosa sola.
Un brano cileno continua il viaggio, tratto dal repertorio di Víctor Jara, cantautore ammazzato crudelmente dalla miope dittatura di Pinochet.
Il brano di Víctor è quasi a ritmo libero, Serrat, mantenendo questa libertà ci mette questi colori mediterranei che gli dànno un'anima diversa ma altrettanto giusta.
Si va in Messico, si interpreta una canzone "ranchera", a cui Serrat dà un'anima notturna che non c'entra niente con le versioni delle orchestre di "Mariachi", legittime detentrici di questo bellissimo repertorio.
Nelle mani di Serrat e del suo arrangiatore il brano diventa un valzer notturno con venature jazz, con i soliti bordoni del bandoneón così umani.
Un brano che a un italiano potrebbe sembrare carnevalesco, di quei carnevali centroamericani, dai ritmi sfrenati e dall'anima afro.
Serrat, pur facendosi portare, non ha paura né problemi a cantare con il suo stile arabo e contemplativo, la festa malinconica continua.
Il concerto continua con alcune canzoni scritte dallo stesso Serrat.
Qui siamo negli anni Settanta, forse anzi saremo alla fine dei Sessanta, in uno di quei brani influenzati dalla poesia andalusa, particolarmente dalle liriche di quell'Antonio Machado che il cantautore ha approfondito come pochi.
Il brano, dal titolo "Romance de Curro y el Palmo", è uno di quelli dove con le metafore più semplici si riesce a raccontare la parte più profonda della personalità umana.
Il viaggio a ritroso continua con "Penelope", un brano dove il mito della moglie di Ulisse viene trasportato ai nostri tempi e il personaggio diventa una persona che aspetta in una stazione.
Anche questa canzone ha avuto una bellissima traduzione italiana da parte di Gino Paoli nel cd "Appropriazione indebita".
L'arrangiamento è latinoamericano e malinconico, anche perché nel brano serratiano lei non ritroverà o non riconoscerà il proprio amante, ormai troppo cambiato.
Difatti questo brano è un dolcissimo ma impietoso ricordo della caducità delle cose.
Continuando si va ad un brano tratto da un altro cd di Serrat che ho amato da morire, dal titolo "Sombras de la China".
Nel cd il brano, dal titolo "Princesa", veniva sottolineato dal flauto irlandese del grande "gaiteiro" galiziano Carlos Nuñez.
In questa canzone un personaggio parla con la protagonista augurandole un futuro migliore, come molti sperano soprattutto nei quartieri emarginati, nel mondo dello spettacolo.
Un altro brano tratto da questo stesso cd, fratello di quei brani latino-americani che hanno caratterizzato la prima parte di questo concerto, arriva a continuarne la track list.
La canzone, dal titolo "Dondequiera que estés" (in qualsiasi luogo tu stia) è una di quelle canzoni d'amore dove si dice ad un amore spento che, nonostante tutto, non lo si è voluto scordare, perché la gratitudine va oltre ogni cosa.
Lezione bellissima per troppa gente.
L'arrangiamento è intimo e notturno, le tastiere in Serrat non fanno mai quei suoni inutili che sanno solo di generi esotici.
Tornando molto indietro con gli anni si interpreta ora un capolavoro assoluto della discografia del "nano" (questo è il soprannome di Serrat), una canzone dedicata al "mare nostrum".
Questa poesia è un misto di amore passionale e gratitudine nei confronti del mare.
Anche questa noi italiani possiamo conoscerla ancora meglio grazie ad un'ottima versione di Gino Paoli, risalente alla metà degli anni Settanta.
E non poteva mancare il brano composto da Serrat per incorniciare le poesie musicate di Antonio Machado negli anni Settanta.
Il brano, dal titolo "Cantares", dopo una parte di strofe riprese da "Proverbios y cantares" del poeta sivigliano, ne contiene altre composte dallo stesso cantautore.
E il pubblico aiuta a cantare questi versi, che raccontano con poesia la tragica morte in Francia, poco dopo la frontiera, di Antonio Machado nel 1939, anno in cui finì la tragica guerra di Spagna.
Così si conclude un concerto che di emozioni me ne ha date tante, se le volete vivere basterà copiare questa url nel vostro browser:
http://www.youtube.com/watch?v=Oid84iQOKws
lunedì 1 luglio 2013
Un paio di riflessioni
Carissimi lettori, è da molto tempo che non scrivo su questo blog, d'altronde "Pizzica e dintorni" mi ruba molte energie, c'è molta differenza, anche a livello inconscio, tra scrivere in un sito di cui si cura solo il contenuto e la grafica e scrivere invece su un portale in cui si ha la responsabilità della riuscita di ogni singolo particolare.
Ciò non toglie che in certe occasioni mi viene voglia, come ora, di tornarmi a sfogare su questo diario in cui da ormai più di quattro anni distillo in maniera disordinata ed anarchica ma emotiva e profonda mia riflessioni a tutto campo prevalentemente sulla musica che amo ma non solo.
Ho scritto spesso di musica salentina, anche di ciò che secondo me non va nell'attuale riproposta e più in generale nel rapporto che i musicisti salentini hanno con il repertorio da loro reinterpretato.
Mi va di riflettere su un fatto a cui pochi forse hanno fatto caso: sempre in nome di quel famoso "estremismo" (non saprei come definirlo altrimenti) secondo cui o si fa una cosa od un'altra anche laddove queste possono e dovrebbero convivere, ora nel Salento si è passati da una ripetizione ossessiva dei dieci brani immortalati da Melpignano (il 24 agosto staremo a vedere se cambierà qualcosa) ad un'ingiusto oblio della tradizione.
Anche i gruppi degli anni Novanta, che sembravano immuni da questa tendenza, si sono ormai conformati e, orgogliosamente, dicono di essersi "staccati dal folk" (per dirla con Lamberto Probo dei miei bene amati Zoè, che poi alla fine sono quelli che hanno meno problemi ad interpretare brani della tradizione anche molto rari).
Non voglio entrare nel merito, ricordo solo la mia opinione: reinterpretare la tradizione in maniera costante fa avere i piedi ben saldi a terra e non fa diventare delle "macchine da composizione", perché componendo molto si finisce, anche involontariamente, per essere schiavi di schemi che opprimono e reprimono l'originalità, che è ciò che più si cerca quando si compone.
Spero che non si pensi che la tradizione si salva mantenendola in archivi, la tradizione si tramanda reinterpretandone i brani, non solo creando pur lodevoli archivi sonori (quello pugliese è l'antesignano e vado orgogliosa di questa iniziativa). Questi luoghi finiscono per essere (giustamente, si badi bene) luoghi di riunione per veri cultori del tema, non possono arrivare al grande o al medio pubblico.
Non si può lasciare morire una tradizione (e se non la si rinnova in repertorio la si ammazza, ma anche se non se ne suonano i brani antichi la si mutila).
Dieci anni fa, giustamente, Roberto Raheli tuonava contro la staticità del repertorio salentino in "Mazzate pesanti" mentre qualche anno dopo, in seguito alla creazione dell'Archivio sonoro di Puglia diceva "Missione compiuta".
Chissà cosa direbbe ora, che la tradizione la si suona solo in maniera limitatissima (come prima) ma in più quasi con vergogna se non in pochissimi casi.
Badate bene che queste sono mie opinioni e sensazioni, che si riassumono nel fatto che si sta più attenti a non far chiamare la pizzica-pizzica taranta che a conservare tutta la tradizione salentina, dai canti narrativi ai ballabili ai canti funebri ecc.
Anche certi gruppi tendono a rivendicare più le collaborazioni con artisti d'altro genere che il contatto con le radici del loro stile.
Sembra poi che la semplicità esecutiva sia vissuta come un handicap anche laddove non porta alla cattiva esecuzione dei brani (peccato, la semplicità è forse la principale virtù di questa musica e la principale ragione del suo successo).
Insomma, brevemente, si ricorda che si deve rispettare la tradizione, poi chi suona lo fa a corrente alternata.
domenica 14 aprile 2013
Qualche parola su "Radio Italia story"
Carissimi lettori, come avrete notato amo molto riflettere sulle scelte di un canale radiofonico che seguo con alterna passione da ormai vent'anni.
Mi riferisco a Radio Italia solo musica italiana.
Il gruppo, tramite l'etichetta "Solo musica italiana" ha pubblicato una compilation tripla dal titolo "Radio Italia story" (la parolina inglese fa esterofilo, piace tanto a chi crede che usare la propria lingua sia un obbligo).
Mi va di commentare per voi la tracklist, il disco esce lunedì 16 aprile.
Si inizia con una "Non me lo so spiegare", buona canzone di Tiziano Ferro, dall'andamento lento e largo e dal testo molto bello (non si può negare qualità al musicista di Latina, io la penso in un certo modo su di lui ma l'ho già detto).
La seconda traccia ci fa fare un salto indietro (il brano di Ferro ha circa una decina d'anni) fino al 1993 e ci riporta a "Tutte storie", album di Eros Ramazzotti che io ebbi in cassetta all'epoca perché qualcuno mi voleva far passare da Zero, che io avevo appena scoperto, al "naso che canta".
Ovviamente non ci sono riusciti, anche perché ho sempre ritenuto che il romano cantasse testi banali (e questo è uno di quelli dove pur di parlare di tutto non si parla di niente).
Molto più recente è la terza traccia che ci porta la canzone che Laura Pausini dedicò a sua nonna scomparsa. Il brano è tratto da "Primavera in anticipo", penultimo album di inediti della romagnola.
Il brano non è malvagio ma Dio mio per ora non si vedono capolavori.
Torniamo al faditico e fatale 1993 (due brani su quattro...) con "Vivere" bellissima ballata tratta da un cd che per me ha segnato invece l'inizio dell'ormai irreversibile declino di Vasco Rossi.
La ballata descrive quel senso di scoramento che Vasco viveva fortemente in quel periodo, basta pensare a "Stupendo", altra traccia del cd dove si diceva che tutte le cose in cui si era creduto negli anni precedenti erano state inutili (una "Quello che non" con meno poesia e senza pensieri montaliani).
Stupendo il brano, senza casini da rockettari frustrati.
Ma un brano sconosciuto no?
Quanto vorrei una compilation dove si andassero a ripescare i brani che non hanno fatto la storia, i "perdenti" spesso aprioristicamente.
Si va avanti con Biagio Antonacci, con una di quelle canzoni smielate che hanno fatto la fortuna del cantautore, "Iris".
Molto bella la tonalità di dodiesis minore, ma il giro sfruttato è banale, il testo mieloso.
Inno per inno, andando avanti si trova uno di quelli di chi vuole "fare" il rockettaro (se lo sei non lo devi ostentare, secondo me qui invece si ostenta anche troppo).
C'è "Certe notti" di Ligabue alla traccia successiva, tratta da un cd chiamato "Buon compleanno Elvis", il quale, secondo alcuni fan del rocker di Correggio, segna l'inizio della sua standardizzazione, sicuramente addio alla sfacciataggine di usare strumenti alternativi al trio batteria-basso-chitarra.
Dal festival di Sanremo 1995 viene la vincitrice "Come saprei" di Giorgia. Bel brano, anche perché ancora la cantante romana non si era convinta che per cantare bisognasse urlare. Il testo forse in alcuni momenti cade nella retorica, ma si può capire.
Ma vergogna! Spero che quelli di Radio Italia sappiano di chi è "Meraviglioso", scritta da Domenico Modugno, artista che, pur essendo ignorato dai media nazionali, continua a tutt'oggi ad essere uno dei punti di riferimento per gli amanti stranieri della nostra musica.
Qualcuno magari mi dirà che da fan di Mimmo dovrei festeggiare che molti gruppi reinterpretino i brani del polignanese. Io non solo non festeggio ma sono scettica. Mi chiedo: quanti lo fanno con spirito di passione sincera? Quanti lo fanno solo per coprire mancanza di creatività?
Io la penso come Cinzia Marzo (secondo me il concetto è molto trasportabile in ogni ambito): io reinterpreto perché mi viene da dentro e non sconvolgo, quando voglio sperimentare compongo io.
Le parole non sono esatte, mi sono permessa di adattarle.
Sangiorgi e compagni (Negramaro) prendono "Meraviglioso" e la riscrivono quasi, frequentando molti fan dei Negramaro ho pure scoperto che le loro cover piacciono e che noi dovremmo stare zitti. Io non ne posso più.
Si va avanti ricordando un bel brano di Elisa Toffoli, che, al contrario di Spagna, riesce a cantare tanto in inglese quanto in italiano, dimostrando di avere tanta familiarità con l'una quanta con l'altra lingua.
Il brano è interpretato con un cameo di Luciano Ligabue. Bello sia testualmente che musicalmente.
E ovviamente chi è il prossimo? Sono i Modà, con un bel brano tratto dal cd "Viva i romantici", a cui va riconosciuta un'invidiabile longevità.
Torniamo al Festival di Sanremo dell'anno scorso con la vincitrice, scritta tanto bene da Francesco Silvestre dei Modà per la voce di Emma Marrone. La canzone a me era piaciuta lì per lì, anche se mi era parso che si volesse andare dietro ad un filone, quello del cantautorale "impegnato", facendo il verso alla bellissima e sincera "Chiamami ancora amore" di Vecchioni, che scomponendo gli schemi aveva vinto l'anno prima.
Emma ha un bel timbro, se lo sfruttasse meglio sarebbe buona cosa.
"E questo no, non è l'inferno", è il Paradiso. Andando avanti c'è "Quello che le donne non dicono", capolavoro di Enrico Ruggeri e Luigi Schiavone, interpretato da una grande Fiorella Mannoia al Sanremo 1987.
Canzone stupenda tutt'ora ascoltata e cantata come poche, ritenuta a ragione inno alla femminilità.
Andando avanti si toccano capolavori, perché si continua con "La donna a cannone", che sin dal primo nanosecondo ti fa morire con quel diavolo d'assolo di piano, con quelle tre note in scaletta alle quali non resisti.
Queste sono delle scintille di creatività di cui De Gregori è spesso dotato, che gli fanno scrivere melodie e poesie folgoranti. E questa è la mia musica italiana.
La penultima traccia del cd 1 (sono tre i cd che costituiscono la compilation) è ritenuta molto bella.
Ne riconosco l'alta qualità (anche se non ho una grande stima di Battiato) ma non concordo.
Il brano in questione è "La cura", forse grande dimostrazione di gratitudine ma per me un po' affettata (preferisco e avrei gradito più "E ti vengo a cercare").
L'ultima è davvero di quelle di cui c'è poco da dire.
Cantata ineluttabilmente ogni 31 dicembre, per augurarci che "L'anno che verrà" sarà migliore di quello che si chiude, la canzone è in realtà piena di significati riposti in ogni sua più profonda piega.
Nonostante ciò è semplicissima, chi riesce a fare lavori così è artista, Dalla lo era.
Il secondo cd inizia alla grande, con "Avrai" di Claudio Baglioni, brano dedicato ad un bambino, suo figlio, al quale raccontava il futuro, in alcuni casi prendendoci, in altri lasciandosi molto indietro (d'altronde abbiamo vissuto cambiamenti imprevedibili).
Musicalmente è apparentemente semplice, ma di quella semplicità che nasconde belle difficoltà, non si suona se non sei più che bravo.
Baglioni quando la fa dal vivo ci si diverte molto proprio per questo.
E se il brano precedente era un capolavoro, il prossimo è una ballata a cui non può essere disconosciuta bellezza, ma che già non mi tocca più di tanto.
Sempre meglio del Grignani "rockettaro per forza" degli ultimi anni, quello dei primi cd, dove il rock veniva condito e quasi portato ad un'italianità molto profonda. Riascoltare "Falco a metà" è una bella esperienza nonostante tutto.
Molto più recente e banale secondo me è "La tua bellezza", uno di quei brani in cui Francesco Renga vorrebbe comporre qualcosa di liricheggiante perché gli piace l'opera.
Se uno non ha una voce più che adatta per fare certe cose sarebbe meglio scordarsele.
La quarta traccia è stata inno elettorale del PD qualche anno fa (Dio santissimo).
Una canzone lenta ma con un groove elettronico sul quale Jovanotti spalmava note stonate come nutella sul pane.
Era un Mantra, di quelli che al PD piacciono tanto come il "Cambiare si può" che Bersani ripete sempre. In questo caso era "Mi fido di te".
Tornando indietro di una ventina d'anni si ritrova "Quando", canzone di Pino Daniele colonna sonora del film "Pensavo fosse amore, invece era un calesse" di Massimo Troisi. Bellissima ballata in cui il chitarrista napoletano, invece di fare il bluesman 'e nuje trova davvero una strada sua anche melodicamente ricca, quindi arriva alto.
E ogni tanto una bella vincitrice di Sanremo ci vuole, qui c'è "uomini soli" dal Sanremo 1990. Bellissima melodia, buono anche il testo, almeno non sdolcinato, ma le loro voci sono da stenderci un velo pietoso (a me di gruppi rock italiani piacciono pienamente solo i Nomadi di Daolio).
Ritroviamo anche la seconda classificata del Sanremo 2012, dopo aver già visto la vincitrice, con "Sono solo parole" di Noemi.
La rossa ha una bella voce, ma ancora mi deve finire di convincere. Chi la paragona con Mia Martini esagera molto, Mimì aveva molto più pathos.
Ma la vogliamo smettere con questi accostamenti del cavolo?
Andiamo da una bella voce ad una bella voce mal sfruttata.
Secondo me Alessandra Amoroso potrebbe cantare belle canzoni se solo: non facesse sentire il proprio accento leccese (non mi affascina l'accento del sud sul canto), nun urlasse e cantasse testi meno patetici.
E giustamente come dimenticare colei che è stata imitata appena uscita?
Riascoltiamo, se proprio ci tenete fatelo, "Novembre" di Giusy Ferreri, brano che annunciava il cd "Gaetana" (altro che Giusy!).
Mi fa riflettere questo titolo su una consuetudine di cui mi parla spesso una mia amica siciliana: la trasformazione di nomi ritenuti troppo vetusti in nomi esotici.
Il brano ripete un ossessivo e opprimente fadiesis minore, da dimenticare, specialmente il vocalizzo che divide le strofe.
Zucchero, quando ha visto che con il blues non guadagnava sufficientemente, si è buttato su questa specie di elettro pop, che d'altronde aveva la possibilità di prendere la melodicità italiana, che prima si disprezza ma poi si sfrutta per la cantabilità. Ovviamente con questo tipo di musica ci stanno bene testi filosofici, magari criptici.
Un genere che va molto di moda è il bacarackiano-retro. Cremonini ci si è buttato con i Lunapop, non ha più smesso, questa sembra "Penny lane" dei Beatles. "Una come te", brano d'amore non banale ma la voce di Cesarotto non mi va giù!
Ehm... questa no!
"La fidanzata" è una canzone degli Articolo 31, che omaggiava la "Oh mamma mi ci vuol la fidanzata" di Natalino Otto.
L'omaggio ha per caso avuto conseguenze?
Non credo, quindi non festeggio. Non mi risulta che ci sia stato numero sufficiente di richieste di cd del grandissimo Natalino, vero swing man all'italiana.
Odio ancora di più quando i brani omaggiati sono già dei classici, di quelli che non hanno assolutamente bisogno di essere ricordati.
Sinceramente lo "Spaghetti funk" dei Gemelli diversi ha dato sempre esiti disastrosi, in "Un attimo ancora" (omaggio a "Dammi solo un minuto" dei Pooh) si salva solo per Jenny B, voce incredibile.
Qualcuno mi potrebbe spiegare il testo di "Vieni da me" de Le vibrazioni?
Siccome capisco l'italiano non ho mai capito di che parla.
Musicalmente sarebbe anche un bel terzinato, ma è insulso il brano nel complesso.
Il terzo cd rievoca la fase soul di Neffa, con una bella ballata dal titolo "Prima di andare via", dove senza tanta elettronica il signor Giovanni dimostrava di saper cantare, meglio dell'ultima dove imita troppo Francesco Bianconi dei Baustelle.
I negrita non li sopporto, qui li troviamo con una canzone colonna sonora di un film, ritmicamente non banale.
Ma non potrebbe essere proibito usare le canzoni di De Andrè come nomi d'arte?
Dolcenera la troviamo con "Ci vediamo a casa", l'ultima sua partecipazione al Festival di Sanremo.
Non banale ma nemmeno esaltante.
Sfigati sono tanti, Masini un po' se l'è cercata, anche con questa canzone, anche se ha il lieto fine.
Musicalmente non è male ma veramente è troppo triste. Mi riferisco a "Cenerentola innamorata".
Si inizia a parlare di cose belle con una delle primissime canzoni di Luca Carboni dal titolo "Farfallina". Tenera conversazione con un'emarginata, deandreiana forse.
Ma che brutta! La prossima è "Sei la più bella del mondo", io di Raf amo solo "Inevitabile follia", questa è troppo dance ma è quella dance che ha vergogna di essere se stessa.
Troviamo Mina con "Volami nel cuore", tratta da "Cremona". Io forse avrei messo, anche per ridere un po', "Dottore" cantata con Beppe Grillo, che se avesse continuato a fare le sue cose invece di ammorbarci con il m5s magari era meglio.
Si torna al 1982 con "E non finisce mica il cielo", capolavoro di Mia Martini, uscito dalla penna di Ivano Fossati, che quando non fa l'elitario è un grande.
E mi stavo quasi stupendo di non trovare gli 883, che hanno fatto parte della BRUTTA storia della canzone italiana.
Ma eccoli qua, con "Canzone d'amore". Ma perché non avete messo "Con un deca" da "Hanno ucciso l'uomo ragno" (senza Club Dogo, grazie!)
Mi stavo forse dimenticando che qui si campa di hits.
E si va avanti con Gianna Nannini con "Meravigliosa creatura", l'unica canzone bella della Nannini negli ultimi vent'anni. Bella la chitarra di Schiavone.
Incubo! Sanremo 2002, quella che ho odiato di più me la ritrovo di qui (scritto alla perugina) spiattellata. "Salirò", dance con "bussi" orripilanti. Lui non lo stimo!
Di Mengoni dico solo che non è il mio tipo, mi piacciono le voci maschili negli uomini.
Zitti che non hanno scordato De Andrè. Del cantautore di Genova c'è "Don Raffaè", l'unica d'altronde passata da Radio Italia, neanche spesso.
La penultima traccia accontenta noi "Sorcini" con Renato Zero con "I migliori anni della nostra vita" tratta dal cd del 1995. Bella e già eterna.
Si chiude alla grandissima con Dalla-Morandi e la loro "Vita".
Nel complesso bella ed obiettiva compilation, consigliata nonostante tutto.
giovedì 11 aprile 2013
Qualche parolina sugli italiani dell'ultima classifica FIMI
Carissimi lettori, diversi anni fa decisi di commentare, secondo me, una classifica FIMI.
Siccome mi divertii tanto lo rifaccio, con la più recente.
Ovviamente mi occuperò degli italiani, dato che dei miei stranieri, in questo paese dove la scelta musicale nei media ufficiali copre lo 0, qualcosa per cento di ciò che si fa, non ce n'è traccia.
Ancora il primo è Marco Mengoni, vincitore di Sanremo.
Meritato?
Boh... la canzone è bella, sicuramente, ma lui ha una voce che non mi ha mai non solo convinto ma neanche lontanamente attratto.
Ok che almeno in questo brano tiene a bada il suo falsetto, che odio, ma resta il fatto che non lo trovo dotato di tutto questo valore.
E si continua a cantare in italiano, stavolta arrivando ad un pezzo da novanta della musica nostrana, che da ormai quarant'anni fa compagnia ad un bel po' di gente.
Mi riferisco a Renato Zero e al suo "Amo capitolo primo", che è in classifica da ormai quasi un mese, e mantiene un ottimo piazzamento.
Secondo me è un disco che va ascoltato, ma oggi qualcuno ha veramente tempo e voglia di ascoltare dischi?
A me pare che ormai la musica viene vissuta come qualcosa che deve avvolgere tutto, sottofondo perpetuo. Ecco, questo cd non può essere trattato così (qui se ne è parlato all'uscita).
E arriviamo ad un gruppo che, inizialmente, mi aveva attratto, per poi dimostrarmi che compone canzoni uscite da un produttore industriale, a macchinetta, rigorosamente uguali una all'altra.
Uno di quei gruppi che compone canzoni in base a ricerche di mercato, come direbbe Fausto Amodei nella sua "Canzoni in scatola" ("Per fortuna c'è il Cavaliere", Nota, 2005).
Mi riferisco ai Modà, che tra rock e tango rock hanno ben poca fantasia, soliti strumenti, se non fosse per inserti d'archi e fisarmonica, giusto per dare un po' di colore.
L'artista che segue non lo conosco, almeno non sono cosciente di conoscerlo, ma lo vedo nominato spessissimo su Twitter.
Odio vedere la musica diventare così: in radio quasi nessuno fa più informazione musicale, gli artisti diventano hashtag e poco altro sui social network.
Andando avanti c'è Andrea Bocelli, che quantomeno dà un po' di speranza sulla sopravvivenza di una cosa molto disprezzata dai media (ma amata dalla gente a quanto pare), il "bel canto" all'italiana, o qualcosa che gli si avvicina.
Se volete sapere la mia su Bocelli, non mi ha mai finito di convincere, mi piacque solo un album ormai vecchio, quello uscito dopo "Con te partirò" (1995).
Sinceramente trovo che la fusione tra pop e lirico ormai porta frutti poco interessanti, perché il pop è diventato qualcosa che si produce in catena di montaggio: quello che si fa in Italia è molto profondamente e sostanzialmente uguale a ciò che si fa in America. Quindi le vocalità si devono addolcire, sinceramente altra storia quando cantavano musica leggera tenori come Pane, Buti, Schipa, ma d'altronde in quegli anni le frontiere tra generi erano da un lato più forti, ma dall'altro paradossalmente più malleabili, e in fondo tutto era unito da un denominatore comune chiamato italianità.
E in Toscana si resta, ma andando da qualcuno che non solo non mi convince ma non gode per niente della mia stima.
Tipico modaiolo, ossia persona che affronta i generi o si prende le occasioni per moda (sperando ovviamente anche di crearne, non solo di soccombere a quelle già create).
Mi riferisco a Lorenzo Jovanotti, che troviamo con la raccolta (uscita in un numero inenarrabile di edizioni) dei suoi maggiori successi più qualche inedito per far deigerire la pillola, "Back up, il best".
Io lui non l'ho mai stimato come dicevo prima, mi fa ancora più rabbia adesso, che tenta di cantare cercando questo "compromesso storico" tra elettronica (perché si è stancato dell'acustico dopo aver sfruttato l'etnico) e la melodia italiana alla Modugno (ho fatto un complimentone spropositato).
Sinceramente Jovanotti ha una voce da rapper, quello deve fare, non è che se stimi Modugno devi per forza cantare, anzi, stimare un artista può anche significare riconoscere di non poter fare qualcosa (ma l'umiltà in musica è merce rarissima, e non è questione di generi).
Mi fa ridere Mauro Durante che racconta della sua esperienza con Jovanotti come di una specie di consacrazione per lui, con un'eccitazione veramente puerile (va bene che è giovane).
Per consacrare un gruppo di musica popolare bisognerebbe avere una voglia di conservare tradizioni e di dare loro un futuro, e queste due cose vengono prima di tutto, sia del dominio tecnico degli strumenti, sia dei passaggi da star megalomane e dell'onnipresenza.
E i Litfiba?
Secondo me si sono rimessi insieme per evitare certe cose che hanno fatto nell'interregno solistico, per dare un po' di coerenza a due carriere, quella del gruppo e quella di Pelù, che avevano preso una bruttissima piega.
Non mi pronuncio ma a me pare che abbiano prodotto solo raccolte, non sono sicura ma a pensare male si fa sempre bene (purtroppo).
All'undicesimo posto troviamo una raccolta di Franco Califano, perché adesso che è morto la gente forse si è accorta che abbiamo perso un buon interprete e soprattutto, almeno per me, un grande autore di pezzi pieni di poesia (quando troveremo Jannacci?).
Torniamo ai partecipanti di Sanremo, andiamo con un artista di formazione jazz, che dopo Cammariere hanno fatto un sacco di gola al pop così stanco della sua povertà.
Troviamo infatti l'ultimo cd di Raphael Gualazzi.
Io sinceramente trovo che il musicista di Urbino farebbe meglio a fare solo il pianista, anche se magari guadagnerebbe meno.
Sì, vocalmente non lo sopporto, musicalmente è un mostro di creatività e bravura tecnica, nonché un pozzo di scienza che si apre ad ogni intervista.
Andando avanti troviamo un figlio d'arte, cosa che non ho mai sopportato.
Il caso che troviamo adesso forse l'ho sopportato ancora meno, perché per me di De Andrè ce n'è uno e si chiamerà sempre e solo Fabrizio.
Cristiano De Andrè è un musicista geniale, ha forse anche una bella voce, ma la usa in maniera povera, questo è almeno ciò che penso io.
Poi non mi piace molto il fatto che spesso viva riarrangiando e impoverendo molto il repertorio paterno.
Sinceramente se questo fa scoprire Fabrizio posso anche lasciare perdere, ma siccome non ci credo mi arrabbio.
Dio! Andando avanti troviamo Eros, il "naso che canta".
L'ultimo cd ha qualche bella idea musicale, ma questa voce con il naso che si fa canto non rende per niente piacevole l'ascolto.
Andando avanti troviamo il nuovo cd di Marco masini, il cantante "Disperato" come pochi, anche se negli ultimi dieci anni ha tentato di distruggere questa sua immagine (non so con quanti risultati soprattutto presso il suo pubblico).
Il cd è sicuramente interessante, se non altro perché incidere in acustico voce e piano è segno di umiltà, di voglia di condividere con la gente le canzoni "spogliate" da tutta la parafernalia musicale data dagli arrangiamenti.
E non posso negare al toscano di aver composto qualche pezzo molto bello, da "Frankestein" a "Ci vorrebbe il mare".
E torniamo al Festival con Max Gazzè.
Va riconosciuto al musicista romano di aver avuto il coraggio di presentare un brano basato su un semplice trio basso, batteria e piano, con cui non si possono nascondere né truccare eventuali défaillances nel canto.
Il pezzo sinceramente è un po' etnicheggiante, musicalmente non è nemmeno male come detto sopra, ma non ne posso più dei canti sulla politica "di giornata come mozzarelle" (Baccini scusami!).
E andando avanti troviamo quello che secondo alcuni è il più grande cantore (ehm...) dell'Italia attuale.
Troviamo Fabri fibra con "Guerra e pace", che a parte il richiamo a Tolstoj è un bel po' di retorica, solo addolcita perché ha capito che si deve far voler bene anche da chi non ne può più di cattiveria rappata o cantata.
Andando avanti troviamo la "Sesión cubana" di Zucchero, che, per ritrovarsi è andato a Cuba ed ha inciso un album, qualche cover e qualche inedituccio per far digerire la pillola, con musicisti isolani.
Sapete che amo Cuba e la sua musica, leggete l'articolo su Compay Segundo se non ne siete convinti, ma capirete anche che non ne posso più di questi dischi tappabuchi o inutili, che dir si voglia.
Lì per lì ammetto che la "Guantanamera" tradotta mi aveva fatto piacere, perché qualcuno che faccia capire che questa canzone famosissima e sfruttatissima ha un bel testo ed un forte significato ci vuole.
Poi sinceramente hanno prevalso le osservazioni tecniche: traduzione orribile (in alcuni punti pur di stare nella metrica ha sbagliato) e voce inadatta: Zucchero è tagliato per il blues e per niente altro.
Perché non abbiamo vinto sufficientemente bene le elezioni?
Secondo me, oltre ad un sacco di ragioni politiche imputabili alla sciagurata stupidità di Bersani, anche per la funerea canzone che il bettolese ha scelto per accompagnare la campagna (sì perché la musica è importante, ragazzi è importante!).
Gianna Nannini da "Sei nell'anima" è entrata in un mood funereo, orribile, tragico, sontuoso e solenne ma che non c'entra niente con la sua voce che non ha assolutamente versatilità (lei canta allo stesso modo sia che canti "America", sia che venga a Lecce a fare "Fimmene fimmene").
Quelle che ho sentito di questo ultimo disco sono tutte uguali.
Di Mario Biondi bisogna parlarne, anche se canta in inglese. Difatti il magico basso catanese è in grado di cantare meravigliosamente in vari registri.
Si ascolti un qualsiasi brano soul, poi si passi ad una bossanova, per poi andare verso un brano in italiano, si scoprirà qualcosa di fantastico.
Da una delle più belle voci italiane ad una delle più brutte: anche per Cremonini secondo me vale quanto detto per Gualazzi e De Andrè: fate i musicisti!
Cremonini è un ottimo autore, domina l'italiano con perizia rara, si riascolti la bellissima cover di "Le parole fanno male" di Fiorella Mannoia, contenuta in "Ho imparato a sognare".
Di questo ultimo cd infatti mi piacciono gli arrangiamenti, molto beatlesiani e retro, ma i brani vocalmente non vanno giù, anche per l'accento troppo marcato: in italiano sarebbe auspicabile un ritorno ad una lingua più o meno standard. (Modugno?).
Divagazione: io inserirei nel regolamento di Sanremo una clausola molto rompiscatole, ossia se non si ha un disco da presentare non si va.
Insomma proibirei di fare le edizioni speciali per Sanremo.
Già so che mi si potrebbe ricordare il fatto che alcuni dischi molto meritori, "Dalla pace del mare lontano" di Cammariere, giusto per dirne uno, furono scoperti così. Io chiederei subito: li hanno scoperti o li hanno comperati perché c'era il brano di Sanremo?
Qui comunque troviamo la "Sanremo edition" di "Ricreazione" di Malika Ayane.
A me lei non piace, le riconosco molto valore musicale e letterario ma, come sempre, la vocalità, nonostante sia particolare, dato innegabile, non la trovo stimolante.
E a me, forse è un problema, se non mi piace la voce di qualcuno, non mi arriverà mai la sua musica.
E non se ne può più dell'ultimo cd di Tiziano Ferro! Continua, ormai da settantuno settimane, in classifica.
Il musicista di Latina ha una bella vena poetica, ha trovato un suo genere e lo segue, tra l'altro molto compatibile con il proprio timbro, quindi gli si deve riconoscere la coerenza e l'umiltà.
Detto ciò mi delude molto dal vivo, quindi non mi piace (il live è un criterio fondamentale con cui giudico gli artisti).
E finalmente troviamo un cd che non si può definire musica pop, "Piovani cantabile".
Bell'omaggio al grande musicista romano da parte di belle voci italiane.
Bisogna dire che i brani sono ben scelti e molti anche ben cantati.
Da qualche anno il "Made in Salento" furoreggia anche nel pop (io sono contro: la provenienza salentina viene presentata come una bandiera anche in un genere dove l'origine non connota). La decina dei trenta viene aperta dai Negramaro, gruppo guidato da un salentino dal timbro odioso, ho già detto di non amare il falsetto, quindi giustamente non apprezzo Sangiorgi.
I brani della raccolta qui presente bisogna dire che dànno una buona idea del percorso del gruppo, gli inediti sono belli (soprattutto uno di cui non so il titolo).
Bellissimo è notare che il ricordo di Lucio Dalla resta scolpito nell'anima di chi ama la musica, questo quadruplone curato da Marco Alemanno è davvero ben fatto è consigliato.
Oltre ad essere un'antologia, forse un po' troppo tagliata per i cultori di Dalla e poco per i neofiti ma va bene, porta in sé un bel po' di chicchettucce.
Bellissimo sentire il provino di "Cara", m'ha fatto tenerezza riascoltare la versione spagnola di "Attenti al lupo" e potrei anche continuare ma scopritelo voi!
Andando avanti si trova la vincitrice di "X factor" 2013, tutta tecnica e poco o niente cuore.
Il timbro mi sembra abbastanza banale, è la tecnica, che oggi piace tanto e sembra essere la caratteristica imprescindibile di un artista, che la rende così speciale.
Molto bella, non posso negarlo, è la canzone con Fiorella Mannoia che ultimamente si sente per radio.
Anche qui bisogna dire un grazie a chi l'ha arrangiata, perché ha fatto risaltare due voci comunque belle (la Mannoia più di quella di Chiara), denudando la musica della macchina moderna e dandole quella semplicità che riesce a conquistarmi sempre.
La prossima italiana è una cantante scoperta e lanciata da Tiziano Ferro, che per l'occasione ha lasciato le sue melodie per ridarsi a quell'insopportabile stile dei suoi inizi. Avete sentito "Killer". Mamma mia, basta con questo rap, che tra l'altro, essendo acronimo di American rythmic poetry ha senso solo in inglese!
E finalmente si parla di qualcosa che non è musica leggera, il nuovo cd di Ludovico Einaudi.
Mi è capitato di ascoltarlo e devo dire che è bello, insomma basta che il musicista torinese non tocchi le pizziche, poi andiamo bene.
Nel 1943 il 4 marzo nasceva Dalla, il 5 marzo nasceva Battisti (entrambi furono fra l'altro battezzati con il nome di Lucio).
La casa discografica, sapendo che il musicista laziale (di Poggiobustone) è una gallina dalle uova d'oro, si è messa a festeggiare i suoi settant'anni con un'ennesima antologia (non se ne può più).
Va anche detto che io Battisti non l'ho mai sopportato, non so se l'ho già detto.
Ci sono cresciuta ma niente da fare, non mi piace né la musica, né tantomeno mi piacciono i testi di Mogol, amo pochissime canzoni, tutte del primissimo periodo e sconosciute ai più.
Ritroviamo Andrea Bocelli con un concerto a New York, d'altronde il musicista sta festeggiando vent'anni di carriera, bel traguardo comunque e questo mi sembra un buon modo per festeggiare.
Mi fa piacere, molto piacere, sapere che a distanza di quattro mesi dall'uscita, "L'ultima thule" di Francesco Guccini campeggia ancora nella prima metà della classifica, giusto per dimostrare a chi non ci crede che la gente la cultura la vuole (e questa è cultura, il cd è infarcito di riferimenti letterari e popolari, al solito con Guccini si va in questa direzione)
Beh... torniamo al pop con Annalisa, un'artista giovane che secondo me non ha un gran valore, ma invece è ben pubblicizzata da più d'uno.
La sua vocalità a me sembra abbastanza banale, flautata come va ora, niente di che.
E nella prima cinquantina troviamo anche Jannacci, ma guardate che differenza con Califano che sostava nella prima decina, il romano ed il milanese sono divisi da una trentina di posizioni.
Va detto che il milanese era meno facile, anche a me risulta stancante dopo un po', nonostante che ci sia cresciuta grazie alla passione che alcuni miei familiari nutrono per lui.
Io consiglierei l'ascolto di un disco, racolta, dal titolo "Così ride Enzo Jannacci", che contiene undici tra i migliori brani del cantautore.
Riascoltate bene "La ballata del pitur", stupenda canzone in dialetto milanese che mi ha sempre fatto piangere.
Un'altra raccolta di Jannacci fa un notevole balzo, il live "Senza andare fuori tempo", figlio della tentazione Jannaccesca di riarrangiare in maniera radicale i propri brani, cosa che il cantautore ha fatto anche troppo. Comunque è bello, soprattutto per l'uso dei fiati.
Emozionante il duetto con Gaber in "Una fetta di limone", brano che i due avevano inciso, come I due corsari, negli anni Sessanta.
E stavolta Califano è unito a Jannacci, un'altra raccolta del cantautore romano si trova alla posizione immediatamente successiva, bisogna dire che i discografici non aspettano molto tempo prima di risfornare antologie degli artisti una volta morti.
La seconda metà ci fa ritrovare Vasco Rossi, con il live dei concerti 2011, giusto per dimostrare che le sue "dimissioni da rock star" sono state solo un gesto plateale per restare sotto i riflettori, se avesse voluto le avrebbe caparbiamente perseguite, altro che paragonarsi con il Papa e dire che quelle di Ratzinger da pontefice sono state accettate, mentre le sue no (lui non le voleva, non scherziamo!).
Il cantautore di Zocca ormai non ha voce, è il pubblico che fa il concerto, lui assiste.
Ci sono gli antidepressivi? Sì, ma c'è anche la musica che te la fa venire la depressione, i Baustelle fanno parte di questa categoria (qualcuno ci metterebbe anche Lolli, io smentisco!).
L'ultimo cd è sempre infarcito di piacevoli sonorità bacarackiane, ma il problema anche qui è la voce di Bianconi, che mi piace solo come autore.
Il prossimo artista non so chi sia, si chiama Vacca...
Ringraziando Dio è finita la maledizione della "pizzica" tradotta in pop e rumba flamenca, ma non è finita la permanenza di "Sapessi dire no" di Biagio Antonacci in classifica.
A me lui non è mai piaciuto, se togliamo "Danza sul mio petto", "Fiore" e "Al festival di Gabicce mare" (geniale canzone dove lui imita, Concato, Fortis e Carboni, ovviamente ignorata dai media)
ancora mi stupivo di non trovare Emma, cantante salentina che lo deve dimostrare anche se non fa folklore (riguardare la divagazione sui Negramaro).
Lei a me non piace, la stimo più di Alessandra Amoroso ma non è il mio tipo, troppo romantica e sdolcinata.
E tornano i Modà, perché i discofili amano riscoprire i dischi vecchi di qualcuno quando ne fa qualcuno nuovo, oppure non si decidono e continuano ad acquistare anche il precedente, ancora "Viva i romantici" si vendeva l'anno scorso, mentre "Quello che non ti ho detto" era già uscito e non vendeva, ora si sta vendicando.
Di loro non parlo, rileggere sopra.
Gruppo underground dedito allo Ska, genere che in Italia ha anche troppi interpreti, secondo me di melodia nulla (meglio una tarantella a sola zampogna, genere che non mi fa impazzire)
Laura Pausini?
Come la Nannini ci informa tramite canzoni delle condizioni del proprio status, già sapeva di aspettare una figlia o lo desiderava, quindi le ha dedicato un cd preventivamente, cantando anche la propria felicità per la relazione conquistata con il proprio tastierista.
Ma vogliamo lasciare perdere il privato?
Lei urla ormai da anni, non si può sentire più. Almeno prima era solo sdolcinata ma era piacevole da sentire.
quanto vi sfogate con Califano?
Qui troviamo "Un'ora con...".
Sono anni che il cofanetto di De Andrè "In direzione ostinata e contraria" entra ed esce dalla classifica, bellissima antologia, in edizione completa sono sei cd, praticamente opera omnia del cantautore, perfetto e consigliatissimo!
dal Paradiso all'Inferno ("ma questo no, non è l'inferno") con i Modà, ancora e sempre i Modà. Non se ne può più!
Il "Celengrillino" lo troviamo con il suo live, registrato all'Arena di Verona l'anno scorso. Veramente triste, uno che a settantacinque anni fa l'evergreen è da vergogna!
Bella questa antologia tripla di Venditti, "Tuttovenditti", che completa ed integra (sostituisce praticamente) "Diamanti". Consigliato per continuare a festeggiare i quarant'anni di carriera del cantautore e i quarant'anni (che ricorrono quest'anno) dal suo primo lp solista.
Califano torna con le più belle canzoni, buona scoperta o riscoperta di questo cantautore che ha forse giocato troppo con il suo essere maledetto.
Di Max Gazzè è uscita una platinum, cantautore da scoprire anche se spesso vittima della sua stessa originalità. Mi fa tenerezza "Cara Valentina".
In classifica tornano anche dischi usciti diversi anni fa, questo è il caso di "Vivere", raccolta di Andrea Bocelli che conteneva una versione in inglese, cantata con Laura Pausini, della title track. Sinceramente meglio la vocalità ruvida di Gerardina Trovato che faceva molto più contrasto con quella del toscano.
che ne dite dei Club Dogo? La mia è che sono i tipici reppettari del cavolo, che fingono un disagio. Basta!
Ritroviamo un artista di Sanremo ben lontano dalla vetta, il vincitore dei giovani Antonio Maggio.
Forse musicalmente ci troviamo davanti ad un progetto interessante, ma vocalmente non si ha nessuna sensazione. Banale!
Davanti a De Gregori ci si inginocchia, anche se ormai sembra una brutta bruttissima copia di Dylan.
Basta sentire alcune tracce dell'ultimo, anche se in qualche caso si torna alla gradevolezza della melodicità italiana, che però il cantautore romano sente probabilmente come ambiente non suo.
I testi sono sempre criptici.
Andando avanti troviamo il francescano Alessandro Brustenghi, tenore di belle speranze, di quella musica classica digeribile dal sistema (un po' dispiace, ma se questo serve a scoprirla può anche andare).
Sicuramente è di formazione più rigorosa di Bocelli.
E quando si torna a cantare in italiano (ehm...) si reppa con Emi Skilla.
Questi qua credono di fare i rivoluzionari solo perché si ispirano a Che Guevara e compagni, beati loro!
Torniamo ai Litfiba, con un cd dal titolo assolutamente simile a quello che c'era in precedenza. Boh...
Al terzultimo posto troviamo Simona Molinari (ma vergognatevi!), forse l'unica grande cantante di jazz italiano attuale, la migliore dopo Jula de Palma, comunque secondo me insuperabile.
Peccato solo che si è fatta tentare da questo elettro jazz che sa anche troppo di déjà vu, meglio la freschezza dello swing che non passa mai di moda!
E al penultimo posto (vergognatevi, ma siete perdonati perché è appena arrivato) c'è Paolo Fresu, grande tromba del jazz italiano, insieme a Bosso e Rava.
Forse Fresu è più elitario, ma è un virtuoso.
Volevate un po' di "Mazzate pesanti cu lli soni e cu lli canti"?
V'ho accontentato direi!
mercoledì 27 marzo 2013
Moroloja a www.pizzicata.it
Quando scoprii Internet fui folgorata da un sito che ho visto morire progressivamente, voglio usare questo blog per fargli un canto funebre, non da prefica grika ma da appassionata di musica popolare che lo riteneva insostituibile ma che si vuole convincere a non andarci più neanche per nostalgia.
Mi riferisco a www.pizzicata.it, sito nato nel 2003 dall'intraprendenza e dalla passione casuale di un giovane di Taurisano (LE).
Il sito prende il nome da un bellissimo film di Edoardo Winspeare (per me il migliore che il regista salentino abbia mai prodotto).
Il sito per anni, quando io non ero iscritta, era una piattaforma privilegiata del dibattito, spesso stramaledettamente sterile per l'ignoranza e le paranoie di troppi attori, che si faceva, suppongo ancora si faccia, all'interno della "riproposta" salentina.
Si parlava in maniera appassionata di musica moderna e tradizionale e del loro rapporto, con critiche di ogni tipo su tutti i gruppi maggiori e minori.
Con il tempo la musica popolare salentina si allarga, con essa "Pizzicata", che scopre anche altri repertori di cui parlare.
Questo porta da un estremo all'altro (in Puglia le vie di mezzo non sanno cosa sono): dal "salentocentrismo" si passa all'"antisalento" a tutti i costi.
Piano piano i grandi abbandonano, restano solo i "vivitori" del web, ed è più o meno questo il periodo in cui mi iscrivo anch'io.
Io provo a vivacizzare, provo a riportarci questa mia passione, all'epoca grandemente repressa, ma non ci fu assolutamente risultato, ebbi poche risposte a tono, molte risposte piene di megalomania e poco altro.
Per molto tempo continuavo ad usarlo come fonte d'informazione, mi sono iniziata a disilludere (da una vita gli davo un soprannome che non riferisco per educazione) quando ho provato a scrivere un'e-mail a quello che fino a prova contraria era il curatore del sito, quel Carlo Trono che così gentilmente mi aveva aiutato ad entrare nel forum.
Nessunissima risposta, neanche un "non fa per noi".
Questo sinceramente mi ha frustrato un po', ma "Radio Pizzica e dintorni" è qui per chi la vorrà ascoltare ed amare.
Mi dispiace per quel bel sito, il cui forum ora è pieno zeppo di messaggi in inglese, che non hanno niente a che fare con la musica, di nessunissimo tipo, mandati da gente che non si sa nemmeno chi sia.
Gente, riprendetevi anche la dimensione web della musica popolare.
Se è importante la condivisione nelle nostre zone, l'andare o l'organizzare concerti e balli spontanei, è altrettanto importante divulgare ciò che si fa.
Io nel mio piccolo ci provo, uniamoci di più, ricreiamoci una "Pizzicata" anche fuori da quel sito, quella dimensione a me Facebook non me la dà, per quanto da lì si hanno maree di emozioni da poter condividere e divulgare.
Addio "Pizzicata", da oggi tenterò ufficialmente di associare questo nome solo al capolavoro di Winspeare.
giovedì 21 marzo 2013
Qualche parola su un vecchio concerto inglese degli Inti-Illimani
Carissimi lettori, grazie all'insuperabile "Una finestra aperta" (blog sugli Inti-Illimani da me citato spessissimo) riusciamo a recuperare, dato che l'ha postato Superpeliculero su Youtube, uno storico concerto degli Inti-Illimani, probabilmente poco dopo l'uscita di "Imaginación" (1984 o giù di lì).
Siamo alla Calston Hall di Bristol ed il gruppo inizia il concerto con una versione spumeggiante di un classico della tradizione ecuatoriana, un "San Juanito" che era stato recuperato per "Imaginación", album antologico, primo registrato digitalmente dall'ensemble cileno.
Nel brano si notano qualche piccola smagliatura o qualche imprecisione, l'emozione quando si suona gioca sempre, poi credo che la musica tradizionale, e ancora di più i brani di tradizione, sono fatti per far uscire la nostra primordialità.
Si va avanti, a proposito di recuperi dal repertorio risuonato per "Imaginación", con "Tema de la quebrada de Humahuaca".
Qui il ghiaccio si è già rotto, bellissime le prodezze armoniche del charango, tutto perfetto.
Il terzo brano, sempre strumentale e sempre di tradizione andina, viene invece da "Palimpsesto" ed è "La fiesta de la tirana". Quello che più impressiona, almeno a me ha sempre impressionato molto, è la parte iniziale, dove solo una chitarra ed un charango sostengono un poderoso canone (quelle melodie in cui le parti vengono eseguite intrecciandosi da vari gruppi di cantori rimpallandosi le parti).
Ancora l'esilio non è finito e il brano "Vuelvo", primo con testo del concerto, è pieno della speranza di chi vuole ma ancora non può tornare.
Horacio Durán, in un inglese in verità abbastanza stentato, la presenta, prima che il gruppo, ed un grandissimo José Seves, cantino la canzone con corpo ed anima.
Questi sono gli Inti-Illimani del miglior periodo, secondo più di uno, quelli che, pur avendo maturato, non erano freddi (secondo me fino a che c'è stato Salinas non c'era freddezza, difatti gli Históricos tutt'ora sanno scaldarmi il cuore).
Particolare un pezzo strumentale eseguito da una chitarra melodica, non presente nella versione da studio, purtroppo questa non sarà una recensione particolarmente precisa perché l'audio del concerto è al limite (almeno per me).
Andando avanti si torna al repertorio di tradizione andina, con quelle "Sicuriadas" che chiudevano il "Canto de pueblos andinos".
L'incisione non ha praticamente varianti di rilievo rispetto all'originale, c'è l'ineluttabile crescendo, sia ritmico che di strumenti usati, che rende assolutamente irresistibile il pezzo.
Interessante il trillo di quena quasi verso la fine, a voler far sentire il grido di dolore che spesso si dice insito nella timbrica del flauto a canna singola, che una leggenda vorrebbe miglior riproduzione del lamento di Atahualpa, re indigeno.
Andando avanti si ascolta il primo strumentale d'autore della scaletta, la "Danza di Calaluna", che Horacio Salinas dedicò alla Sardegna, terra amata dagli Inti nei periodi di vacanza durante la loro permanenza in Italia (1973-1988).
Il musicista cileno ha sempre dichiarato di essersi ispirato alla musica sarda per comporre questa melodia dove maggiore e minore (in scala di fa) si alternano in maniera assolutamente strabiliante.
Gli strumenti andini sono sfidati a convivere con altre sonorità (l'ottavino ed il flauto traverso) e ad imitare un mondo che non è il loro (cosa fatta anche dai Quilapayún, se possibile ancora più convintamente, nel "Vals de Colombes").
Curioso il finale in rallentando, che non prevede il rullato sottolineato dalla zampoña quasi urlante, così tipico della versione di "De canto y baile" (1986).
Continuando con "Imaginación" si ascolta un pezzo da virtuosi, per soli chitarra classica e cuatro venezuelano, dal titolo "La marusa".
Sfruttando un ritmo folk venezuelano, si crea una composizione armonicamente barocca, dove il cuatro, con accompagnamenti tirannici, e parti d'accompagnamento che si potrebbero definire semisolistiche per l'impressione uditiva assolutamente fuori dal comune che lasciano, accompagna una bella melodia cesellata dalla chitarra classica, che, paradossalmente, suona meglio in questo frangente che in melodie che si riterrebbero all'ascolto più abbordabili.
Il brano successivo è uno di quelli che hanno segnato indelebilmente la mia formazione di fan degli Inti, ossia "Danza".
Secondo Horacio Salinas, suo autore, il brano è di ispirazione svedese, io testardamente ho sempre pensato che fosse una tarantella.
Il brano, dove ancora una volta le tonalità maggiori e le relative minori convivono, è un politonale molto armonico, perché la politonalità è ottenuta tramite artifici melodici, non tramite la giustapposizione di note incompatibili a tavolino.
Anche qui gli strumenti andini vengono sfidati a fare "altro", ma bisogna dire che se la cavano bene.
Interessante questa parte, prima dell'ultim o giro di ballo vorticoso, lenta e quasi meditabonda, come se colui che balla venisse preso da estasi di pensieri.
Andando avanti il gruppo torna a cantare e riprende un brano di Víctor Jara, che per molti, almeno da noi, è uno dei brani fondamentali. Il brano, "El arado", è interpretato da Max Berrú, musicista ecuatoriano membro per trent'anni del gruppo, in maniera molto bella, c'è forse qualcdhe leggera stonatura ma sono particolari.
Le voci sono comunque perfettamente armonizzate, la chitarra ed il bombo, non si sentiva o non c'era il tiple, accompagnavano con grande effetto.
Il brano successivo fa tornare prepotentemente al repertorio di "Imaginación" ed è uno dei pezzi più amati in Cile, anche se è stato scritto in Italia (magari da noi fosse così).
Mi riferisco a "El mercado de Testaccio", omaggio di Horacio Salinas alla città di Roma, che allora accoglieva il gruppo.
Stupendi i flauti che contemporaneamente esaltano e reprimono l'allegria malinconica del pezzo.
Con il pezzettino in re minore accompagnato dalla percussione che ricorda tanto la carrozzella romana, questo brano si conclude e dà spazio ad "Un hombre en general".
Per chi non conosce il brano, che viene come il precedente dal disco "Palimpsesto" ma al contrario del precedente non ha avuto l'assiduità interpretativa dalla sua, è uno di quelli dove si nota la particolare sensibilità per la musica africana ed afroamericana degli Inti, nonché la loro voglia di fondere questi ritm i con le armonie e gli spunti melodici europei.
Monumentale l'assolo di tiple, dal pizzicato irresistibile.
Qui veramente dispiace che l'audio non sia al top, questa è una rarità su prema.
E come non cantare quel capolavoro antirazzista, che dovrebbe essere l'inno mondiale antirazzista, dal titolo "Samba landó"?
Eccola, già ben condita di influenze africane, sia con il cajón peruviano, che con le claves, che con il cencerro.
Credo che il pubblico stia facendo qualcosa con le mani, ma possiamo solo immaginarlo.
Le voci di José Seves e Marcelo Coulon si rimpallano le strofe, il coro si staglia nel ritornello arricchito qua e là da interessanti melismi mediterranei.
Nell'ultima strofa, quella dove c'è il rallentamento di ritmo, si è sentito chiaramente un pubblico che con calore e precisione batte il tempo. Alla fine ha anche cantato il ""Samba landó", ma non so dirvi bene.
Così si chiude un bel concerto, di cui spero presto si potranno trovare materiali migliori.
mercoledì 13 marzo 2013
Renato Zero: "Amo capitolo I"
Carissimi lettori, è tempo di tornare a parlare di una mia grande passione che, però, resta spesso sopita.
Ieri è uscito "Amo capitolo I", ventisettesimo disco in studio di Renato Zero, che esce a quarant'anni esatti dal suo primo vinile dal titolo "No, mamma, no!" (1973)
Il cd si apre con il singolo che ce lo ha annunciato il 1 marzo, una canzone dance, che in più di un aspetto ricorda alcuni brani degli anni Settanta-Ottanta.
Il brano è in minore, ma non per questo è mancante di quel desiderio combattivo che ha fatto di Zero un artista stimato da molti giovani di varie generazioni.
Il brano ha una parte in fa che è quella propriamente dance, mentre c'è una interessante sezione in re minore, o con la partenza da questo accordo, che prende un ritmo lento, particolare perché riesce a dare un'anima acustica perfino alle tastiere, che il cantautore comunque ama sempre far sostenere da una corposa orchestra.
E a proposito di incitamenti ai giovani, questa volta conditi da dolci e teneri consigli, arriva "Una canzone da cantare avrai", dove Zero si racconta e ci racconta il proprio rapporto con la sua arte, incitandoci a lottare per i nostri ideali e a non farci sconfiggere dalla mancanza di possibilità.
Il brano è una ballata in una scala di minore molto tesa e larga, di quelle in cui Zero dimostra di riuscire ancora a creare melodie corpose.
La ripetizione di "L'avrai" alla fine potrebbe ricordare, è solo un rimando e non c'è assolutamente plagio, "Un uomo da bruciare" di "Trapezio" (1975)
Il disco continua con una ballata di quelle lente, potrebbe ricordare, giusto come stile e non come melodia né testo, "Quando parlerò di te" tratta da "Presente" (album del 2009 di cui qui parlammo a suo tempo).
Il brano continua il discorso iniziato da "Chiedi di me", questa voglia di condivisione che Zero sente molto sinceramente nei confronti del proprio pubblico (anche se purtroppo fa trasparire certe antipatie e non è molto democratico né nella distribuzione dei dischi né nella scelta delle date dei tour).
A metà brano, durante la parte in si, c'è un parlato che potrebbe rimandare, non come contenuto, solo a causa di certe trovate stilistiche, all'inizio dello storico live "Icaro" (1981).
Una ballata dalla struttura più rock è "Voglia d'amare", che potrebbe ricordare, solo strutturalmente, "Ancora qui", anche se qui forse il tappeto elettronico è più presente.
Anche qui si parla di voglia di vivere e di condividere, dell'importanza dei sentimenti nella vita, ennesimo sprone a fare del sentimento la base del nostro vivere.
Uno dei brani più commoventi del cd è sicuramente "Angelina", ballata dalla struttura classica, aiutata moltissimo dal pianoforte di Danilo Rea.
La canzone è dedicata alla portinaia del condominio in cui Zero è cresciuto alla Montagnola.
Il brano in più di un'occasione e in più di un senso ricorda la bellissima "Ciao Stefania", anche se il brano di "Artide e Antartide" non vedeva mai il contatto tra sonorità classiche e moderne, mentre qui il contatto c'è ma i suoni moderni si limitano a fare tappeto ritmico agli strumenti classici che sono sino alla fine la bussola del brano.
Ed eccoci a "Lu", cinque quarti commovente dedicato a Lucio Dalla, fortemente impregnato di jazz, rispettando completamente forse l'unica vera radice della formazione musicale del bolognese.
Come in tutti i brani di Zero dedicati a persone volate in cielo, anche qui c'è una tenerezza ed una voglia di raccontare in profondità la loro relazione.
Il brano successivo è "I '70", ballad con "sporcature" blues e dance, per ricordare gli anni Settanta, collegandoli però al fermento attuale, che secondo Renato riporterebbe in vita la migliore ribellione degli anni Settanta. Io me lo auguro ma non vorrei che riporti a galla solo la violenza e l'estremismo peggiore.
Dopo si torna alle cose migliori, con un brano che sin da subito mi ha fatto pensare a certi brani delle colonne sonore di Fellini.
Saranno gli accordi larghi, sarà la descrizione quasi cinematografica di paesaggi e abitudini sociali, ma dà veramente la voglia di volare.
Il brano è un omaggio, diretto e chiaro perché Zero interpreta una sua composizione rimasta inedita, a Giancarlo Bigazzi.
A questo artista sono grati vari artisti di diverse generazioni, anche se se ne parla poco perché Mogol gode di un ingiusto monopolio.
La traccia successiva è il racconto del rapporto che Zero ha con la vita, con un perpetuo confronto tra il lavoro, descritto su una ritmica lenta, e la vacanza, raccontata con una struttura quasi latina.
La cosa che fa piacere è notare che per Zero il lavoro creativo è una vacanza.
Andando avanti si arriva ad una ballata, che inizia con una lunga parte inclassificabile, dal titolo "Oramai". Questa è una di quelle ballate senza ritornello, dove la struttura binaria strofa-ritornello viene sostituita da una strofa minore- strofa maggiore.
Il brano è su un addio, ma il protagonista se ne prende tutte le colpe parlando con la propria amata.
Tutto il brano è impreziosito e sottolineato nella sua sensualità dalla tromba di Fabrizio Bosso, a dimostrazione del fatto che Zero ama spesso condividere i propri brani con musicisti che stima.
La successiva è "Tutto inizia sempre da un sì", un ritmo binario con varie soluzioni, che non arrivano mai al rock standard, fermandosi sempre al limite grazie a certi trucchi latineggianti della batteria del grande Lele Melotti.
Anche questa è una di quelle canzoni dove si racconta il rapporto di Zero con l'arte, incitando il pubblico ad un rapporto sincero e grato con i sentimenti che devono far parte ed essere base di un vivere onesto.
"Vola alto" ricorda in maniera evidente (c'è una scala proprio uguale...) "Non sparare" da "Tregua" (1980).
Qui però non si parla di caccia ma di rapporti umani, continuando il discorso che si potrebbe dire intersechi in un filo più o meno segreto tutte le tracce di questo cd.
La melodia apparentemente è meno larga, ma la larghezza è data questa volta dall'alternanza di due tonalità (sol e la) nelle quali viene ripetuto lo stesso tema, ma con parole diverse ad ogni presentazione, anche questa canzone non ha ritornello.
"Dovremmo imparare a vivere" invece è uno di quei brani da operetta, satira pungente sull'Italia attuale, da cui Zero si discosta, dando però la sua solita impagabile fiducia nel futuro.
Sia musicalmente che testualmente potrebbe ricordare "Spera o spara" del precedente "Presente", ma stavolta si è davanti a più di un condimento a base di "Incubo prima di Natale".
Eccola, alla fine, una canzone con ritornello.
Il brano si intitola "La vita che mi aspetta", si direbbe che dopo essersi raccontato ed averci distillato il proprio passato, il cantautore romano ci racconti il suo rapporto, apparentemente armonioso, con il futuro.
Cd stupendo, anche io mi unisco a coloro che gridano al capolavoro, molto ma molto buono forse anche per iniziare a conoscere Zero, difatti c'è più di un rimando in tutti i sensi alla sua storia.
venerdì 8 marzo 2013
Qualche riflessione a cuore aperto
Carissimi lettori, ogni tanto, sia per diletto che per necessità legate alla gestione della mia "creaturina" Pizzica e dintorni, mi capita di leggere recensioni di dischi e libri dedicati alla musica popolare.
Lasciamo stare il modo piuttosto discutibile in cui spesso questi articoli sono redatti, frutto di superficialità editoriale che trovo poco professionale.
Quello che trovo veramente orticante è l'uso, come categorie assolute, tra l'altro portatrici di concetti unidirezionali, di parole come "contemporaneo", "moderno" , e il modo superficiale in cui si fa apologia di dischi che fanno della "babele sonora" la loro caratteristica, come se questo, e solo questo, fosse il futuro della musica.
Non sto dicendo che in questi posti non si dia spazio al folklore che ripropone in maniera fidedigna o quasi, ma che si tende a sminuirlo o a far capire che sarebbe meglio che ci si muovesse nella direzione che loro ritengono l'unica possibile in maniera dittatoriale.
Credo di aver già fatto ampiamente capire la mia opinione su tutto ciò, ma voglio tornarci.
Nello stesso momento in cui io o un qualsiasi musicista della scena attuale prendiamo uno strumento tradizionale, anche se eseguiamo la melodia più tradizionale del mondo, non la faremo mai in maniera tradizionale, ossia come ci è stata tramandata da coloro che consideriamo i nostri "informatori".
Questo avviene in maniera spesso involontaria ed inconscia, perché abbiamo imparato, dalla stessa tradizione, ad essere naturali, come d'altronde erano i nostri "informatori", i quali magari, a loro volta in maniera inconscia ed involontaria, avevano apportato personali variazioni al brano o al corpus che ci tramandano.
La serie di personali variazioni per me già fa piombare pienamente il brano o il repertorio nella più totale contemporaneità.
Poi io, lo dissi diverso tempo fa ma lo ripeto, sono una che auspica la contaminazione tra musiche di tradizione, ossia vorrei veramente che il rock, il jazz nella sua forma moderna e il pop stessero fuori dalla musica tradizionale.
Non perché ritengo che i repertori tradizionali siano superiori, semplicemente perché trovo che le contaminazioni con i generi moderni ed i loro stilemi, impoveriscono invece di arricchire la musica tradizionale.
Poi sono una che crede nelle frontiere: non voglio che ci si chiuda, ci manca, ma voglio avere sensazioni diverse se ascolto un brano popolare o un brano di musica leggera (se è di spessore ascolto anche quella, ora ce ne è sempre meno).
Insomma, smettiamo di vedere le cose come non sono, smettiamola di sminuire chi suona semplicemente tradizionale, anche perché i signori della contaminazione per forza e dell'addio alle frontiere spesso saccheggiano, in maniera magari disonesta, il lavoro di chi ricerca e rispetta la tradizione.
Non ritengo che l'unico sbocco possibile per la musica popolare sia contaminarsi con il pop e con gli altri generi moderni, si può anche imparare a comporre sugli stilemi della tradizione, utilizzare e stimolare la creatività della poesia vernacolare contemporanea e stimolare incontri con musiche che abbiano altrettanta storia della nostra, così ci si arricchisce.
Solo opinioni non vi preoccupate, ad esprimerle siamo in pochi, figuratevi se vi facciamo paura.
domenica 3 marzo 2013
Novità su Radio pizzica e dintorni
Carissimi lettori, è da una vita che non scrivo, sto sinceramente curando molto la mia web radio e questo si vede in termini di ascolti.
Ho pensato a lungo sulla convenienza dell'articolo che sto scrivendo, ma mi sono risposta che non può che convenirmi.
Da giovedì 28 febbraio Radio pizzica e dintorni è ascoltabile anche da Facebook.
Ecco il link:
http://www.facebook.com/#!/pages/Radio-pizzica-e-dintorni/262447733865875?id=262447733865875&sk=app_423334774417665
Ovviamente godetevela e fate festa con la nostra stupenda, ricca e diversa musica popolare!
martedì 22 gennaio 2013
Qualche parola sul cd dei Taranta minor
Carissimi lettori, oggi voglio tornare a parlare di musica popolare, presentandovi il primo cd dei Taranta minor, gruppo salentino capitanato da Ambrogio De Nicola, che i più appassionati ricorderanno essere stato chitarrista classico degli Officina Zoè in "Sangue vivo".
Il cd si apre con "Quantave", bella pizzica molto leggera, non per questo debole, anzi.
Le voci, almeno nella prima parte cantano con quella dolcezza che io spesso reclamo a troppi gruppi salentini.
Quando l'innamorato sfoga la propria rabbia le voci si alzano, in maniera più tradizionale ma mai sguaiata (agli altri dico di imparare!).
Le tre voci si direbbe che vadano alla ricerca di un certo Salento "confidenziale" che forse è il vero futuro della musica salentina, sicuramente meglio di questa tendenza all'imitazione pedissequa e sguaiata delle fonti.
Andando avanti si trova "Quannu camini tie", classico ma non troppo cantato, soprattutto dai gruppi di nuova generazione, caro invece a quanti hanno ripreso con gratitudine repertori da quella prima ondata che negli anni Settanta segnò l'inizio di qualcosa che dura tutt'ora.
La versione qui presentata ha come principale particolarità la mancanza di alcuni versi abituali "Ci quarche giurnu ieu cascheria malatu, guardannu lu litrattu sanaria".
La terza traccia ci permette di apprezzare la particolare forma che prende la tarantella nelle mani dei "Taranta minor".
La melodia è quella della "Ninella de Calimera", di cui però viene rispettato, se si pensa alla versione degli Ucci, solamente il ritornello.
Le strofe sono particolari, molte sconosciute credo a chiunque.
La terzina non la si sente, semmai si nota solo l'accento del primo quarto d'ogni battuta, oltre ad una progressione di chitarra che potrebbe ricordare certe colonne sonore di Nino Rota.
Andando avanti, a proposito di classici, e qui non è questione di "generazioni", arriva "Fimmene fimmene".
Musicalmente è basata su un basso ostinato di la, che però non dà per niente fastidio, perché il ritmo è un arpeggiato, paragonabile, anche se più semplice, a quello della versione degli Zoè su "Terra" (1997, inizialmente autoprodotto, ora dell'Animamundi).
Il testo è caratterizzato da strofe in cui si citano specifiche varietà di tabacco, distici sconosciuti ai più.
Purtroppo, anche qui, si ascolta il finalino sul tema del tarantismo ("E Santu Paulu meu de le tarante") che su questo brano ho sempre trovato ci stesse tragicamente.
La traccia successiva è un pegno di gratitudine nei confronti di quella che è innegabilmente la più importante esperienza di Ambrogio De Nicola nel campo della musica popolare salentina, la colonna sonora del film "Sangue vivo".
In questa pizzica, per certi versi paragonabile alla "Pizzica di Cutrofiano", si ricorda in più di un'occasione "Sale", soprattutto se si pensa all'ostinazione con cui si ribatte sul re maggiore.
Molto particolare il giro tra re maggiore, mi settima e do maggiore, ottenuto a cappella nell'esecuzione della classica "La taranta è viva e nun è morta".
La traccia successiva è "E lu sule calau calau", la cosa più bella sono gli arpeggi di chitarra di De Nicola.
La traccia successiva sono degli stornelli sulla melodia "Fiore di tutti i fiori", con una parte strumentale che ricorda la versione di questo brano incisa dai Taranta Social Club in "Schermando".
Il testo, però, è lontano dall'essere il convenzionale.
Se nella parte finale esso utilizza molte strofe cantate nella classica "De sira", all'inizio si ricordano degli stornelli raccolti da Alan Lomax nel 1953.
Brano prezioso come tutto il cd, che dimostra, a chi non se ne volesse convincere perché accecato dalla paranoia dell'innovazione, che con i brani più conosciuti si possono fare esperienze sempre interessanti anche senza mille strumenti.
Andando avanti, saccheggiando sempre i dischi di Brizio Montinaro "Musiche e canti popolari del Salento" si ascolta "La tabaccara".
La particolarità armonica è un passaggio in minore che fa fare i conti con la sofferenza di cui parla il testo.
Il tamburello non batte con la botta accentuata, suona semmai con una dolcezza gustosissima che non è, però, nemmeno quella paranoia del controtempo, altrettanto fastidiosa.
Andando avanti si riprende "Allu sciardinu", che viene eeseguita con una predominanza dell'accordo di tonica (do maggiore), al quale si sfugge giusto il tempo di un sol che copre solo una minima parte del giro strumentale.
La traccia che continua il cd è una classica "Santu Paulu" interpretata, forse per dare circolarità, sulla melodia dell'iniziale "Quantave".
Ritroviamo gli inconfondibili controtempi, o sfasature di tempo, della voce che non si fa imbrigliare dalle battute, ma ama piuttosto gestire il ritmo in maniera personale.
E come la "Quantave" iniziale, ci sono gli inconfondibili vibrati della chitarra di De Nicola, che ricordano anche, perché no, le bellissime evoluzioni delle corde di Aldo Nichil in "Pizzicata".
Qui il testo non presenta particolarità di rilievo, se non forse una variante di "Vidi ci balla moi vidi ci balla, sta balla nu cardillu e 'na palomma", che diventa "E ci nun ci balla moi e ci nun ci balla, e pare nu cardillu e na palomma".
Cd che consiglio a tutti, soprattutto a quelli che ritengono fondamentale avere molti strumenti per eseguire la musica popolare, così magari cambiano perfino idea.
Per conoscere il gruppo si consiglia la visita al sito www.tarantaminor.it.
martedì 8 gennaio 2013
Donatello Pisanello: "Sospiri e battiti"
Carissimi lettori, a dispetto del tantissimo tempo in cui non ho scritto, ecco un'altra occasione che mi permette di aggiornare questo blog, parlarvi del bel cd "Sospiri e battiti" che il musicista salentino Donatello Pisanello ha dato alle stampe l'anno scorso per la Phonosfere/Dodici lune.
Il primo brano è quello che più di tutti rende palpabile lo stile abituale di Donatello, difatti per molta parte è una pizzica, solo con la battuta principale spostata dalla prima alla seconda parte della cellula ritmica.
Il brano, dal titolo "Serenata senza effetto" è nella tonalità, particolarmente cara al musicista di Taviano (LE) di re minore.
La parte a pizzica è guidata dall'organetto di Donatello, che ricama una delle sue tipiche melodie in minore, dove l'ossessività forsennata del basso sul re è equilibrata molto bene dalla larghezza del giro della mano destra.
Il ritmo cambia in un ritmo collegabile alla cultura balcanica in corrispondenza di un passaggio dei bassi al la, tonalità che invece permette al contrabbasso di Angelo Urso, complice di Donatello Pisanello in questa avventura, di brillare e di ricordare il violoncello di Redi hasa ne "Il miracolo", disco degli Zoè a cui questo rimanda in più di una traccia, anche se, forse, "Sospiri e battiti" ha una maggiore cantabilità.
Il finale è lentissimo è riprende in parte il tema principale.
In questo brano c'è la complicità di Lamberto Probo ai tamburi a cornice, che dimostra virtuosismo mai slegato dalla semplicità della vera musica tradizionale salentina.
Il secondo brano è snodato su un accordo di re minore che viene iterato con tre note di basso su un ritmo molto ostinato collegabile a certi ritmi balcanici.
Solo nel finale il giro si allarga ad un sibemolle, ma non si ha mai quella sensazione di gabbia che qualche brano di Donatello Pisanello può dare (mi riferisco a certi brani degli Zoè spesso composti con la collaborazione di Cinzia Marzo come "Sale").
La terza traccia è un apparentemente innocuo valzer. Il problema (per chi pensasse di suonarlo) è che va fatto un accordo per battuta, ossia se nel primo quarto si usa solo la nota di basso bisogna aprire e chiudere i mantici di un ipotetico organetto in gran velocità.
Questa esperienza cantabile viene interrotta bruscamente con una parte in cui l'organetto miracolosamente assume le sembianze di un organo, dando respiro melodico ad una delle caratteristiche più profonde ed inconfondibili dello stile di Pisanello, il "basso fisso" che imita il "basso" vocale così tipico della tradizione salentina. Sì perché Donatello, anche quando sembra più allontanarsene, ha sempre la tradizione come bussola del proprio cammino musicale, almeno finché tocca strumenti tradizionali.
Ed eccoci alla title track del cd, un brano con un ritmo collegabile a certe cose arabe, in cui torna a fare capolino, con la sua solita insostituibile miscela di virtuosismo e semplicità, il tamburello di Lamberto Probo.
La particolarità più evidente del brano è che è in minore (sol minore) ma gli accordi sono maggiori (incluso il sol, e qui la terza dell'organetto, quella nota che da la differenza tra minore e maggiore, è chiusa solo per la mano destra, non per la sinistra).
Stupendo l'assolo di tamburello che rimanda, in fondo, al gioco di percussioni che interrompe improvvisamente la vorticosa "Cu lli suspiri" del bellissimo "Maledetti guai", album degli Zoè che a suo tempo recensimmo da queste parti.
Ed arriviamo alla mia traccia preferita, oltre alla "Serenata senza effetto d'apertura, un valzer in una cantabilissima e sempre gradevole tonalità di la minore.
Qui è l'organetto a portare atmosfere, la contemporaneità sembra prendersi una momentanea pausa (si vendicherà anche troppo nelle tracce successive).
Il pregio di questo cd, che Donatello dovrebbe trasferire e contestualizzare maggiormente anche quando compone per l'Officina, è che i giri non sono mai troppo ostinatamente basati su un accordo (e come ho detto prima gli Zoè, non so chi ne ha la colpa, cadono su questa cosa ed è un peccataccio).
La melodia è tutta basata, ad eccezione di un fa ed un sol che hanno il ruolo di accordi maggiori, su un bel trittico di accordi minori, ma non arriva mai la malinconia insita in questo tipo di strutturazione armonica.
Ed avevo parlato di "vendetta della contemporaneità", eccola qui nella traccia successiva.
Qui la cantabilità lascia spazio ad una melodia molto ripetitiva, un po' fastidiosa a certe orecchie (tra cui le mie), che non segue la logica delle scale in maniera convenzionale, quanto piuttosto a livello d'unione di singole parti che prese da sole sono tonali ma messe insieme scompongono il concetto di tonalità.
La stessa sensazione si ha all'inizio della successiva, dove però ad essere poco orecchiabile e piacevole è forse il ritmo.
Sembra anche che ci siano troppe note tra quelle della melodia e quelle dell'accompagnamento che sembra si facciano la guerra.
Insomma anche questo cd rappresenta la contemporaneità come qualcosa di caotico e, per certi versi, disperante dove le ballate più leggere sono come delle oasi in un ceserto.
Ovviamente, nel pieno rispetto della filosofia che guida i progetti in cui il musicista milita, non si sfrutta la tradizione per sperimentare, semmai ci si nutre di essa per fare qualcosa di proprio.
Torniamo più vicini al cantabile con un brano che si sviluppa con un dodiesis ostinato come guida.
La melodia è particolare, perché vari gradi della scala sono utilizzati non in modo convenzionale, anzi si ama indugiare su certe note "naturali" (tasti bianchi del pianoforte) che contribuiscono a far diminuire gli intervalli della scala base.
Il ritmo è lento, quasi si potrebbe immaginare una camminata sul ghiaccio.
Particolare il giro che, sul finale si arricchisce, oltre al fadiesis settima, che si è sentito spesso durante il pezzo, anche di un la e di un mi, da cui però si torna all'ineluttabile dodiesis "basso fisso" così pisanelliano come poche cose.
Tornando alla tonalità di re, troviamo un brano dai giri larghi, che potrebbe ricordare, giusto a livello strutturale "Riu", bellissima composizione di Cinzia Marzo tratta da "Sangue vivo".
Album consigliato soprattutto a quelli che ritengono necessario sfruttare per forza i testi della tradizione e rimusicarli in maniera spesso forzata, come dimostrazione che con gli strumenti di tradizione, magari uniti ad altri con altri bagagli culturali, si può fare davvero "altro" dalla tradizione senza toccarla.
sabato 5 gennaio 2013
Riflessioni d'anno nuovo.
Carissimi lettori, forse con un po' di ritardo scrivo i miei auspici ed i miei auguri per questo 2013 appena iniziato. È da una vita che non scrivo per questo mio ben amato blog, ma non me ne dimentico mai.
Vorrei fare un elenco di desideri per questo nuovo anno, che mi pare essere già molto intenso per la musica popolare, quella che come nessuna da respiro e forza alla mia anima.
Vorrei che gli organizzatori divulgassero meglio i loro eventi.
Mettete in risalto gli artisti che sono i primi e più grandi responsabili delle emozioni che la gente si porta via dai concerti (e di questo chi organizza se ne infischia sonoramente ma forse sbaglia).
Per quanto riguarda l'uso di Facebook consiglio a tutti gli organizzatori, l'ho già scritto sul social ma lo ripeto anche qui, di sfruttare gli attivi gruppi monotematici per divulgare i loro eventi (ovviamente questo consiglio va esteso agli artisti che si devono fare più furbi).
Mi auguro che si chiudano i monopoli, sia a livello di interpreti che di editori, cosicché tutti possano avere spazio, se non equamente almeno in maniera paragonabile.
Spero che non si generalizzino certe tentazioni di togliere la sua storica e bellissima indipendenza a questa musica, che non deve diventare patrimonio di un'élite, un'oligarchia di milionari o ricchi.
Agli artisti auguro un anno di grandi attività, sperando che anche dei piccoli editori radiofonici come me possano stare dietro in maniera efficace a questo bellissimo movimento che, dando un futuro alla musica popolare, non la priva delle radici.
A voi seguaci ricordo l'esistenza di www.pizzicaedintorni.it, mia creatura recente.
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