giovedì 21 marzo 2013
Qualche parola su un vecchio concerto inglese degli Inti-Illimani
Carissimi lettori, grazie all'insuperabile "Una finestra aperta" (blog sugli Inti-Illimani da me citato spessissimo) riusciamo a recuperare, dato che l'ha postato Superpeliculero su Youtube, uno storico concerto degli Inti-Illimani, probabilmente poco dopo l'uscita di "Imaginación" (1984 o giù di lì).
Siamo alla Calston Hall di Bristol ed il gruppo inizia il concerto con una versione spumeggiante di un classico della tradizione ecuatoriana, un "San Juanito" che era stato recuperato per "Imaginación", album antologico, primo registrato digitalmente dall'ensemble cileno.
Nel brano si notano qualche piccola smagliatura o qualche imprecisione, l'emozione quando si suona gioca sempre, poi credo che la musica tradizionale, e ancora di più i brani di tradizione, sono fatti per far uscire la nostra primordialità.
Si va avanti, a proposito di recuperi dal repertorio risuonato per "Imaginación", con "Tema de la quebrada de Humahuaca".
Qui il ghiaccio si è già rotto, bellissime le prodezze armoniche del charango, tutto perfetto.
Il terzo brano, sempre strumentale e sempre di tradizione andina, viene invece da "Palimpsesto" ed è "La fiesta de la tirana". Quello che più impressiona, almeno a me ha sempre impressionato molto, è la parte iniziale, dove solo una chitarra ed un charango sostengono un poderoso canone (quelle melodie in cui le parti vengono eseguite intrecciandosi da vari gruppi di cantori rimpallandosi le parti).
Ancora l'esilio non è finito e il brano "Vuelvo", primo con testo del concerto, è pieno della speranza di chi vuole ma ancora non può tornare.
Horacio Durán, in un inglese in verità abbastanza stentato, la presenta, prima che il gruppo, ed un grandissimo José Seves, cantino la canzone con corpo ed anima.
Questi sono gli Inti-Illimani del miglior periodo, secondo più di uno, quelli che, pur avendo maturato, non erano freddi (secondo me fino a che c'è stato Salinas non c'era freddezza, difatti gli Históricos tutt'ora sanno scaldarmi il cuore).
Particolare un pezzo strumentale eseguito da una chitarra melodica, non presente nella versione da studio, purtroppo questa non sarà una recensione particolarmente precisa perché l'audio del concerto è al limite (almeno per me).
Andando avanti si torna al repertorio di tradizione andina, con quelle "Sicuriadas" che chiudevano il "Canto de pueblos andinos".
L'incisione non ha praticamente varianti di rilievo rispetto all'originale, c'è l'ineluttabile crescendo, sia ritmico che di strumenti usati, che rende assolutamente irresistibile il pezzo.
Interessante il trillo di quena quasi verso la fine, a voler far sentire il grido di dolore che spesso si dice insito nella timbrica del flauto a canna singola, che una leggenda vorrebbe miglior riproduzione del lamento di Atahualpa, re indigeno.
Andando avanti si ascolta il primo strumentale d'autore della scaletta, la "Danza di Calaluna", che Horacio Salinas dedicò alla Sardegna, terra amata dagli Inti nei periodi di vacanza durante la loro permanenza in Italia (1973-1988).
Il musicista cileno ha sempre dichiarato di essersi ispirato alla musica sarda per comporre questa melodia dove maggiore e minore (in scala di fa) si alternano in maniera assolutamente strabiliante.
Gli strumenti andini sono sfidati a convivere con altre sonorità (l'ottavino ed il flauto traverso) e ad imitare un mondo che non è il loro (cosa fatta anche dai Quilapayún, se possibile ancora più convintamente, nel "Vals de Colombes").
Curioso il finale in rallentando, che non prevede il rullato sottolineato dalla zampoña quasi urlante, così tipico della versione di "De canto y baile" (1986).
Continuando con "Imaginación" si ascolta un pezzo da virtuosi, per soli chitarra classica e cuatro venezuelano, dal titolo "La marusa".
Sfruttando un ritmo folk venezuelano, si crea una composizione armonicamente barocca, dove il cuatro, con accompagnamenti tirannici, e parti d'accompagnamento che si potrebbero definire semisolistiche per l'impressione uditiva assolutamente fuori dal comune che lasciano, accompagna una bella melodia cesellata dalla chitarra classica, che, paradossalmente, suona meglio in questo frangente che in melodie che si riterrebbero all'ascolto più abbordabili.
Il brano successivo è uno di quelli che hanno segnato indelebilmente la mia formazione di fan degli Inti, ossia "Danza".
Secondo Horacio Salinas, suo autore, il brano è di ispirazione svedese, io testardamente ho sempre pensato che fosse una tarantella.
Il brano, dove ancora una volta le tonalità maggiori e le relative minori convivono, è un politonale molto armonico, perché la politonalità è ottenuta tramite artifici melodici, non tramite la giustapposizione di note incompatibili a tavolino.
Anche qui gli strumenti andini vengono sfidati a fare "altro", ma bisogna dire che se la cavano bene.
Interessante questa parte, prima dell'ultim o giro di ballo vorticoso, lenta e quasi meditabonda, come se colui che balla venisse preso da estasi di pensieri.
Andando avanti il gruppo torna a cantare e riprende un brano di Víctor Jara, che per molti, almeno da noi, è uno dei brani fondamentali. Il brano, "El arado", è interpretato da Max Berrú, musicista ecuatoriano membro per trent'anni del gruppo, in maniera molto bella, c'è forse qualcdhe leggera stonatura ma sono particolari.
Le voci sono comunque perfettamente armonizzate, la chitarra ed il bombo, non si sentiva o non c'era il tiple, accompagnavano con grande effetto.
Il brano successivo fa tornare prepotentemente al repertorio di "Imaginación" ed è uno dei pezzi più amati in Cile, anche se è stato scritto in Italia (magari da noi fosse così).
Mi riferisco a "El mercado de Testaccio", omaggio di Horacio Salinas alla città di Roma, che allora accoglieva il gruppo.
Stupendi i flauti che contemporaneamente esaltano e reprimono l'allegria malinconica del pezzo.
Con il pezzettino in re minore accompagnato dalla percussione che ricorda tanto la carrozzella romana, questo brano si conclude e dà spazio ad "Un hombre en general".
Per chi non conosce il brano, che viene come il precedente dal disco "Palimpsesto" ma al contrario del precedente non ha avuto l'assiduità interpretativa dalla sua, è uno di quelli dove si nota la particolare sensibilità per la musica africana ed afroamericana degli Inti, nonché la loro voglia di fondere questi ritm i con le armonie e gli spunti melodici europei.
Monumentale l'assolo di tiple, dal pizzicato irresistibile.
Qui veramente dispiace che l'audio non sia al top, questa è una rarità su prema.
E come non cantare quel capolavoro antirazzista, che dovrebbe essere l'inno mondiale antirazzista, dal titolo "Samba landó"?
Eccola, già ben condita di influenze africane, sia con il cajón peruviano, che con le claves, che con il cencerro.
Credo che il pubblico stia facendo qualcosa con le mani, ma possiamo solo immaginarlo.
Le voci di José Seves e Marcelo Coulon si rimpallano le strofe, il coro si staglia nel ritornello arricchito qua e là da interessanti melismi mediterranei.
Nell'ultima strofa, quella dove c'è il rallentamento di ritmo, si è sentito chiaramente un pubblico che con calore e precisione batte il tempo. Alla fine ha anche cantato il ""Samba landó", ma non so dirvi bene.
Così si chiude un bel concerto, di cui spero presto si potranno trovare materiali migliori.
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