Carissimi lettori, come qualcuno di voi saprà, ieri sera Canale 5 ha trasmesso il concerto che Renato Zero ha tenuto a Piazza di Siena in Roma per festeggiare i suoi sessant'anni. Ve ne potrò parlare abbastanza approfonditamente perché ho avuto la fortuna di poterne rivedere oggi alcune parti, grazie ad un bellissimo canale di youtube che risponde all'indirizzo www.youtube.com/zerogerry.
Il concerto si è aperto con un'introduzione che ne ha pienamente tradotto lo spirito, nella quale hanno sfilato i principali personaggi che hanno nel tempo rappresentato la romanità, da Aldo Fabrizi ad Anna Magnani, da Gigi Proietti a Cristian De Sica. Il brano scelto come sottofondo a questa panoramica porta il titolo di "Roma", e dimostra tutto il profondissimo affetto che unisce Zero alla sua città. È il brano inedito che, insieme a "Segreto amore", impreziosisce l'ultima raccolta del cantautore romano, appena pubblicata dalla sua casa discografica, la Tattica. Il brano è basato su schemi di ballata classico-popolare, accompagnato da una bellissima orchestra, e cantato da Zero anche in dialetto romano. Questo forse lo avvicina alla tradizione delle serenate romane, sul modello di molti brani resi famosi da Claudio Villa, cantante con cui il nostro ha inciso un duetto virtuale nel disco "La coscienza di Zero".
Il concerto ha preso ufficialmente il via con "Io uguale io", uno dei brani contenuti nello storico album "Zerolandia" del 1978. L'arrangiamento non era stravolto, solo arricchito da suoni elettronici maggiormente riconducibili all'uso attuale degli strumenti sintetici. Comunque in questo brano ed in tutto il concerto gli strumenti moderni hanno fatto solo "tappeti sonori" sui quali si potessero stendere liberamente quelli acustici (una grandissima orchestra sinfonica che Zero ama spesso permettersi quando suona nella sua città natale) e quelli elettrici (un corposo ma secco gruppo rock).
La seconda canzone è stata quella "Amico" che a me ricorda tante cose che vi ho svariate volte raccontato. È stato bellissimo sentirla cantare ad un pubblico inebriato, sempre partecipe alla festa che inevitabilmente porta con sé ogni singola esibizione di Renato. L'arrangiamento qui è profondamente debitore di quello concepito per il bellissimo ed appena ristampato "Prometeo" (Tattica), ma ha finito per arricchirsi di un bellissimo sassofono soprano, estraneo in molti casi al mondo di Zero e più in generale a quello della musica leggera.
Il primo momento giocoso si è avuto con "Baratto", brano che in 45 giri ha fatto da lato B della più famosa "Il carrozzone", trainando così il grandissimo successo del 33 giri "Erozero" (1979). Live il brano è stato giocato con molta più parsimonia, d'altronde la voce di Zero si è leggermente incrinata, circostanza che non gli permette più di eseguire molti colori che avevano caratterizzato il suo canto giovanile. È stato bellissimo anche qui ascoltare il pubblico che ha interpretato passaggi molto lunghi da solo, con l'accompagnamento dell'orchestra e del gruppo leggero. Verso la fine ci sono state delle piccolissime parti eseguite con l'aiuto del disco originale, che stava in sottofondo mentre Renato eseguiva le parti principali. Mi riferisco ovviamente a quando si anticipa il finale a "scat", dove in disco Zero esegue quattro voci contemporaneamente, tecnica che ancora non è possibile riproporre dal vivo (per fortuna!).
Il primo duetto a cui si è assistito è stato quello con Andrea Bocelli, cantante presentato da Zero con molta tenerezza. Bisogna dire che ogni ospite ha scelto brani adatti alla propria timbrica, senza essere preda di insulse voglie di stupire. L'interpretazione di Bocelli, pur nella sua innegabile bellezza, forse non ha saputo rendere giustizia al brano, perché comunque il toscano non sa fare la distinzione fondamentale tra canto lirico e canto leggero, quindi quando canta lirica alleggerisce, quando canta la musica leggera porta troppa influenza lirica. Sinceramente queste operazioni potevano avere senso fino alla fine degli anni Cinquanta, poi con l'arrivo del rock and roll la musica leggera ha preso irreversibilmente la propria autonomia (attenzione che non ritengo il fenomeno completamente positivo, perché oltre a slegarsi dalla lirica la nostra musica leggera ha iniziato a rinnegare tutta la ricchezza che le portava la nostra tradizione popolare, iniziando a derubarla per ripulirsi la coscienza).
Sempre avvolti da questa atmosfera in bilico tra anni Settanta e Ottanta si è poi ascoltata "Fortuna", canzone originariamente contenuta in "Tregua" (altro disco di Zero recentemente ristampato dalla Tattica). Il brano è stato abbassato di un tono, ma non ha perso per niente di smalto ed espressività. La forza andava solo cercata in altri particolari, c'era comunque tutta. Particolare l'assolo di chitarra elettrica che ha scandito il finale del brano, che altrimenti è stato eseguito in maniera fidedigna rispetto alla versione del 1980 nel già ricordato "Tregua".
Il secondo ospite è stata una strepitosa Fiorella Mannoia, che ha interpretato una buona versione di "Cercami". Dico "buona" perché comunque è innegabile che ogni artista riesce a dare il massimo solo accompagnato da musicisti che lo seguono abitualmente, e non si spende mai al massimo quando va a trovarsi in altri contesti. Prezioso è stato l'assolo di chitarra classica che ha chiuso il brano, durante il quale la cantante ha tastato l'atmosfera del tutto particolare che si vive ad ogni buon concerto di Zero.
Di vent'anni prima ("Cercami" risale al 1998, al disco "Amore dopo amore") è la prossima canzone, una spumeggiante "Morire qui" estratta da "Zerofobia", primo album di Zero che ebbe grande successo di pubblico, edito nel 1977. L'arrangiamento presentato è ancora quello dello Zeronovetour, inciso su dvd e reso disponibile, insieme alla riedizione del giustamente fortunatissimo "presente" nel cofanetto "Presente-Zeronovetour". Dalla versione di "Prometeo" (1991) viene il troncamento della parte "Non è finita lo sento..." nella sua prima esposizione, sostituita da un "mia", gridato varie volte in crescendo di intensità.
L'invitata successiva è stata Rita Pavone, artista con cui Zero ha condiviso esperienze all'interno del suo corpo di ballo chiamato "I collettoni". I due cantanti si sono divertiti ad interpretare scambiandosi le strofe quattro grandi successi della cantante "pel di carota", tutti risalenti al periodo di sua massima popolarità, ossia agli anni Sessanta. I brani hanno creato una bellissima atmosfera da night club, dove i due artisti, soprattutto Zero, hanno dimostrato di trovarsi a loro agio. I brani interpretati sono stati: "Alla mia età", "Come te non c'è nessuno", "Che mi importa del mondo" e "Fortissimo".
La partecipazione di Rita Pavone è proseguita con una sua interpretazione di "Mi vendo" molto spumeggiante e forse con troppe tinte blues, che non si addicono, almeno secondo me, ad un brano dalla struttura spudoratamente dance come la notissima traccia d'apertura del già citato "Zerofobia".
Quando Zero è tornato ad essere solo sul palco si è ricordato uno dei suoi più grandi successi estivi tratto dal Q disc "Calore", la canzone "Spiagge". La versione è stata estremamente filologica ed ha permesso di apprezzare ancora una volta l'attività e bravura del gruppo di strumentisti nell'accompagnare il secondo grande protagonista del concerto, il bellissimo pubblico di Zero.
La prossima ospite è Raffaella Carrà che interpreta una curiosa versione dialogata dellacanzone "Triangolo", che, pur non essendo una delle mie preferite, in questa occasione si è fatta apprezzare per ironia e leggerezza.
Ilritorno alla solitudine permette a Zero di interpretare uno dei suoi classici più recenti, la bellissima ballata "Magari", tratta da quel "Cattura" (2003) da troppa gente ingiustamente criticato o peggio ancora snobbato. La versione live perde di efficacia, pur restando una bellissima versione, perché si rafforzano esageratamente le atmosfere rock, che non sono mai state il perno strutturale del brano. Bello ma forse inutile l'assolo dichitarra elettrica a metà brano, grave (in tutto il concerto) la mancanza del pianoforte sempre sostituito da tastiere.
C'è stata anche la partecipazione di Carla Fracci, che ha coreografato la bellissima e tenerissima "Dormono tutti", unico brano eseguito tratto dal cd "Presente", a dimostrazione che Zero non prepara mai scalette spudoratamente promozionali nei confronti delle proprie creazioni recenti, preferendo che in esse si istauri una pacifica convivenza tra le varie fasi della sua carriera. il brano è stato cantato come una vera canzone per bambini, giocando molto e quasi volando.
Altro momento esilarante è stato quello dedicato al duetto, stornellato in romanesco, con il grande Gigi Proietti. La melodia era concepita sulla falsariga di molte di quelle che costituiscono lo stile stornellatorio della capitale, il testo era uno scherzoso ma veridico ritratto di entrambi gli artisti, redatto sotto forma di dialogo, come nella più pura tradizione degli stornelli disfida.
Si è tornati alla serietà con "Niente trucco stasera", che è stata interpretata integralmente, anche in questo caso con grandissima fedeltà alla versione primigenia, quella risalente al 1980 e all'album "Tregua". Ilbrano non ha subito assolutamente il tempo, è attuale e sempre emozionante.
Molto bella è stata anche la canzone successiva, il classico del 1978 intitolato "La favola mia". L'arrangiamento ricalcava fedelmente quello concepito per il primo live che l'ha vista in scaletta, ossia il notevole "Figli del sogno" del 2004. È stato bellissimo come sempre ascoltare il pubblico intonare festosamente e rispettosamente il brano insieme a Zero, che siccome tiene alla partecipazione attiva degli astanti non sconvolge mai troppo i brani, limitandosi, in qualche raro caso, a modificare le introduzioni complicandole leggermente (come è successo proprio con "La favola mia").
Subito dopo si è avuta la partecipazione del più grande sorcino che si possa annoverare tra i comici italiani, il fiorentino verace Giorgio Panariello. Il comico toscano ha cantato, sulla melodia della nota canzone anni Sessanta "Marina", delle strofette esilarantissime dedicate a Zero, e va detto che non solo se la cava bene con il canto, ma l'imitazione di Zero è naturale nel suo timbro. Ha anche raccontato di come gli sia nata questa passione e dicome non sempre gli abbia portato bene. Forse è stato l'intervento migliore di tutta la serata.
Subito dopo Zero ha interpretato un classico del suo repertorio che da una quindicina d'anni a questa parte non può esimersi dall'interpretare in pubblico. Mi riferisco alla bellissima "I migliori anni della nostra vita", impareggiabile inno alla vita, dove passato, presente e futuro sono visti come un unicum inseparabile. Bellissimo il ritornello cantato dal pubblico, stupendo tutto.
Un momento molto particolare si è avuto a seguire, quando sul palco è salito il soulman siciliano Mario Biondi, il quale ha duettato con Zero non nella "normale" "Non smetterei più" tratta da "Presente", ma nella classica e tenerissima ballata "Nei giardini chenessuno sa" tratta dal disco "l'imperfetto" (1994). Le inconfondibili venature soul della voce del cantante non hanno assolutamente privato di visibilità la melodia eterea del brano, a dimostrazione che dove c'è bravura c'è anche versatilità. Il pubblico ha aiutato i due cantanti nell'interpretazione, esprimendosi con giovialità e rispetto.
Il brano successivo è stato un medley, forse il momento meno convincente di tutta la serata, dedicato a quattro brani estratti dagli album "Zerofobia" (Sgualdrina" e "L'ambulanza") e "Zerolandia" (Chi sei" e "Sbattiamoci". L'ho classificato deludente soprattutto perché i brani sono stati privati abbastanza forzatamente delle loro atmosfere per uniformarli ad un certo clima dance anni Novanta piuttosto opprimente.
Quando si torna al Renato Zero recente si esegue "Figaro", una bellissima e toccante canzone che descrive il rapporto molto particolare che Zero spesso ha con il proprio pubblico, quella vicinanza profonda che da molti è bollata come invadenza oppure menefreghismo mascherato. È una ballata molto ricca ed enigmatica a livello musicale, che vede l'alternanza di parti minori, seppur spesso con partenza sul sesto grado della scala, a parti maggiori che, convenzionalmente, partono sull'accordo di "tonica". È curiosa la teatralità sempre diversa che Zero imprime nel finale alle varie ripetizioni del verso "una canzone", accompagnata da un assolo di strumento a tasti (qui tastiera doppia), più spesso un meraviglioso pianoforte acustico.
Un'altra collaborazione che Zero ha fatto nella sua voglia di dare agli altri ciòche non gli è stato dato ai suoi inizi, è stata quella con la cantante romana Tiziana Donati in arte Tosca. La cantante nel 1997 incise il suo secondo disco, dedicato anchea riletture molto buone di brani noti o meno noti della canzone d'autore italiana. Inquell'occasione la cantante romana dà una bella interpretazione della canzone "Inventi", che ha visto anche ora la riunificazione di Tosca e Zero su un palco. L'arrangiamento, purtroppo, è l'unica pecca di questa interpretazione. Difatti trovo quantomeno forzato l'arrangiare questo brano a country americano, influenza solo in parte rappresentata dal marginale finger piking della chitarra, tecnica che nel 1974, anno di composizione della canzone, era all'ordine del giorno. A riprova della marginalità di tale influenza, sulla quale non si può imperniare nessuna rielaborazione del brano che ne voglia essere degna, consiglio di ascoltare l'insuperabile versione live presente nel vinile "Icaro" del1981, ancora non ristampato e non so da quanto tempo ormai fuori catalogo.
Sempre dall'lp "Invenzioni" viene estratta la prossima canzone, un inno contro la violenza sui bambini, dal titolo "Qualcuno mi renda l'anima". La versione, così come si era notato in occasione della recensione dello Zeronovetour", è molto filologica con quella di "Invenzioni", seppur la si abbassa di un tono.
La banda della Polizia di Stato ha poi interpretato un pezzettino de "Il carrozzone", ottenendo devo dire un buon risultato, dando l'occasione a Renato di ricordare suo padre, che faceva parte di quella istituzione.
Ilconcerto, come ormai accade spesso da diversi anni, si è concluso con quello che è l'inno non ufficiale dei "sorcini", ossia "Ilcielo". Posso giurarvi che questa canzone ha sempre avuto, anche prima che io scoprissi Zero, su di me un fortissimo potere, quindi risentirla è sempre un'emozione che mozza il fiato. Il pubblico la interpreta insieme a Zero, in maniera festosa ma composta e qualcuno, oltre allo stesso Renato, sicommuove.
Spero che abbiate apprezzato questa recensione, e che abbiate goduto nel leggerla quanto io ho goduto nello scriverla. Dato che le ripetizioni giovano vi ricordo che se volete vedere moltissimo materiale su Renato Zero, nonché gran parte di questo concerto, dovete andare su www.youtube.com/zerogerry.
Ciao nì!
domenica 19 dicembre 2010
martedì 7 dicembre 2010
Best Italia: ve ne parlo.
Carissimi lettori, torno già a scrivere su questo blog per parlare (finalmente) di un progetto più e più volte pubblicato da Radio Italia Anni Sessanta, consorzio di radio che in tutta Italia (in Umbria non esiste, ma questa è un'altra storia!) sidedica ad un'esaustiva divulgazione di tutta la musica dagli anni Trenta fino ai nostri giorni, includendo anche chicche e rarità difficilmente programmate da canali che hanno scopi spudoratamente commerciali.
Il progetto di cui vi parlo è "Best Italia", serie di 16 dischi, ognuno subordinato ad un tema specifico.
Grazie al sito ufficiale dell'emittente (www.radioitaliaannisessanta.it) percorreremo le track list dei 16 volumi e ne analizzeremo pregi e difetti.
Il primo volume di cui ci è possibile parlare è "Hit parade", contenente canzoni che si sono trovate negli anni alle prime posizioni delle classifiche.
Il disco inizia con una delle più brutte canzoni estive che mi sia stato dato di sentire, ossia "No tengo dinero", cantata dai Righeira, quelli che l'anno precedente (credo il 1983) ci avevano già ammorbato con "Vamos a la playa", brano che ora ha visto un terribile rifacimento da parte dei Flaminio Mafia, uno dei tanti gruppettini specializzati nel rovinare canzoni altrui.
La seconda traccia è una canzone anni Sessanta, ripresa però nella versione di un cantante che negli anni Ottanta, trovando affinità tra il decennio del riflusso e dei "paninari" e quello del cosiddetto "boom economico", ha fatto fortuna rovinando gli spensierati brani di vent'anni prima in maniera veramente vergognosa. Mi riferisco ad Ivan Cattaneo e alla sua versione del "Geghegè" lanciato da Rita Pavone.
La terza traccia eleva sicuramente il livello dell'insieme della raccolta, in quanto almeno è cantata da una cantante che (all'inizio) prometteva bene. Mi riferisco a Loredana Bertè, di cui ritroviamo "In alto mare", brano risalente agli anni Settanta, di cui ascoltiamo un rifacimento live.
La quarta traccia è un brano che non mi ricordo, si intitola "Ilmare più grande che c'è" ed è cantato da Fiordaliso. Vorrei solo spendere due parole su questa cantante: non ha praticamente voce, aiuto!
Continuando a cantare al femminile si trova Marcella Bella, di cui ascoltiamo "Problemi", brano che non conosco. Alla cantante siciliana va giustamente riconosciuto di aver fatto vari pezzi di buona o anche alta qualità come "L'ultima poesia", "Gli amici" (cantate rispettivamente insieme al fratello Gianni e a Riccardo Fogli).
La sesta traccia ci permette di ricordare (quanto sarebbe stato meglio non farlo, ma va bene!) la canzone vincitrice del Sanremo 1997, ossia la fusione di voce impostata e musica elettronica che va sotto il nome di "Fiumidi parole". Era cantata da un duo chiamato Jalisse: chi se li ricorda?
Alla settima traccia compete il ruolo di farci tornare in mente uno dei tanti gruppi che hanno continuato e coltivato il genere melodico inItalia mentre impazzava il "prog" dei vari Banco, P.F.M e compari. Mi riferisco ai collage, dei quali si estrae la gradevole (ma non eccelsa) "Tu mi rubi l'anima". L'unico problema del gruppo: la voce del cantante, praticamente inesistente. Se permettete una divagazione la lacuna è trasversale, riguarda indifferentemente tutti i generi musicali, ci sono pochissime voci belle in giro.
Abbiamo citato Riccardo Fogli per ricordare una delle più belle canzoni di marcella Bella, ed abbiamo il piacere di ritrovarlo in questa scaletta con una delle sue canzoni anni '80 dal titolo "Malinconia". La melodia è apparentemente semplice ma pur sempre sviluppata, non male.
Come nona traccia c'è un brano cantato da Juli and Julie dal titolo "Una storia d'amore". Ammetto la mia proverbiale ignoranza e passo avanti.
Finalmente posso gridare un "bella!" sentito e convinto per quanto riguarda la decima traccia. Ci troviamo infatti con quello che io considero il miglior gruppo tra quanti coltivarono la musica melodica italiana tra la fine degli anni Sessanta e gli anni Settanta. Mi riferisco agli Alunni del Sole capeggiati dal napoletano Paolo Morelli, abile poeta sia nel nobile vernacolo partenopeo che in italiano. Il brano che troviamo fa parte della produzione dialettale del gruppo ed ha il titolo di "'A canzuncella". È una delle ultime canzoni napoletane belle ad aver conosciuto gli onori della celebrità nazionale, poco prima dell'esplosione di quel degradato e degradante fenomeno detto dei "neomelodici". Il brano si inserisce in un filone di brani leggermente jazzati, che comprende perle come "'Na voce, 'na chitarra e 'o poco 'e luna", innovando le sonorità ma non discostandosi per niente come spirito dalla vera tradizione classica.
Ora troviamo il gruppo che in quegli stessi anni aveva coltivato il revival della voce "in falsetto" con una caparbietà davvero invidiabile, ottenendo risultati penosi. Mi riferisco ai Cugini di Campagna, gruppo di cui si ascolta il brano "Innamorati", a me sconosciuto.
Terzultima traccia: qual è la canzone più maschilista di tutta la storia della canzone italiana? "Teorema"!. A Marco Ferradini va riconosciuta bravura, per brani come "Gli Aironi", "Quando Teresa verrà" ed altre, ma questa canzone è da scordare (purtroppo qui ce la fanno ricordare, vedete che il mondo è bello perché è vario!).
Un altro bravo gruppo datoci da Napoli negli anni Settanta è "Ilgiardino dei semplici", anche quest'ultimo dedito ad una semplice ma mai inutile canzone melodica all'italiana. Dal repertorio di questo ensemble viene ripescata "Carnevale da buttare", brano che io ignoro.
La compilation si chiude nel peggior modo possibile, con una specie di semirap in dialetto napoletano inciso da Tullio De Piscopo negli anni Novanta, direi di sorvolare.
Il secondo volume che abbiamo la possibilità di occhieggiare è dedicato ai gruppi beat italiani, quelli che spesso evolentieri hanno fatto dei buoni adattamenti di brani stranieri che molto difficilmente sarebbero arrivati da noi (per questo, invece che essere ricordati, sono sminuiti).
Il volume inizia con una bellissima "Sognando la California", traduzione interpretata dai Dik Dik del brano "California dreaming", lanciato dai Mamas and papas. La versione che ascoltiamo (per fortuna) non è l'originale, ma bensì una eseguita in acustico molti anni dopo.
Altra grande (e forse più lodevole) operazione portata avanti da molti gruppi beat anni Sessanta, è stata quella di riprendere e rivitalizzare brani bellissimi della nostra produzione anni Trenta. Un esempio ne è la seconda traccia del volume "Un'ora sola ti vorrei", qui interpretata dagli Showmen, gruppo napoletano che vedeva tra i suoi componenti il leggendario cantante Mario musella e il sassofonista James Senese. Contrariamente a quanto accade adesso (vedasi la reinterpretazione del medesimo brano da parte di Giorgia), quando si riarrangia si lavora solo sulle sonorità senza toccare la ritmica e la melodia, in segno di umiltà.
Allaterza traccia cominciano i problemi. Arriva una delle canzoni più insipide che mi sia stato dato di sentire, la romantic ballad "Monia", interpretata dagli Apostoli, in uno stucchevole stile tra il cantato ed il parlato, precisamente alternando strofe parlate a ritornelli (sempre uguali) cantati o meglio piagnucolati.
La traccia successiva la ignoro, porta il titolo di "Non c'è più nessuno" ed è interpretata da uno dei più longevi gruppi beat, i grandie e bravi Camaleonti.
La canzone che segue ha una bellissima melodia, rovinata da un testo brutto e da una voce insignificante. Miriferisco a "Guarda", interpretata da un gruppo meno fortunato chiamato The rogers. È un brano in terzinato (come andavano allora) con certe influenze blues, che però non sconfinano mai nella scimmiottatura.
Andando avanti si ritrova un'altra cover dal repertorio americano, l'interessante "To love somebody", che interpretata dai Califfi diventa "Così ti amo". Forse convince meno rispetto a "Sognando la California" ma è pur sempre godibilissima.
Ed arriviamo ad un gruppo il cui destino è legato molto a quello di Francesco Guccini, ossia all'Equipe 84, di cui abbiamo il piacere di ascoltare "Quel che ti ho dato". Si può dire che il gruppo musicalmente non avesse particolari caratteristiche, il loro forte (come ammesso svariate volte da Maurizio Vandelli, suo storico leader)era la bellissima polivocalità.
Proseguendo troviamo i New Trolls, con uno dei pochi brani che hanno tentato di affrontare tematiche forti all'interno del beat italiano. Mi riferisco ad "Una miniera", canzone che rende testimonianza dei sentimenti di un minatore che torna da sua moglie dopo una lunga assenza. Molto bella, complicata ed emozionante. È inoltre innegabile la particolarità del timbro di Di Palo, caratterizzato da un certo falsetto mantenuto naturale.
Troviamo poi uno dei primi brani dei Pooh, il famigerato (ma da me dimenticato) "Bikini beat".
Andando avanti si trova uno dei gruppi di punta del beat italiano, i milanesi Giganti, noti per la stupenda voce di basso di Enrico Maria Papes. Ilbrano che si ascolta è "La bomba atomica".
Proseguendo troviamo un altro brano dei Camaleonti, che nonconosco, dal titolo "Ti dai troppe arie".
Sempre tra brani sconosciuti impantanati troviamo "Nessuno potrà ridere di lei", una delle cover eseguite dai Pooh nel loro periodo beat.
Se vi dico cantante che da quarant'anni vive in Italia e nonostante ciò parla l'italiano con un accento inglese che si sente subito? Qualcuno potrebbe anche pensare a Mal dei Primitives, il cantante che continua questa scaletta con una sua versione di un noto pezzo americano da lui interpretato in maniera molto poco convincente ma tuttavia rimasto nell'immaginario collettivo. Mi riferisco a "Yeeeah".
C'era un gruppo beat italiano degli anni Sessanta, che era noto, oltreché per la sua innegabile bravura musicale nel suo genere, anche per portare un corvo vivo sopra il basso. Ovviamente, dico io, mi riferisco ai Corvi, che chiudono questa scaletta con "Ragazzo di strada", brano che purtroppo è stato ripreso da gente che c'entra pochissimo con quel mondo, vedasi Tonino Carotone. Ilconsiglio che do è di ascoltare la versione dei Corvi, bella, con un bellissimo assolo di chitarra elettrica distorta, tra i primi mai sentiti in Italia.
Se si pensa agli anni Sessanta in Italia, viene naturale di pensare al cinema. Così in questa collezione, che vediamo essere molto completa, c'è un volume completamente dedicato alla musica per cinema. Qui verrà trattato molto superficialmente,speriamo di trovare qualcosa che possa in parte anche esulare.
La seconda traccia del disco è una grande canzone d'ispirazione romanesca scritta ed interpretata dal "piccoletto nazionale", il cantante ed attore romano Renato Rascel. Mi riferisco ad "Arrivederci Roma", che fotografa una visione idillica ma non fastidiosa (almeno per me) della Città Eterna. mi fa tenerezza, ad esempio, il quadro dell'inglesina che getta il soldino in Fontana di Trevi, come sapete anche questo è diventato reato, mentre il falso in bilancio no (giustizia è fatta!).
La prossima traccia di nostra conoscienza è "Nessuno al mondo", buona cover di Peppino di Capri di un notissimo successo americano di Pat Boone. Va detto che il Di Capri degli inizi non ha dato frutti spregevoli (altro discorso quando si metteva a reinterpretare le canzoni napoletane, stravolgendole così da rendere irriconoscibile,quindi inapprezzabile, qualsiasi versione filologica a chi lo amasse).
Il disco continua con una canzone caratterizzata dalla presenza di un "effetto speciale" eseguito dal vero. Mi riferisco alla bellissima "Ilbarattolo" di Gianni Meccia, che è accompagnata dagli spostamenti di un barattolo vero, ossia il cuore del protagonista è fotografato nei suoi movimenti, causati dai maltrattamenti dell'infido personaggio femminile (un po' di maschilismo, ma è un bel brano).
Dal Sanremo 1960 (quello che vide la vittoria congiunta di Tony Dallara e Renato Rascel con "Romantica") viene estratta "Quando vien la sera", canzoncina spassosa a tempo di twist, rimasta famosa nella versione di Joe Sentieri, il cantante del "saltino". Deplorevole (e parla una sua fan) la versione che ne ha fatto Arbore in "Quelli della notte", meglio 'originale.
Proseguendo, nominata e vista, arriva "Romantica" cantata dal grande Tony Dallara, il migliore "urlatore" che l'Italia possa aver vantato, perché è in grado di coniugare gli stilemi americani con un assoluto rispetto della melodicità nostrana.
Proseguendo si scopre che il brano "A felicidade", uno dei classici della bossanova brasiliana, nato dalla penna di Vinicius de Moraes e António Carlos Jobim, ha avuto una versione italiana dalla voce bellissima di Don Marino Barreto jr, uno dei più grandi cantanti del night italiano, nonostante il suo essere cubano.
E a proposito di gioielli stranieri portati da noi da cantanti stranieri continuiamo con "Uno a te, uno a me", interpretazione in italiano del tema principale del film "I ragazzi del Pireo" con musica di Mikis Theodorakis. l'interprete è la grande Dalida, una delle migliori interpreti che la francofonia e l'italofonia hanno posseduto, dalla voce potente e limpida fino alla sua prematura fine.
In questa atmosfera da night, ovviamente, non poteva mancare una "criminal song" di Fred Buscaglione, il grande contrabbassista, cantante e showman torinese. La sua voce, di solito dolcissima, poteva miracolosamente assumere un colore foschissimo davvero raro, basta vedere i suoi ruoli nel cinema, il film "Noi Duri" con Paolo Panelli e Bice Valori.
L'alter ego femminile di Buscaglione era senza dubbio Caterina Valente, grande artista dimenticata dal grande pubblico ma citata dal grande esordiente Piji nella canzone "I cigni di Ninfenburg" nel cd autoprodotto "Lentopede". La voce della Valente è jazz, ma non arriva alle forzature di Mina, che imita senza creare niente di nuovo.
Questo volume si chiude con un omaggio a Napoli proveniente dagli Stati Uniti (che spreco!), ovvero con la versione che Elvis Presley haeseguito di "'O sole mio". Non è male ma, sinceramente, da cultrice della canzone napoletana, avrei preferito avere in questo volume, un brano di Renato Carosone a chiusura di questo omaggio al cinema e al night.
Di nostro completo interesse è anche il volume successivo, quello dedicato ai cantautori.
Il volume inizia con "Genova per noi", classico scritto dal grande Paolo Conte e qui presentato nella notevole versione di Bruno Lauzi. Il brano non è sconvolto, anzi è reso ancora più melodico, evidenziando la sua anima latina, il suo essere una habanera tra le più riuscite di quante sono state scritte.
Il secondo brano è del repertorio "minore" di Fabrizio De Andrè, quello nel quale il cantautore genovese ancora non aveva il coraggio di far vedere la sua vera personalità. Mi riferisco a "Nuvole barocche", comunque interessante fusione tra un ritmo terzinato ed una strofa eseguita ad habanera. Lo si trova nell'lp del 1972 dallo stesso titolo.
Continuando con la scuola genovese si trova una traccia estratta dal primo disco di Gino Paoli, album che già mostra un cantautore giunto a precoce ma completa maturità. Il brano qui presente è "Sassi", canzone dall'andamento misterioso e dal testo triste ed intrigante.
Dello stesso periodo è il brano successivo, un gioiello sconosciuto dell'opera di Luigi Tenco intitolato "Mai".
Subito dopo compare uno tra gli antesignani del cantautorato, il polignanese Domenico Modugno, del quale si ascolta una bellissima ballad anni Sessanta dal titolo "Notte di Luna calante". La ballata è un misto tra un brano romantico all'italiana e certe suggestioni riprese da certi cantanti americani riconducibili al canto singhiozzato, in quegli anni coltivato anche da Modugno, dopo aver interrotto i suoi rapporti con il folk.
Tornando alla scuola genovese si omaggia il grande e dimenticato Umberto Bindi, ottimo interprete ma soprattutto grande autore di musiche con la ricchezza della musica classica e la giovialità ed intimità del jazz. Il brano che troviamo pubblicato è "Se ci sei".
Sempre dall'lp "Nuvole barocche" viene estratto il secondo brano presente di Fabrizio De Andrè, un'interessante ballad a tempo di bolero cubano dal titolo "E fu la notte". Va ricordato che il repertorio di cui ci stiamo occupando fu bollato dallo stesso De Andrè come "peccati di gioventù", in maniera forse cattiva e perché no superficiale. Riascoltarlo ora, alla luce anche della sua produzione successiva, forse farebbe cambiare idea a molti estimatori.
Dopo aver omaggiato i cantautori provenienti o lanciati da Genova si passa alla scuola romana, che viene iniziata da Amedeo Minghi, con il brano da lui dedicato a Giovanni Paolo II. Sinceramente io non l'avrei inserito, avrei scelto "1950" o "La vita mia", e non l'avrei messo in questa posizione, prima sarebbero dovuti venire almeno un Venditti ed un De Gregori.
Continuando si ha il piacere di ascoltare "Agnese", bellissima e dolcissima ballata di Ivan Graziani volontaria o involontariamente ispirata ad un pezzo anni Sessanta anch'esso bello. La versione di Ivan è molto ben fatta, la melodia non lascia spazio ad influenze americane o straniere, stupenda.
Proseguendo si ascolta "Minuetto" nella versione eseguita da uno dei suoi autori, il cantautore Franco Califano. Il testo è modificato in molte parti, la versione è altrettanto sofferta di quella di Mia Martini, seppure quest'ultima aveva una voce migliore (ovvio!).
Troviamo poi Sergio Endrigo, che ci presenta il brano col quale arrivò terzo al Festival di Sanremo 1970 in coppia con Iva Zanicchi. La canzone è "L'arca di Noè", ritratto intimo ma molto sferzante dei problemi profondi di una società che iniziava a sentire di essere allo sbando. La forza di Endrigo sta nell'intimità che filtra tutto, e qui sta anche la sua impossibilità di essere compreso dai cosiddetti intellettuali.
Continuando si arriva al tema ecologico, affrontato da Pierangelo bertoli con forza insuperabile nel suo classico "Eppure soffia". Per chi nonla conosce è una ballata bellissima, con una melodia larga e chiara, di quelle adatte per denunciare le ingiustizie. La sua voce è sempre stata di una limpidezza disarmante, non è mai cambiata tantomeno calata. L'album da cui è estratto il brano è quello che lo porta come title track, risalente al 1975.
Ed eccoci con un omaggio alla scuola milanese, rappresentata da Giorgio Gaber, quando ancora faceva il cabarettista e non dava comizi tramite le canzoni. Il cantautore meneghino è ricordato attraverso una tarantelluccia spassosa degli anni Sessanta dal titolo "Il riccardo", uno dei tanti ritratti di vita di bar lasciatici da Gaber.
L'ultima traccia permette di ascoltare uno dei cantautori di ultima generazione, uno di quelli che a me non piacciono, il rocker Massimo Priviero, uno di quelli che si ispira agli stilemi americani senza permearli di qualsiasi cosa che sia propria. Ne mancherebbero tanti all'appello ma ancora abbiamo molto materiale da visionare e recensire.
Continuando si arriva ad un volume che inizia in maniera divina. Ci riferiamo al disco "Le canzoni del cuore", la cui prima traccia si intitola "Il cielo in una stanza" ed è interpretata dal suo autore Gino Paoli. Sinceramente, pur essendo io una grande ammiratrice del cantante di Monfalcone, avrei preferito la versione di Mina, interpretata sicuramente meglio e con un arrangiamento sicuramente maggiormente curato. A riprova di ciò è il fatto che Paoli stesso, dopo la versione storica del 1960, utilizzerà per cinquant'anni arrangiamenti più o meno fortemente ispirati a quello fatto per Mina.
La seconda traccia non ci interessa perché è un brano che ignoro, quindi ci dedichiamo ad uno dei capolavori della produzione della prima Mina, la bellissima e giustamente celeberrima "Se telefonando" (anche qui,vedasi "Un'ora sola ti vorrei", hanno operato dei rifacimenti per il suo sputtanamento). Qui abbiamo la fortuna di ascoltare la versione originale, quella arrangiata dal grande Ennio Morricone, che prima di iniziare un'inarrestabile carriera di compositore di colonne sonore ha arrangiato alcuni tra i più bei brani italiani.
Come dire dal Paradiso all'Inferno. Andando avanti si ritrova Amedeo Minghi con "Cantare d'amore", brano presentato ad un Sanremo di una decina di anni fa, tra i più brutti che mi sia dato di ricordare.
Proseguendo, sempre da Sanremo, esce uno dei rari brani decenti usciti in questi ultimi anni,da una delle nuove proposte la cui carriera non ha più visto vette che abbiano interessato i media. mi riferisco alla bella romantic ballad "Sei la vita mia" di Mario Rosini, promettente cantante e pianista siciliano, dalla voce tenorile con leggerissime incrinature jazz. La melodia è semplice, per alcuni forse banale, per me sicuramente e giustamente italiana.
Tornando ad omaggiare Umberto Bindi (dopo aver reperito uno dei suoi brani nel volume "Cantautori") qui ci si presenta "Il nostro concerto", bellissima ballata, incrocio tra un brano classico e la sensualità delle ritmiche jazz. Credo però che questa doppia anima del brano e di tutta la produzione bindiana, abbia portato molti jazzisti, con la frettolosità che li distingue, ad appropriarsi di qualcosa che non gli appartiene o non può essere completamente di loro proprietà. Preferisco, se proprio si deve parlare di rifacimenti, quelli di artisti come Claudio Baglioni, che ha reinterpretato il brano in ben due occasioni: nel 1997 nel cd "Anime in gioco" e qualche anno dopo nella raccolta "Quelli degli altri tutti qui".
Un altro esempio di bolero cubano all'italiana lo troviamo nel brano successivo, la bellissima ballata "Era d'estate" di Sergio Endrigo, che qui ascoltiamo con la partecipazione dell'ottima cantante di jazz e musica leggera Rossana Casale. Nonostante il mio aver approvato tale versione, sinceramente rimpiango l'orchestrazione, da qualcuno forse ritenuta barocca, tipica della versione anniSessanta.
Proseguendo si ascolta la versione di Milva del celeberrimo brano "Estate" di Bruno Martino. Sinceramente nonconosco la suddetta versione, ma, quasi per principio, i brani di Martino debbono essere ascoltati da lui (e di questa va rigorosamente ascoltata la versione anni Sessanta!).
Il passaggio agli anni Ottanta si attua tramite una delle canzoni più insipide che mi sia mai stato dato di conoscere, la ballata "Ancora" del cantautore napoletano Edoardo De Crescenzo. la voce del cantante non è malvagia, ma sinceramente mi stancano i virtuosi in modo gratuito, quelli che con il virtuosismo debbono nascondere qualche loro grave mancanza (e ce ne sono trasversalmente!).
Sinceramente avrei preferito ascoltarmi la versione dei Pooh, perché è l'originale, ma andando avanti si trova "Pensiero" cantata da Riccardo Fogli. Il cantante toscano sinceramente, dopo un periodo fortemente creativo avutosi tra gli anni Settanta e gli inizi dei Novanta, credo abbia facilmente ceduto alla tentazione divivere di rendita con il suovecchio repertorio e, soprattutto, con quello da lui cantato per i Pooh.
Dopo aver saltato una traccia ("Io sarò la tua idea" cantata da Iva Zanicchi) quando possiamo tornare a parlare di cose che conosciamo troviamo "Piccolo uomo", canzone di Bruno Lauzi interpretata e portata al successo da una strepitosa Mia Martini. Il brano di Lauzi è bello, ma sinceramente cantato dall'autore è molto meno convincente, gli manca la sofferenza che invece la voce di Mimì gli dà invariabilmente.
La penultima traccia è una perla estratta da un Sanremo di fine anni Sessanta, il brano "Un'ora fa". Il brano è la riuscita fusione tra lo stile soul che permette come nessuno di brillare al cantante milanese ed una grande e larga melodia nostrana. La strofa è in minore, mentre il ritornello è in maggiore, dimostrando così che ancora all'epoca si lavorava in maniera ricca.
Anche in questo volume troviamo la presenza della canzone napoletana, con uno dei suoi ultimi capolavori, la "Resta cu mme" scritta da Domenico Modugno negli anni Cinquanta ed ancora oggi gradevolmente ascoltata dagli intenditori.
Il prossimo volume è dedicato alle "Canzonissime", ossia ad alcune delle canzoni uscite dalla famosa trasmissione televisiva "Canzonissima" (rivoglio quella e via "X factor", "Amici" e compagnia brutta!).
La prima traccia è "Roma nun fa la stupida stasera", bellissima habanera di Garinei e Giovannini, estratta direttamente dall'immortale colonna sonora della commedia musicale "Rugantino". L'interprete è uno dei miei preferiti per quanto riguarda la canzone romana, il romano verace Lando Fiorini,che io ebbi l'onore di conoscere durante il mio periodo a "Sarabanda", poiché venne in trasmissione e, dopo aver recitato una stupefacente poesia di Trilussa, cantò una "Cento campane" che mi ha fatto commuovere fino alle lacrime.
Sulla seconda traccia ho già da ridire, perché il brano è bello ma la versione presentata secondo me non è sufficientemente buona. Il brano è "Un'estate fa", rifacimento in italiano della canzone francese "Une belle histoire", qui cantato dagli Homo Sapiens ma lanciato anche da Michel Fugain, interprete originale del brano. Ilsuo italiano è caratterizzato da un'affascinante e tirannica "erre moscia", ma l'interpretazione è insuperabile, vi giuro!
Ed a proposito di brani rifatti (o che dopo sono stati tradotti in svariate lingue), si ha il piacere di ascoltare la versione italiana di "Without you" dei Gens. Il brano si intitola "Per chi" e devo dire che è riuscito, molto peggiore è il rifacimento recente di Brenda, per L'italia, e di Maria Karey per gli Stati Uniti.
Dopo aver saltato una traccia si trova la stupenda versione che José Feliciano ha dato del mediocre brano di Jimmy Fontana (e parla una sua ammiratrice) "Che sarà". La bellezza della versione di Feliciano, secondo me, sta nel virtuosismo che il portoricano mette nell'accompagnamento di chitarra, sicuramente notevole.
Si ritorna ai cantautori e si ritrova Bruno Lauzi, con uno dei suoi primi e più bei brani, la ballata "Ritornerai", che come sempre io vi consiglio di ascoltare solo da lui. Bruttissima infatti è la versione che ne diedero circa una decina di anni fa i Delta v, gruppo di pop elettronico a me completamente estraneo.
Proseguendo si trova un altro dei capolavori della produzione di Mina, la traduzione initaliano del brano "It's a lonely town" dal titolo "Città vuota". Non so quale versione si trova nel cd, spero di cuore sia quella anni Sessanta, perché quando successivamente la cremonese reincise il brano per uno dei suoi dischi dal vivo, gli arrangiatori ne fecero (come spesso accade) scempio. È sempre un problema riuscire a riarrangiare completamente un brano, spesso si cade nelle grinfie della moda, soprattutto nel deleterio ambiente del pop.
Bellissima la traccia successiva, la spassosissima canzone "La gatta" di Gino Paoli. Qui non ho preferenze di versioni, voglio solo segnalare, per la sua indubbia particolarità, quella interpretata dal cantautore montefalconese insieme ad Enrico Rava, Danilo Rea ed altri jazzisti nel disco di Rava "Strane stelle strane", tutto dedicato a rifacimenti in chiave jazz di successi della musica d'autore italiana e non solo. Da quel disco è notevole anche la partecipazione di Renzo Arbore, con il swing napoletano di "Smorza 'e lights", dove il foggiano suona anche il suo amato clarinetto.
Continuando si arriva alla traduzione in italiano di "Milord", brano lanciato in Francia da Edith Piaf e da noi ripreso da Milva. L'arrangiamento qui è fidedigno, anche se forse i giri di fisarmonica musette nella versione italiana suonano come qualcosa di falso ed imitato. L'interpretazione è abbastanza buona, perché sono innegabili i punti di contatto tra le due voci, ma il mio consiglio, ovviamente, è quello di ascoltare la versione francese, assolutamente più bella. Sono alla pari, invece, la canzone della Piaf "Les amants d'un jour" e la sua traduzione italiana, curata ed interpretata dall'italo-francese Herbert Pagani, dal titolo "Albergo ad ore". Il fatto è che nel caso di Pagani la teatralità francese è qualcosa di naturale, non imitato e tantomeno acquisito.
Andando avanti si riscopre una delle canzoni meno belle che possano aver dato gli anni Sessanta italiani, ossia il motivetto beat "Perché l'hai fatto", che si ritrova nella versione di Beniamino Reitano, noto al grande pubblico come Mino Reitano. La voce del calabrese avrà forse il suo fascino, ma secondo me è tutto meno che un timbro perfetto o bello.
Anche in questa compilation fanno capolino i pooh, con la loro famosissima "Piccola Ketty", primo loro grande successo, ancora in epoca beat. Io l'ho sempre trovata una canzone pietosa, perché si sente lontano un miglio che è composta per scimmiottare ciò che non ci appartiene.
Dopo una traccia a noi sconosciuta ("Furore" di Adriano Celentano) riscopriamo uno dei tanti gioielli usciti dalla penna del grande e dimenticato Memo Remigi. Dalla sua voce abbiamo il piacere di riascoltare "Io ti darò di più", brano portato al successo da Ornella Vanoni alla fine degli anni Sessanta. Io sono molto legata a Remigi, perché circa tredici anni fa conduceva la versione domenicale di "Per noi", bellissimo programma musicale di Rai Radio 1, quando ancora non si era completamente votata allo sport. Il programma era fatto da un immaginario night club anni Sessanta, con un grandissimo pianista chiamato Luciano Simoncini,e vi venivano invitati grandi nomi di quel periodo come Bruno Martino, Gino Paoli ed altri (che nostalgia!).
Il disco si chiude con un pezzo di un gruppo di musica strumentale "progressiva" chiamato Il guardiano del faro". Sinceramente a me non dicono niente.
Il prossimo volume è intitolato "L'ora dell'amore", titolo ripescato da una delle più belle canzoni del periodo anni Sessanta, la cover di "Homburg" dei Procol Harum eseguita dai Camaleonti.
Il volume inizia con "la più bella del mondo", bellissima ballata romantica interpretata da Marino Marini, una delle stelle del night club anniSessanta, nato a Napoli. Il suo stile potrebbe essere paragonato a quello di Renato Carosone, anche se il Marini era possessore di un timbro sicuramente più bello e raffinato.
La seconda traccia è un brano dal titolo "Amore grande, amore libero", ripreso dal repertorio dei già citati e deplorati "Il guardiano del Faro".
Ed eccoci ad una delle canzoni più insipide (e quindi più ricordate) degli anni Settanta italiani. Mi riferisco a "Bella da morire" degli Homo Sapiens. Per descriverla brevemente si potrebbe definire una canzone da fotoromanzo, una di quelle dove l'uomo si chiede perché la sua innamorata lo abbia lasciato, senza chiedersi se costui a colpe.
Continuando troviamo una delle voci più grintose che gli anni Settanta abbiano potuto conoscere, quella di Mino Vergnaghi, il quale ha azzeccato alcune belle melodie tra cui questa "Amare", anche se, quando con gli anni ha deciso di rifarle, ci ha messo delle coloriture troppo blues che non le esaltano ma le nascondono. Comunque fa sempre piacere ricordare questi interpreti rimasti solo nella memoria di chi la musica la amava davvero.
Andando avanti si ritrovano i Cugini di Campagna (sarebbe meglio di no!), con una canzone che ha tragicamente segnato la mia infanzia. Mi riferisco ad "Anima mia", che digerisco (a malapena) nella versione di Baglioni, solo perché è lui che canta. È una delle tante canzoni che sfrutta lo stereotipo della tristezza dell'uomo lasciato, che non si chiedemai il perché sia stato abbandonato dalla propria compagna, della quale sente una nostalgia sferzante, diremmo "canaglia" citando un pezzo che spero non troverò mai.
Un'altra cover del repertorio dei Pooh da parte di Riccardo Fogli continua la scaletta. Il brano prescelto è "Tanta voglia di lei", il primo (che io sappia) brano dei Pooh ispirato ad una relazione adulterina. In questo caso, contrariamente a quanto accadrà anni dopo con "L'altra donna", qui il protagonista capisce il suo sbaglio e dice un laconico "Il mio posto è solo là", per accontentare i benpensanti, all'epoca ancora grandi fustigatori.
Continuando con i gruppi troviamo prima i Ricchi e poveri (che dai trallalleri liguri sono passati al poppettino commerciale) e poi i New Trolls quando già avevano ampiamente superato la fase beat. Il brano che troviamo in scaletta è la bellissima "Quella carezza della sera", canzone tenerissima sui ricordi d'infanzia del protagonista. Interessante soprattutto per il finale del ritornello, che contiene un dodiesis settima aumentata, che fa da seconda diminuita rispetto alla scala di do del brano.
Dopo una traccia sconosciuta, "Fiore di carta" cantata da Bobby solo", troviamo il brano che dà il titolo al cd, di cui si è già parlato in sede introduttiva. Qui voglio solo spezzare una lancia a favore dei Camaleonti, che sono riusciti ad eseguire un rifacimento italiano molto bello, anche migliore della stessa canzone originale.
Anche qui abbiamo il piacere di ritrovare Memo Remigi, con uno dei suoi gioielli assoluti, la ballata dal ritmo inclassificabile "Innamorati a Milano". In molte parti sembra un bolero, ma prima che il ritmo si schiude ve ne sono altre a tempo neutro, molto enigmatiche (imparate nuovi autori da chi aveva meno accademia e più fantasia!).
Continuando riscopriamo un altro grande successo estrapolato dal canzoniere di Umberto Bindi, la ballad terzinata "Arrivederci". Sinceramente trovo molto più convincente la versione jazzata data da Marino Barreto Jr, ma queste sono le scelte di chi ha fatto la compilation. È abbastanza brutto il vocalizzo che Bindi esegue prima di ogni esposizione del tema melodico, semplicemente perché è portato avanti da una voce che non è abituata all'uso di questa risorsa.
Dello stesso periodo è la penultima traccia, la mia canzone preferita di Giorgio Gaber, nella quale il milanese sfodera un'anima da crooner che dopo, infervorato dalla politica, ha perso assolutamente per strada. La ballata che troviamo è "non arrossire", bellissima serenata d'amore, debitrice sì di certi stilemi nordamericani, ma prima d'ogni cosa della serenata popolare italiana.
Il volume si chiude con il tema del film "Love story", interpretato dal sassofonista Fausto Papetti, interprete che ha chiuso un'epoca, purtroppo mai più ricominciata, nella quale la musica strumentale andava a braccetto con i dischi cantati.
Eccoci ad uno dei momenti più polemici di tutta questa rassegna, perché ci dobbiamo occupare del volume napoletano della collezione "best Italia".
Il volume porta il titolo di "Bella Napoli" ed inizia con "Cu' mme", rpesentataci in una versione interpretata solamente da Mia Martini, e già qui c'è da ridire. Infatti il brano è spudoratamente concepito affinché una voce (maschile) canti a strofa mentre un'altra (femminile) le risponda nel ritornello. Poi trovo ingiusto omettere Murolo dalla prima traccia di un cd napoletano, lui che ha sempre perseguito il rinnovamento rispettoso della canzone napoletana, anche quando è stato preso in mano da produttori senza alcuno scrupolo.
Ancora più da ridere c'è nella seconda traccia, perché troviamo Gigi D'Alessio, ossia colui che ha dato visibilità nazionale al deplorevole fenomeno dei "neomelodici", quegli interpreti il cui stile è assolutamente e rigidamente prestabilito. Il napoletano interpreta "Annarè", colonna sonora di un film, ultima sua esperienza rimasta confinata praticamente al territorio campano.
Il volume va di male in peggio, perché dopo il primo figlio troviamo il padre dei "neomelodici", che pentito del misfatto compiuto e volendolo in qualche modo appianare (mentre oramai si sa che non può più) si è dato al teatro e alla cosiddetta "canzone di qualità" (siete sicuri?). Mi riferisco a Nino D'Angelo, di cui si ascolta "Nu jeans e 'na maglietta" risalente all'inizio degli anni Ottanta, ai suoi primi film osceni.
Il primo brano "classico" che si ascolta è "Tu ca nun chiagne", in una versione forse non bruttissima ma sicuramente non favolosa. Mi riferisco a quella che ne hanno dato il gruppo napoletano "Il giardino dei semplici", quando, nel più generale e spesso falso interesse per le canzoni dialettali o di tradizione, anche la canzone napoletana sembrava rivivere con versioni rivisitate fino all'eccesso. In questa addirittura spiccava uno strumento sintetico tipico del "progressivo" su cui è meglio sorvolare.
E a proposito di cose sgradite andando avanti si trova l'abruzzese Fred Bongusto che rilegge "Resta cu' mme", ma questa licenza può essere perdonata in quanto la versione di Modugno è stata già inserita in un volume precedentemente da noi consultato (potevano non so perché mettere la versione di Murolo, forse sì!).
Non sono una fan di Mario Merola, ma per lo meno la sua napoletanità e il suo essere legato ad un certo stile "classico" sono innegabili. Dalla voce di Merola ascoltiamo "'A voce 'e mamma", brano che stava benissimo sulla bocca di tutti quei cantanti che avevano nelle corde il repertorio "guappo" o "di giacca", tra cui ricordiamo Tony Bruni, Tony Astarita, Nunzio Gallo ed altri.
Il prossimo brano è sicuramente il migliore della prima metà della serie, anche se non sono tanto d'accordo sulla versione prescelta. Come settima traccia, infatti, si trova "Malatia", interpretata da Peppino di Capri. Il cantante napoletano si è sempre vantato di aver cantato la canzone napoletana senza avere mai impostato la voce, mentre secondo me un minimo di impostazione o di purezza di dizione è richiesta obbligatoriamente da questo repertorio. Io vi consiglio di sentire le versioni di Armando Romeo (autore del brano) e di Roberto Murolo, ottimo interprete per tutti i brani nati o concepibili per chitarra e voce.
A proposito di grandi chitarristi andando avanti si riscopre Fausto Cigliano, quando ancora non aveva ricevuto la lezione di Mario Gangi, quindi suonava con tecnica da night. Del cantante vomerese viene riscoperta la bellissima versione, incisa negli anni Cinquanta chitarra e voce, del brano "Che m'e 'mparato a ffà", da molti conosciuto per essere entrato nel repertorio canoro di Sofia Loren.
Domenico Modugno fa la sua apparizione con "Strada 'nfosa", brano completamente da lui scritto in lingua napoletana,cosa che si può notare per le leggere imperfezioni presenti nel testo, notate ironicamente e rispettosamente da Totò. Il brano è una dimostrazione di come i ritmi swingati, con la loro oscurità, sanno esaltare come pochi il napoletano ed il suo suono ondoso.
Roberto Murolo arriva ad interpretarci "Anema e core", uno dei classici della canzone napoletana degli anni Cinquanta, prima canzone partenopea che portasse l'indicazione "slow" sulla partitura. Credo sia stata incisa da Murolo due volte: la prima su 78 giri (molto migliore) e la seconda per la sua "Antologia della canzone partenopea" per la Durium.
Dopo questa parentesi filologicamente corretta vi sono svariate tracce che non conosco, interpretate rispettivamente da Sofia Loren e Mina, ma quando si torna a cantare brani noti lo si fa con una bruttissima versione di "Maruzzella" da parte dei Beans, gruppo che negli anni Settanta si prodigò in rifacimenti-distruzioni di brani storici, tra cui la bellissima (e altrettanto napoletana di provenienza, seppure in lingua italiana) "come pioveva" di Armando Gill.
La chiusura permette di nominare Renato Carosone, il più diretto rivale di Murolo per quanto riguarda la popolarità a livello napoletano, nonché di Buscaglione nel suo periodo di frequentatore di night. Non so quale versione è presente in compilation di "Tu vuo' fa' l'americano", ma io vi consiglio di ascoltare solo quella incisa con il sestetto storico, difatti trovo deludente tutto ciò che Carosone ha inciso dopo rifacendo il repertorio anni Cinquanta.
Il prossimo volume ha una logica che non capisco. Difatti, anche se si chiama "I grandi interpreti" inizia con un cantautore. Il primo brano difatti è "1950", forse la canzone più commovente che Amedeo Minghi sia riuscito a concepire. La sua versione non è assolutamente brutta, però solo da studio. Non sopporto la sua abitudine di cantare dal vivo eseguendo continui spostamenti di tempo, che non permettono mai il canto al pubblico. Lo sfasamento di tempo, come qualsiasi risorsa, va usata moderatamente.
La traccia successiva riporta alla ribalta un artista che a me non piace, a cui però non può essere negata bravura. Mi riferisco a Michele Zarrillo, del quale si ascolta "Una rosa blu", brano del 1982, assurto alla popolarità solo nel 1998 in occasione del suo rifacimento nella raccolta "L'amore vuole amore". Il brano, è strano a dirsi, è cento volte meglio nella versione rifatta nel 1998 piuttosto che in versione originale, sono soprattutto più curati gli arrangiamenti.
Anche questo volume contiene l'ennesima cover dei Pooh da parte di Riccardo Fogli (che stette nel gruppo svariati anni, meglio specificarlo). Il brano che si trova in questa compilation è "Noi due nel mondo e nell'anima", che però è cento volte meglio in versione originale, perché fonde bene sonorità italiane con qualche condimento "progressivo" (forse solo per ammiccare alla nascente moda!).
Come quarta traccia si trova una canzone di Toto Cutugno che non conosco o non ricordo (perché non so se faceva parte delle sessioni d'ascolto domenicali che mi dovevofare mentre mio nonno russava come un trombone!).
Purtroppo quando si torna a parlare di brani conosciuti arriva Adriano Pappalardo (che speravo di non trovare, sinceramente!), con quello che è stato il suo più grande successo, quello che tutt'ora lo contraddistingue, ossia "Ricominciamo". Non parliamo del testo, dico solo che è un banalissimo brano terzinato con qualche venatura blues, perché già stavamo diventando più statunitensi degli statunitensi.
Andando avanti si torna agli anni Sessanta e si parla di brani di indubbia qualità, come la ballata "A chi", forse la canzone più bella mai cantata da Fausto Leali. Un'altra storia è la versione di De Gregori che, essendo un po' stanco, l'ha fatta... a blues, tanto quella è una musica che si canta pure senza voce, e lui oramai è notorio che non ce l'ha (tra lui e Dalla è una coppia perfetta!).
Continuando con gli anni d'oro della canzone italiana troviamo "Una rotonda sul mare", uno dei tantissimi gioielli regalatici da Franco Migliacci, il grande paroliere di "Nel blu dipinto di blu". La ballata è di una semplicità e una leggerezza che conquistano, esenti da banalità in tutti i sensi. Da notare l'assolo di chitarra classica che scandisce le parti strumentali del brano oltre agli immancabili violini.
Il brano che segue è molto bello ma io non l'avrei inciso nella versione presente in compilation. Ci troviamo davanti a "Love in Portofino", che però ascoltiamo nella versione di Dorelli (avrei preferito Buscaglione o la già ricordata Dalida). La versione del Dorelli, nonostante le sue innegabili qualità vocali, è fiacca, soprattutto è troppo alla Frank Sinatra.
E l'avevamo citata poco fa, ce la ritroviamo cantata da Domenico Modugno. Mi riferisco a "Nel blu dipinto di blu". Spero di cuore che sia la versione del1958, quella incisa con il sestetto azzurro di Semprini, l'unica davvero bella.
Dal Paradiso all'Inferno: "Italia" di Mino Reitano continua questa scaletta. Il brano è di un patetismo riluttante, sorvoliamo.
Subito dopo si fa il viaggio all'incontrario, perché si trova la bellissima "L'immensità", che io ritengo la più bella canzone italiana di tutti i tempi. La si ascolta (e giustizia è fatta!) da Don Backy. Spero sinceramente di cuore che non sia la versione del 1967, infatti il Caponi secondo me aveva una voce non molto espressiva da ragazzo, e solo con gli anni Ottanta, ancora di più dagli anni Novanta in poi, gli è nato il timbro limpido e rauco che amo tanto. Io vi consiglio quindi diascoltare la versione presente nel volume 1 della collezione "I grandi successi", quello dedicato al repertorio 1962-1967, che giustamente porta questo brano in chiusura.
Ed eccoci ad una delle prime canzoni impegnate cantate da Giorgio Gaber, anche se ancora fortunatamente era lontano dalle canzoni-comizio degli anni Settanta. Troviamo infatti "E allora dai", presentata sempre all'edizione sanremese del 1967. Il brano è spudoratamente beat, non mi ha mai del tutto convinto, ma è gradevole.
La penultima traccia è un brano che non conosco, ilcui titolo dà adito al sospetto che sia il rifacimento, sicuramente in chiave rock, del brano del Quartetto Cetra dal titolo "Donna". Speriamo di no!
Il volume si chiude con un omaggio al "molleggiato" che appare con il suo primo successo, il rock and roll spumeggiante "Ciao ti dirò", interpretato contemporaneamente anche da Gaber.
Il prossimo volume contiene brani di qualità abbastanza mediocre, ma sempre più belli di ciò che ci propinano attualmente le radio. L'argomento, quindi anche il titolo del cd, è "Super classifica '70-80".
Si inizia con il più grande successo dei già ricordati Il giardino dei semplici, ossia la ballad "Miele". È un titolo che dà adito a possibili schifezze come pochi altri, infatti esiste anche una canzone di Gigi d'Alessio con questo titolo (mamma mia!).
La seconda traccia è "non si può morire dentro", interpretata da Gianni Bella, uno dei cantanti che mi piacciono di meno, dopo quelli di "X FACTOR", OVVIO! lA SUA VOCE è VERAMENTE ORTICANTE, IL SUO FALSETTO DA SOPRANISTA è BRUTTISSIMO, SOLO PEGGIO DEL CANTANTE STORICO DEI cUGINI DI cAMPAGNA.
Negli anni Settanta andavano in classifica anche brani strumentali. La conferma ne è questa "Il gabbiano infelice" del guardiano del faro, su cui non tornerei.
E come dire subito appena nominati, eccoli i Cugini di Campagna. Dal loro repertorio in questo caso si estrae una canzone dove l'uomo, indeciso tra due donne, non trova la sua strada. Patetica, con un ritmo neutro ma senza alcun interesse e... la voce di lui non merita alcun commento.
E gli anni Ottanta compaiono con la vincitrice del Sanremo 1982, ossia "Storie di tutti i giorni". Il brano è decente solo nella versione di Gianni Morandi, la versione originale è quasi inascoltabile, quasi completamente elettronica, senza la traccia di uno strumento elettrico, eccezion fatta per una banalissima chitarra elettrica.
E come poter sorvolare questa canzone di Fiordaliso, la cui carriera è restata legata a questo brano fino ad oggi. mi riferisco a "Non voglio mica la luna", inno della contentezza per le poche cose che si possono avere, che non invita assolutamente a lottare, ma che volete eravamo nell'epoca del riflusso.
Gli anni Ottanta, ovviamente, sono stati caratterizzati dall'apparizione folgorante di Donatella Rettore (scusate, solo Rettore!). La cantante faceva dei testi un po' provocatori, innovativi ma secondo me da quattro soldi. Il brano che troviamo vorrebbe essere un tentativo, per me fallito, di affrontare l'amore in maniera innovativa, facendo una disquisizione sul kobra. Ilbrano è pseudo etnico, forse potrebbe anche essere una tarantella, è pietoso.
Dal 1980 viene "Su di noi", una delle perle prodotte da Enzo Ghinazzi in arte Pupo, quando non si era dato anche alla conduzione di programmi televisivi e radiofonici nonché alla convivenza con i principi. Il problema è che quello che per lui è "senza una nuvola", per chi ha delle buone orecchie è un incubo.
E l'avevo citata prima durante l'esplorazione del volume "Bella Napoli", come esempio della maniera di lavorare di questo gruppo, ed ecco che mi ritrovo la "Come pioveva" dei Beans in questo volume. In ogni epoca vanno fatte cose diverse, forse questo è vero, ma chenon le si facciano prendendo e depredando un'altra epoca di ciò che le si addisse di più. Il brano è eseguito senza alcun tremolo nella voce, con uno stile di canto più avvicinabile al pop che alla melodia italiana, senza nessuna fuga da schemi statunitensi a noi estranei. Il ritmo è una specie di bolero fatto a rock, bruttissima!
Dispiace sempre vedere chi ha una bella voce svendersi fino a fare cose pop e commerciali. È questo il caso di Giuni Russo, che negli anni Ottanta ebbe qualche contentino di popolarità con delle canzoni scritte spesso da Battiato (prima filosofeggiava e dopo scriveva "Un'estate al mare"), tra cui questa "Limonata Cha cha cha". È un pezzo accettabile solo per l'interessante operazione di revival nei confronti di un ritmo che all'epoca non era di moda, ma se volete sentire dei cha cha cha all'italiana andate su "Drakula cha cha cha" di Bruno Martino o sul "Cha cha cha dell'impiccato" di Jimmy Fontana e Gianni Meccia, che in verità prende questo ritmo solo nel ritornello.
Uno dei cantautori più dimenticati degli anni Settanta è Leano Morelli, trasmesso solo da pochissime radio tra cui appunto Radio Italia Anni Sessanta. Del cantautore in questione si ha l'onore di trovare una bellissima ballata dal titolo "Nata libera", molto lenta, caratterizzata dall'alternanza di una strofa in minore ed un ritornello completamente in maggiore. La semplicità dell'accompagnamento strumentale, eseguito senza elementi sintetici, esalta l'armonia e la stupenda melodia, che incastonano un bellissimo testo.
Abbiamo trovato in precedenza Marco Ferradini con la sua peggiore canzone, ora ci rifacciamo. In questo volume è presente un brano dove è evidentissima l'influenza di Lucio Dalla, soprattutto nella presenza di un sassofono alto molto graffiante. La ballata è concepita su una scala maggiore quasi completamente sfruttata, quindi non è una di quelle da falò in spiaggia e s'intitola "Schiavo senza catene".
Per fare canzoni quantomeno discutibili si può facilmente sfruttare la partenza per il militare, che ancora negli anni Settanta era obbligatoria. È questo il caso di questo classico dei Santo California dal titolo "Tornerò", che sfrutta l'alternanza tra cantato e parlato, sperimentata tra gli altri da Serge Ginzburg nella sua "je t'aime, ma non plus", ovviamente con ben altri risultati.
Il volume si chiude con un ricordo di Ivan Graziani, con un altro dei suoi gioielli, uno dei pochi che sia riuscito a diventare di dominio pubblico. Mi riferisco a "Firenze (canzone triste)", canzone che si può annoverare tra le ballate più intime del suo repertorio. Per chi non la conosce dirò che è una ballata caratterizzata da un brevissimo ritornello che si inserisce all'interno di strofe lunghissime, che musicalmente alternano momenti minori ad altri maggiori.
Ora ci dobbiamo occupare del repertorio riguardante le canzoni dell'estate, quelle che forse vanno bene sotto l'ombrellone (non è detto!), ma che, appena tornati, a me fanno subito venire l'orticaria.
Si inizia con "Tropicana", grande hit anni '80 del Gruppo italiano, ensemble che ha prodotto un altro brano molto più carino, la swingante "Anni ruggenti".
Non so perché l'estate è sempre collegata all'America Latina, ai Caraibi,quasi mai al Mediterraneo. A riprova di ciò si può citare il prossimo brano, un'insopportabile ritmo pseudocubano, dove si mischiano molti posti caraibici e si dipinge un paradiso a sfondo sessuale veramente vergognoso. Mi riferisco a "Maracaibo" di Lu Colombo, interpretata insieme a Davide Riondino.
E quando si parla d'estate non possono maimancare i Righeira, che già avevamo incontrato con "No tengo dinero" ma ritroviamo con "L'estate sta finendo", brano ispirato a quando a settembre si riflette "Sugli anni e sull'età", a quando "dopo l'estate" si ha "il dono usato della perplessità". Ovviamente la citazione di Guccini dalla "Canzone dei dodici mesi" in questo contesto è ironica, perché la canzone si limita ad asserire con ripetitività e povertà musicale che "Le'state sta finendo".
Non so cosa farei a Tony Esposito e Tullio De Piscopo se solo mi capitassero tra le mani. È troppo facile fare progetti spudoratamente commerciali per poi potersi finanziare i progetti cosiddetti "di nicchia". Di Tony Esposito troviamo quell'insopportabile mix di napoletano, inglese e lingue inesistenti che è "kalimba de luna", interpretata con una vocina che non sa né di me né di te (comeEugenio Bennato con la sua taranta del "volemose bbene".
Continuando in questa atmosfera latinoamericaneggiante troviamo le sorelle Iezzi, che dopo aver fatto qualche cosa di decente all'inizio, hanno successivamente capito che per scalare le vette delle classifiche dovevano fare dance. Così, al ritorno da un viaggio in Spagna, ci hanno regalato questa hit meravigliosa stile "ciclone" di cui io avrei fatto volentieri a meno, dal titolo "Vamos a bailar (esta vida nueva").
L'avevamo citata ed eccola, ancheperché questo volume porta esattamente il titolo di questa traccia. Ci troviamo davanti ad "Un'estate al mare", cantata da Giuni Russo, brano dove Battiato sembra voler espiare i suoi peccati presenti e futuri di filosofia musicale (altrettanto detestabile che il pop di consumo!).
E tornando a voci che non sanno né di me né di te (almeno la Russo aveva una bella voce, l'ho già detto) troviamo la più grande voce porno italiana, ossia Viola Valentino. Il timbro è falsamente sensuale, perché è la storia di una donna che si vende ad un uomo (vergogna!), il brano si chiama "Comprami".
Sull'articolo di commento alla "Shit parade" di www.hitparadeitalia.it avevo citato "il vocione" e il "vocino". Ve li ricordate? Bravissimi, Al Bano e Romina Power. In questo volume, e come poteva mancare, purtroppo c'è "Felicità", una delle canzoni più brutte che io abbia mai sentito (ovviamente l'inno dei Truzzi e fuori classifica!). Per chi non se la ricorda è una bella tarantella (perché Carrisi e di Cellino San Marco, quindi "le radici ca tene" sono pugliesi), con un testo bruttissimo.
La traccia successiva fortunatamente la ignoro, è cantata dagli Homo Sapiens e si chiama "Due mele", ma non manca alla mia coscienza una bellissima merdolina di Tullio De Piscopo intitolata "Andamento lento", dove credo che il napoletano suoni una bruttissima batteria elettronica o sintetica. Si può dire che questo brano di De Piscopo è l'antesignano più diretto della filosofia del "volemose bene" di cui sopra.
Reperiamo andando avanti uno dei rap più brutti (anche se lui ha una bella voce, vai qualcosa di accettabile c'è), ossia "Ma quale idea" di Pino D'Angiò. Ma sarà mica il fratello di Carlo D'Angiò dei Musicanova, il quale gli scriveva le canzoni di nascosto mentre poi si cantava le "montanare" e le "rodianelle" del gargano? Comunque il brano è insopportabile, come tutti i rap, a me infatti il parlato mi piace solo se non va a tempo con il ritmo del brano, e prende le forme di un recitativo (vedasi certe cose di Paolo Conte o l'ultimo Claudio Lolli). Va detto poi che il rap in minore è qualcosa di penoso, ed ancora più penosa è la reinterpretazione ed ammodernamento che ne hanno fatto i Flaminio Mafia.
Una carina l'abbiamo trovata come terz'ultima traccia, la canzone "Profumo di mare", rifacimento da parte di Little Tony di "Love boat". Non è del tutto banale, è anzi una ballad abbastanza carina, e lui non ha una voce completamente insignificante.
Geniale è la penultima traccia, ovvero la "Tintarella di luna" di Mina,che ci permette di ricordare Bruno De Filippi, grande musicista recentemente scomparso, compositore di questa frizzante melodia. È un twist introdotto da una piccola parte melodica, ma fortemente caratterizzato nella versione di Mina da un impareggiabile assolo di sassofono baritono.
Si chiude con un brano "beat", il maggior successo di Giuliano e i Notturni, ossia la traduzione italiana del "Simon says", diventato da noi "Il ballo di Simone". Non è un capolavoro, ma questo volume ne ha ben pochi.
Il volume dedicato ai "gruppi" inizia con un riferimento all'epoca "beat", quella che in Italia ha visto la proliferazione indisturbata di "complessi" tra cui i Rokes, di cui ascoltiamo "È la pioggia che va". Il brano è bello, peccato la voce di Shapiro ed il suo funestissimo accento inglese.
La seconda traccia ci permette di riscoprire uno dei pochi rifacimenti di brani non americani tra quelli entrati nella storia della musica italiana, ossia la traduzione italiana del brano "Wight is wight" di Michel Delpêche, interpretata dai Dik Dik con il titolo "L'isola di Wight". Sinceramente non mi ha mai convinto questo brano, né in versione originale né tradotto, anche se devo riconoscere una qualche ricchezza alla melodia.
E per tornare ad un rifacimento americano, arriviamo ad un'altra cover incisa dai Pooh nel loro periodo "beat", il brano "Vieni fuori", rifacimento di "Keep on running". La melodia, non so se in seguito o contemporaneamente, è stata ricantata anche da un altro cantante che non so precisare con un altro testo, prassi completamente accettata.
E ci troviamo di fronte ad uno dei gruppi più importanti nella fase tra "beat" e "prog", ossia la Formula 3, di cui ascoltiamo "Questo folle sentimento", uno dei brani usciti dalla produzione di Mogol e Lucio Battisti, che scrivevano anche per i gruppi della loro scuderia, la Numero 1. Il brano è basato su un mi un po' ripetitivo, che si sblocca solo con l'apparizione di un "la" nel ritornello. Impostazione fortemente blues, sempre riconosciuta da battisti nel suo primo periodo.
Della fase di transizione tra il "beat" ed il "prog" fa parte anche il brano successivo, interpretato dai New Trolls e dal titolo "Davanti agli occhi miei". La caratteristica più rilevante è la presenza di un gruppo di voci che suonano all'unisono nel ritornello, come forma di risposta alla voce falsettata di Di Palo.
Dal Sanremo '67 viene "Proposta", geniale quadro di "tipi" sociali e di preoccupazioni portato in scena dai Giganti. Di cose interessanti ne ha svariate, a partire dall'alternanza di accordi maggiori e minori nell'introduzione, per poi arrivare a stabilizzarsi durante tutto il resto del brano in una struttura blues in parte smorzata da un "mi minore".
Tra le cover, dopo aver saltato un brano dell'Equipe 84, spicca quella di "norvegian Wood" eseguita dai Camaleonti. All'epoca gli strumenti etnici non erano in voga (per una parte era meglio!), solo che il brano è spudoratamente concepito per Sitar da George Harrison che lo aveva appena imparato in India. Sarei curiosa di sentirla!
E si passa ad un capolavoro di produzione nostrana, ossia "Concerto", giustamente la canzone più ricordata dallo sterminato e bello canzoniere degli Alunni del Sole di PaoloMorelli. Qui non si gioca con la tradizione napoletana, qui si compone un brano agile e malinconico, in tonalità minore, molto semplice ma segretamente complicato. Il testo riprende, senza patetismo, il tema della fine di un amore nato su una spiaggia, lo stesso clima che si respira nella notevole "Settembre" cantata da Peppino Gagliardi, altro grande partenopeo.
Dopo aver saltato una delle canzoni sconosciute del repertorio dei Califfi, si trova "Gioco di bimba", bellissima favola da molti erroneamente interpretata come una canzone dedicata ad uno stupro. Secondo Aldo Tagliapietra de Le orme essa non è che il racconto della nascita di un amore.
Essendovi due tracce che non conosco passo direttamente all'ultima, la canzone swingante "Anna da dimenticare" de I nuovi Angeli. Molto interessante, perché ha una melodia molto larga ed il gruppo di mostra una buona padronanza della polivocalità.
Il volume su "I favolosi anni Sessanta" inizia proponendoci una rarità, ossia la versione di Giorgio Gaber del successo di Adriano Celentano "Il ragazzo della Via Gluck". Mi era arrivata alle orecchie la "Risposta al ragazzo della Via Gluck" nonché "Com'è bella la città", entrambi brani di Gaber con chiare finalità polemiche nei confronti dell'ambientalismo del "molleggiato".
La seconda traccia riporta un successo del Sanremo 1964 (la precedente viene da quello del '66) interpretato da Little Tony, che lo cantava in coppia con Gene Pitney. Il brano è un po' troppo basato su stili nordamericani, ed è tra i primi in cui si fa un massiccio uso di tastiera o pianoforte sintetizzato.
Nel 1959 la giovane Mina Mazzini si presenta al "Musichiere" di Mario Riva interpretando in maniera spumeggiantissima una delle canzoni del Festival di Sanremo di quell'anno, la mediocre canzone melodica "Nessuno". La giovane "tigre di Cremona" riesce a renderla un capolavoro, anche grazie al solito (per i suoi primi dischi) assolo di sassofono baritono. Mi riferisco a "Nessuno", che al Festival era stata lanciata da Betty Kurtis.
La traccia successiva è un brano di fortissima ispirazione latina, ma profondamente debitore anche allo stile del grande Gorny kramer. Mi riferisco a Marina, che io amo perché ha un bellissimo assolo di fisarmonica, che dimostra che questostrumento, in quanto a "svisate" non ha niente da invidiare ad una più convenzionale chitarra elettrica.
Ed ecco Adriano Celentano con uno dei suoi primi successi, il rock and roll "Iltuo bacio è come un rock". Sicuramente interessante, anche se trovo che i ritmi nordamericani non abbiano niente a che fare con noi che siamo profondamente latini, per niente anglosassoni (per fortuna!).
Gli anni Sessanta furono caratterizzati da numerosi cantanti francesi che fecero molto successo in Italia, traducendo in italiano i loro brani principali. Tra questi Adamo Salvatore, belga di origini siciliane, ha un posto del tutto particolare. Dal suo meraviglioso repertorio ascoltiamo "Affida una lacrima al vento", bellissima ballata dove un innamorato chiede alla propria amata di piangere una lacrima per lui e mandargliela tramite il vento. Anche qui secondo me c'è assolutamente un debito con la tradizione nostrana delle serenate.
Abbiamo già accennato che i rifacimenti o cover non riguardano solo il bacino anglosassone, anzi si andava spesso a pescare da altre culture. Un esempio ne è questa bellissima "Angeli negri", traduzione italiana di "Angelitos negros" di Antonio Machín, lanciata per la prima volta dal cubano Don Marino barreto jr, e poi fatta conoscere al grande pubblico da Fausto Leali. Secondo me Leali non convince su questa melodia, perché le voci soul come la sua non hanno niente a che vedere con la cantabilità cubana, invece grandemente rappresentata sia da Machín che da Don Marino Barreto Jr.
In Italia il campo di coloro che ripresero il repertorio di Elvis Presley fu occupato e monopolizzato da due cantanti: Bobby Solo e Michele, mentre Little Tony, pur assumendosi come suo emulo, non volle mai o quasi mai cantare le sue canzoni. Michele si avventurò anche nel periodo buio, quello degli anni Settanta, dove il cantante, poiché del rock and roll non gliene importava niente ma della fama sì, cantò anche canzoni sui diritti civili ai Neri d'America tra cui "In the ghetto". Il brano è una ballata indubbiamente forte, ma sinceramente tradotta non convince.
Avevamo citato Betty Kurtis in occasione di "Nessuno", ora la ritroviamo con l'altro suo classico dal titolo "Cantando con le lacrime agli occhi", brano molto melodico.
Dopo un brano cantato da uno sconosciuto Federico Monti Arduini,arriva "Lisa dagli occhi blu", più grande successo di Mario Tessuto, cantante che avrebbe meritato sicuramente maggiore fortuna e di non essere etichettato con una canzone così insipida. Il brano ha un'orchestrazione innegabilmente bella, anche per la mirabile fusione che si esercita tra il soul e la melodia italiana, ma vi giuro che c'è molta discografia di tessuto sicuramente migliore.
Ed eccoci a Donatello, che interpreta "Io mi fermo qui", direttamente dal Sanremo 1970. È una bellissima ballata dall'impianto fortemente americano come tecnica chitarristica, ma debitrice di tutta la tradizione italiana, nonché di certa imponenza nell'orchestrazione che precede il ritornello.
La successiva traccia è una delle canzoni più tristi che mi sia mai stato dato di sentire. Mi riferisco alla ballata pessimista "Soli simuore", cantata in Itlaia sia da Michele che da Patrick Samson, cantante olandese che dopo questo exploit non poté più ripetersi.
L'ultima traccia è un brano impegnato dei Pooh, il loro primo brano, dal titolo "Brennero '66". È una ballata dall'impostazione folk, con tanto di chitarra a dodici corde, ma è un tentativo bieco di seguire una moda che si dissolverà subito.
Il prossimo volume è dedicato a ciò che più ci contraddistingue a livello mondiale, ossia la "Melodia italiana".
Il volume si apre con "Estate", cantata stavolta da bruno Martino (speriamo che sia la versione originale, l'unica che convince).
In questo frangente si torna ad omaggiare i cantautori, continuando con Luigi Tenco ed un suo gioiello estratto dal suo primo vinile, la bellissima "Quando".
La terza traccia di questo cd non poteva che essere "Il nostro concerto", ma avendo già inserito la versione di Umberto Bindi si doveva trovare un ripiego,e lo si è trovato in Peppino di Capri. Non conosco la versione in questione, comunque preferisco quella originale, perché ritengo che Bindi abbia spudoratamente cucito questo brano alla propria vocalità.
Ed ecco la migliore versione de "Il cielo in una stanza", quella di Mina. Sinceramente ritengo che questa orchestrazione sia insuperabile, magari si poteva puntare ad un canto maggiormente melodico ma sono sfumature.
una delle poche canzoni belle di Bongusto è questa "Tre settimane da raccontare", un ritratto sornione ma per niente patetico di un amore iniziato d'estate, che però, al contrario del solito, forse d'inverno continua.
La traccia successiva ci riporta alla mente un brano a me sconosciuto di Gianni Nazzaro, precedendo quella che per me è una delle più belle e care canzoni romane. Miriferisco alla sigla del film (sceneggiato) tv "Il segno del comando", ultimo grande sussulto della canzone romana, quel capolavoro assoluto di Fiorenzo Fiorentini che è "Cento campane". Abbiamo il piacere di ascoltarlo dalla voce più verace di Roma, il grande e già qui citato Lando Fiorini. La canzone riprende il tema delle streghe, dell'amore che strega l'anima, quindi la donna vista come una strega, che tiene l'uomo in eterna soggezione. La tematica viene sviluppata in maniera tradizionale, su una melodia altrettanto di conio tradizionale, appunto "italiana".
Si fa poi un salto negli anni Ottanta, con un brano che preso da solo è bello, innegabile, ma se paragonato all'altro grande hit del suo interprete è completamente uguale se non fosse per qualche scala più ricca (è un po' quello che adesso succede con Alessandra Amoroso). Mi riferisco al brano "Daniela" di Christian, che nello stesso periodo (precisamente nel 1984) aveva cantato "Cara" al Festival di Sanremo. I due brani sono entrambi caratterizzati da una struttura melodica in maggiore, con sfumature minori e da un ritmo di bolero cubano velocizzato.
E torna il Beniamino nazionale, o meglio il begnamino nazionale, Mino Reitano. Questa volta lo troviamo in una delle sue canzoni di ispirazione folkeggiante, perché in quegli anni c'era una moda dilagante, ossia la composizione di brani d'autore che sembrassero etnici (almeno non si sputtanava il folklore come fanno i Bennato, Epifani e compagnia, c'era qualchesperanza che qualcuno ci si avvicinasse con canzoni che se ne nutrivano). Non sto dicendo che si siano fatti sempre buoni brani con tale metodo compositivo, quantomeno però non si rovinava ciò che c'era lo si arricchiva davvero. Il brano che ci interessa, "Il tempo delle more", riprende il folklore di ispirazione alpina, l'unico che veniva nutrito, il meridione allora nutriva il settentrione, adesso ci sono molti settentrionali che imparano le danze popolari del Sud senza neanche capirle.
Tornando al ritmo di bolero velocizzato di cui sopra ricordiamo un brano di un cantante che potremmo definire "meteora", di quelli che danno un colpo e via. Mi riferisco a Rossano che è interprete di un'insulsa canzone dal titolo "Ti voglio tanto bene". Con titolo simile ("Te voglio bene") consiglio di riscoprire un gioiello napoletano di Renato Rascel, interpretato anche da Roberto Murolo.
Finalmente abbiamo il piacere di toccare con mano la favolosa creatività e vocalità di jimmy Fontana, con il brano "Il mondo", reso immortale dalla perfetta combinazione tra musica e testo, propiziata anche dall'arrangiamento profondamente classico di Ennio morricone. Infatti è un brano dove l'orchestra classica si viene a sostituire (all'epoca era comune) a quella leggera, in tutti i suoi ruoli. È bellissimo sentire il ritmo terzinato affidato ai timpani a livello di batteria, agli archi bassi per la parte di basso e così via, altri tempi.
La traccia successiva è un'interessantissimo duello amoroso tra due ragazzi che raccontano il loro diverso modo d'amare, tramite un uso intenzionale da una parte della voce confidenziale, dall'altra di quella urlata. Il brano che ci interessa è tratto dal repertorio de Igiganti e si intitola "Una ragazza in due", interessante terzinato che, per esprimere meglio il duello alterna parti sensuali in minore a parti urlate in maggiore.
Il secondo grande successo sanremese di Domenico Modugno, "Piove", è il prossimo protagonista, un commovente brano in terzinato veloce, che inizia con un'indimenticabile suono d'arpa che imita onomatopeicamente la pioggia. Anche qui si utilizza il linguaggio evocativo degli strumenti, cosa completamente dimenticata da questo pop da quattro soldi.
L'ultima traccia, infine, è di Don Backy ed è una bella versione di "Canzone", brano portato da costui e Celentano al Festival diSanremo 1968. Probabilmente non vinse per la maleducazione di Celentano, che lo rovinò volutamente per gli screzzi con DonBacky che da allora non finirono più.
Ovviamente un altro tema importante quando si tratta di fare compilation a tema è quello sessista, le donne da una parte e gli uomini dall'altra. Così anche in "Best Italia troviamo "Bella donna", compilation tutta concepita al femminile.
Si inizia con "Pensiero stupendo" lanciato ed interpretato da Patty Pravo, brano scritto per lei da Ivano Fossati. Nel brano la Strambelli utilizza la sua sensualità in maniera esagerata, non vorrei dire altro.
Qualche tempo fa era tornata di moda una canzone insopportabile che io nonconoscevo, e qui me la trovo in versione originale, ossia interpretata da Gabriella Ferri. La canzone è "Remedios", quella che si è sentita fino allo sfinimento dalla voce della brasiliana Selma Ernandes, per poi buttarla via come uno stuzzicadenti. Sinceramente il brano è brutto l'ho già detto, ma ancora più sconcertante è quando le cantanti di musica popolare o affine, per la maggiore popolarità, accettano questi compromessi con il mercato. Non dico questo per il mio proverbiale antimercantilismo, ma perché so benissimo che i produttori di musica leggera, dopo averti sfruttato, ti buttano via e tu ritorni come prima o peggio.
La terza traccia è un capolavoro che Mina estrasse dal Festival di Sanremo 1964, ossia "E se domani". Il brano non era passato a notorietà perché secondo me nessuno dei due cantanti gli aveva impresso l'anima giusta, né Gene Pitney (e si capisce) né Fausto Cigliano (ed è inspiegabile). La versione di Mina è swing ma melodica, lenta, aperta e sincera.
Ed eccoci ad uno dei più bei valzer mai scritti, quella "Senza fine" scritta da Gino Paoli per la voce di Ornella Vanoni. Da questa interprete abbiamo il piacere di ascoltarla, quando lei ancora non cantava alla brasiliana, ma semmai come una cantante venuta dalla scuola di Streler.
Andando avanti si fa un salto di circa trent'anni, ricordando una bellissima (e non capita dagli uomini) canzone cantata da Mia Martini al Sanremo 1992. Mi riferisco, ovvio, a "Gli uomini non cambiano", bellissima ballata aperta, che permette alla cantante di Bagnara di esprimersi al massimo.
Dopo una traccia di Spagna a me sconosciuta ("noi non possiamo cambiare") si arriva a "Donna con te" cantata da Anna Oxa al Sanremo 1990. Il brano non è male, anche se lei ha una voce che solo raramente riesce a piacermi, un po' come la Vanoni.
Si prosegue con l'unica citazione in tutta la compilation (e non posso che gridare vergogna!) per Enrico Ruggeri, la cui arte ci viene mediata da Loredana Bertè che interpreta il brano "Il mare d'inverno". È una ballata che io (grande ammiratrice di Ruggeri) amo solo dalla sua voce ruvida ma mai banale, mentre la versione della Bertè la trovo piatta e deludente. Il testo invece è un quadro mirabile, che per essere dipinto ha bisogno di una tavolozza piena di colori.
Dopo una traccia a me sconosciuta di Milva ("Oh mamma") si arriva a "Rumore", brano che purtroppo conosco bene perché ho frequentato una persona ammiratrice di Raffaella Carrà. Il brano è il la minore, ma ha il basso testardamente posizionato sopra il do, quindi produce un odioso effetto di dissonanza.
Dal Sanremo 1969 viene l'unica canzone decente di Iva Zanicchi che sia passata per le mie orecchie (insieme a "Testarda io", "Un fiume amaro" e "Se fossi un tango"), ossia "Zingara. La ballata porta l'inconfondibile stile terzinato, che comunque era già interpretato in maniera strutturalmente diversa, con la terzina prevalentemente affidata alla batteria, che comunque spesso evita il colpo intermedio spesso debole. Il brano è interessante per la ricchezza melodica ed armonica.
Dopo due tracce a me sconosciute il cd si conclude con "Ti telefono tutte le sere, un valzerino della produzione di Caterina Caselli, credo collegabile ai suoi inizi.
L'ultimo volume della collezione che dobbiamo analizzare è di nostro capitale interesse, in quanto dedicato al folk, ossia alle rielaborazioni di brani popolari digeriti dal pop o al repertorio d'autore d'ispirazione popolare.
Si inizia con una delle più mirabili ballate della produzione apulo-sicula di Domenico Modugno (difatti le prime versioni dei suoi brani cosiddetti siciliani erano in verità in dialetto brindisino). Il brano che apre la collezione infatti è "Lu pisci spada" (nel sito è scritto "Lu pisce spada"...), grande narrazione epica di una storia d'amore tra due pesci spada che non viene interrotta neanche dalla morte provocata da un pescatore impietoso. La melodia è interessante perché alterna parti in 2/4 su scala minore agli interventi dei pescatori eseguiti rullando su un accordo particolare (fa-sol diesis-re-si).
Ed eccoci al primo canto popolare proveniente dall'Abruzzo, ossia "Vola, vola, vola", valzerino che siascolta a cappella eseguito da due cori del posto.
Dio mio... La terza traccia qualcuno dovrebbe spiegarmi cosa c'entra col folklore. È una spassosa canzoncina che viene dal Festival di Napoli del 1966, che abbiamo il piacere di ascoltare Dalla Voce di Aurelio Fierro, ma è sicuramente d'autore, e il folklore campano ha tutte altre strutture (vedasi la tammurriata). Il brano, strano a dirsi, è comunque più convincente nell'interpretazione del meneghino Giorgio Gaber, dotato di una verve molto maggiore su brani dove conta più l'esser caratteristi che buoni cantanti.
Arrivando in Puglia si ascolta "Lu maritiello" di Tony Sant'Agata, sicuramente spassoso valzerino ma con la stessa tradizionalità o ispirazione tradizionale di una tarantella d'autore scritta da chi non si dedica in fondo al canto di tradizione.
Andando avanti il misfatto si radicalizza ancora, perché abbiamo "Eulalia Torriceli"", canzone risalente al periodo fascista, ma non tradizionale. È spassosa anche questa, e fa comunque piacere ascoltare la bella voce di Tajoli.
Andando avanti, nel pieno spirito del folklore milanese, si ascolta "Oh mia bella Madunina", tango (quindi ritmo tipico della città del nord Italia) cantata da Giovanni D'anzi. Così come si era detto per "Dialetti d'Italia", in queste operazioni si confonde molto il dialettale con il popolare in senso stretto.
E ovviamente inizia il percorso nel liscio, ovviamente in quello massificato delle orchestre con batteria e tutto, non in quello di Melchiade Benni. Lo si fa con un brano dell'Orchestra Bagutti che mi è sconosciuto, intitolato "Casetta bianca".
Il Veneto è rappresentato da un brano sulle gondole, anch'esso a me sconosciuto, dal titolo "Marieta monta in gondola".
Andando avanti si arriva a Roma,e la si presenta come una città di "magnaccioni" (che lo è) con "la società dei mangnaccioni". Nonostante ciò c'è assolutamente da ridire sull'assenza di ogni riferimento ai grandi romani, si chiamino Lando Fiorini (già presente in altri volumi) o Gabriella Ferri (mai citata come interprete di brani folk, ricordata con la sua peggiore parentesi, bravi!)
Ed eccoci con il ritorno a Napoli, tentando di rimediare la figuraccia che è stato omettere Sergio Bruni dal disco "Bella Napoli". Da Sergio Bruni, da molti definito "La voce di Napoli" si ascolta "Reginella", brano di Libero Bovio e Gaetano Lama del 1917.
Tornando al liscio si ascolta Enrico Musiani, che con la sua stupenda voce da controtenore (non sto scherzando, mi piace il suo timbro!) interpreta "Madonnina dai riccioli d'oro", una delle più orride canzoni di liscio che mi sia stato dato di sentire nella mia vita.
Si arriva in Toscana e si assiste ad uno dei pochi atti di giustizia di questo volume, perché, anche se manchiamo completamente a livello di chiarezza di concetti, ricordiamo in una volta due grandi fiorentini: da un lato lo chansonnier Odoardo Spadaro e dall'altro il tenore Carlo Buti, che interpreta "La porti un bacione a Firenze" (nel sito è scritto "Porta un bacione a Firenze"...).
La penultima traccia è una "Calabrisella" interpretata da un gruppo a me sconosciuto, dal nome sicuramente inquietante, ossia Gruppo folk calabro-lucano. Il mio consiglio, da profaziana di ferro quale sono, è di ascoltare la versione del grande Profazio, sia in "Calabria" (con il fratello Vincenzo alla fisarmonica e alle seconde voci) che in "Amuri e pilu", solo chitarra e voce.
Delle isole viene rappresentata solo la Sardegna, ma (almeno lei) viene rappresentata nel miglior modo possibile, dalla grandissima sassarese Maria Carta.
Che dire dopo questa analisi? Io vi ho informati: fate voi.
Il progetto di cui vi parlo è "Best Italia", serie di 16 dischi, ognuno subordinato ad un tema specifico.
Grazie al sito ufficiale dell'emittente (www.radioitaliaannisessanta.it) percorreremo le track list dei 16 volumi e ne analizzeremo pregi e difetti.
Il primo volume di cui ci è possibile parlare è "Hit parade", contenente canzoni che si sono trovate negli anni alle prime posizioni delle classifiche.
Il disco inizia con una delle più brutte canzoni estive che mi sia stato dato di sentire, ossia "No tengo dinero", cantata dai Righeira, quelli che l'anno precedente (credo il 1983) ci avevano già ammorbato con "Vamos a la playa", brano che ora ha visto un terribile rifacimento da parte dei Flaminio Mafia, uno dei tanti gruppettini specializzati nel rovinare canzoni altrui.
La seconda traccia è una canzone anni Sessanta, ripresa però nella versione di un cantante che negli anni Ottanta, trovando affinità tra il decennio del riflusso e dei "paninari" e quello del cosiddetto "boom economico", ha fatto fortuna rovinando gli spensierati brani di vent'anni prima in maniera veramente vergognosa. Mi riferisco ad Ivan Cattaneo e alla sua versione del "Geghegè" lanciato da Rita Pavone.
La terza traccia eleva sicuramente il livello dell'insieme della raccolta, in quanto almeno è cantata da una cantante che (all'inizio) prometteva bene. Mi riferisco a Loredana Bertè, di cui ritroviamo "In alto mare", brano risalente agli anni Settanta, di cui ascoltiamo un rifacimento live.
La quarta traccia è un brano che non mi ricordo, si intitola "Ilmare più grande che c'è" ed è cantato da Fiordaliso. Vorrei solo spendere due parole su questa cantante: non ha praticamente voce, aiuto!
Continuando a cantare al femminile si trova Marcella Bella, di cui ascoltiamo "Problemi", brano che non conosco. Alla cantante siciliana va giustamente riconosciuto di aver fatto vari pezzi di buona o anche alta qualità come "L'ultima poesia", "Gli amici" (cantate rispettivamente insieme al fratello Gianni e a Riccardo Fogli).
La sesta traccia ci permette di ricordare (quanto sarebbe stato meglio non farlo, ma va bene!) la canzone vincitrice del Sanremo 1997, ossia la fusione di voce impostata e musica elettronica che va sotto il nome di "Fiumidi parole". Era cantata da un duo chiamato Jalisse: chi se li ricorda?
Alla settima traccia compete il ruolo di farci tornare in mente uno dei tanti gruppi che hanno continuato e coltivato il genere melodico inItalia mentre impazzava il "prog" dei vari Banco, P.F.M e compari. Mi riferisco ai collage, dei quali si estrae la gradevole (ma non eccelsa) "Tu mi rubi l'anima". L'unico problema del gruppo: la voce del cantante, praticamente inesistente. Se permettete una divagazione la lacuna è trasversale, riguarda indifferentemente tutti i generi musicali, ci sono pochissime voci belle in giro.
Abbiamo citato Riccardo Fogli per ricordare una delle più belle canzoni di marcella Bella, ed abbiamo il piacere di ritrovarlo in questa scaletta con una delle sue canzoni anni '80 dal titolo "Malinconia". La melodia è apparentemente semplice ma pur sempre sviluppata, non male.
Come nona traccia c'è un brano cantato da Juli and Julie dal titolo "Una storia d'amore". Ammetto la mia proverbiale ignoranza e passo avanti.
Finalmente posso gridare un "bella!" sentito e convinto per quanto riguarda la decima traccia. Ci troviamo infatti con quello che io considero il miglior gruppo tra quanti coltivarono la musica melodica italiana tra la fine degli anni Sessanta e gli anni Settanta. Mi riferisco agli Alunni del Sole capeggiati dal napoletano Paolo Morelli, abile poeta sia nel nobile vernacolo partenopeo che in italiano. Il brano che troviamo fa parte della produzione dialettale del gruppo ed ha il titolo di "'A canzuncella". È una delle ultime canzoni napoletane belle ad aver conosciuto gli onori della celebrità nazionale, poco prima dell'esplosione di quel degradato e degradante fenomeno detto dei "neomelodici". Il brano si inserisce in un filone di brani leggermente jazzati, che comprende perle come "'Na voce, 'na chitarra e 'o poco 'e luna", innovando le sonorità ma non discostandosi per niente come spirito dalla vera tradizione classica.
Ora troviamo il gruppo che in quegli stessi anni aveva coltivato il revival della voce "in falsetto" con una caparbietà davvero invidiabile, ottenendo risultati penosi. Mi riferisco ai Cugini di Campagna, gruppo di cui si ascolta il brano "Innamorati", a me sconosciuto.
Terzultima traccia: qual è la canzone più maschilista di tutta la storia della canzone italiana? "Teorema"!. A Marco Ferradini va riconosciuta bravura, per brani come "Gli Aironi", "Quando Teresa verrà" ed altre, ma questa canzone è da scordare (purtroppo qui ce la fanno ricordare, vedete che il mondo è bello perché è vario!).
Un altro bravo gruppo datoci da Napoli negli anni Settanta è "Ilgiardino dei semplici", anche quest'ultimo dedito ad una semplice ma mai inutile canzone melodica all'italiana. Dal repertorio di questo ensemble viene ripescata "Carnevale da buttare", brano che io ignoro.
La compilation si chiude nel peggior modo possibile, con una specie di semirap in dialetto napoletano inciso da Tullio De Piscopo negli anni Novanta, direi di sorvolare.
Il secondo volume che abbiamo la possibilità di occhieggiare è dedicato ai gruppi beat italiani, quelli che spesso evolentieri hanno fatto dei buoni adattamenti di brani stranieri che molto difficilmente sarebbero arrivati da noi (per questo, invece che essere ricordati, sono sminuiti).
Il volume inizia con una bellissima "Sognando la California", traduzione interpretata dai Dik Dik del brano "California dreaming", lanciato dai Mamas and papas. La versione che ascoltiamo (per fortuna) non è l'originale, ma bensì una eseguita in acustico molti anni dopo.
Altra grande (e forse più lodevole) operazione portata avanti da molti gruppi beat anni Sessanta, è stata quella di riprendere e rivitalizzare brani bellissimi della nostra produzione anni Trenta. Un esempio ne è la seconda traccia del volume "Un'ora sola ti vorrei", qui interpretata dagli Showmen, gruppo napoletano che vedeva tra i suoi componenti il leggendario cantante Mario musella e il sassofonista James Senese. Contrariamente a quanto accade adesso (vedasi la reinterpretazione del medesimo brano da parte di Giorgia), quando si riarrangia si lavora solo sulle sonorità senza toccare la ritmica e la melodia, in segno di umiltà.
Allaterza traccia cominciano i problemi. Arriva una delle canzoni più insipide che mi sia stato dato di sentire, la romantic ballad "Monia", interpretata dagli Apostoli, in uno stucchevole stile tra il cantato ed il parlato, precisamente alternando strofe parlate a ritornelli (sempre uguali) cantati o meglio piagnucolati.
La traccia successiva la ignoro, porta il titolo di "Non c'è più nessuno" ed è interpretata da uno dei più longevi gruppi beat, i grandie e bravi Camaleonti.
La canzone che segue ha una bellissima melodia, rovinata da un testo brutto e da una voce insignificante. Miriferisco a "Guarda", interpretata da un gruppo meno fortunato chiamato The rogers. È un brano in terzinato (come andavano allora) con certe influenze blues, che però non sconfinano mai nella scimmiottatura.
Andando avanti si ritrova un'altra cover dal repertorio americano, l'interessante "To love somebody", che interpretata dai Califfi diventa "Così ti amo". Forse convince meno rispetto a "Sognando la California" ma è pur sempre godibilissima.
Ed arriviamo ad un gruppo il cui destino è legato molto a quello di Francesco Guccini, ossia all'Equipe 84, di cui abbiamo il piacere di ascoltare "Quel che ti ho dato". Si può dire che il gruppo musicalmente non avesse particolari caratteristiche, il loro forte (come ammesso svariate volte da Maurizio Vandelli, suo storico leader)era la bellissima polivocalità.
Proseguendo troviamo i New Trolls, con uno dei pochi brani che hanno tentato di affrontare tematiche forti all'interno del beat italiano. Mi riferisco ad "Una miniera", canzone che rende testimonianza dei sentimenti di un minatore che torna da sua moglie dopo una lunga assenza. Molto bella, complicata ed emozionante. È inoltre innegabile la particolarità del timbro di Di Palo, caratterizzato da un certo falsetto mantenuto naturale.
Troviamo poi uno dei primi brani dei Pooh, il famigerato (ma da me dimenticato) "Bikini beat".
Andando avanti si trova uno dei gruppi di punta del beat italiano, i milanesi Giganti, noti per la stupenda voce di basso di Enrico Maria Papes. Ilbrano che si ascolta è "La bomba atomica".
Proseguendo troviamo un altro brano dei Camaleonti, che nonconosco, dal titolo "Ti dai troppe arie".
Sempre tra brani sconosciuti impantanati troviamo "Nessuno potrà ridere di lei", una delle cover eseguite dai Pooh nel loro periodo beat.
Se vi dico cantante che da quarant'anni vive in Italia e nonostante ciò parla l'italiano con un accento inglese che si sente subito? Qualcuno potrebbe anche pensare a Mal dei Primitives, il cantante che continua questa scaletta con una sua versione di un noto pezzo americano da lui interpretato in maniera molto poco convincente ma tuttavia rimasto nell'immaginario collettivo. Mi riferisco a "Yeeeah".
C'era un gruppo beat italiano degli anni Sessanta, che era noto, oltreché per la sua innegabile bravura musicale nel suo genere, anche per portare un corvo vivo sopra il basso. Ovviamente, dico io, mi riferisco ai Corvi, che chiudono questa scaletta con "Ragazzo di strada", brano che purtroppo è stato ripreso da gente che c'entra pochissimo con quel mondo, vedasi Tonino Carotone. Ilconsiglio che do è di ascoltare la versione dei Corvi, bella, con un bellissimo assolo di chitarra elettrica distorta, tra i primi mai sentiti in Italia.
Se si pensa agli anni Sessanta in Italia, viene naturale di pensare al cinema. Così in questa collezione, che vediamo essere molto completa, c'è un volume completamente dedicato alla musica per cinema. Qui verrà trattato molto superficialmente,speriamo di trovare qualcosa che possa in parte anche esulare.
La seconda traccia del disco è una grande canzone d'ispirazione romanesca scritta ed interpretata dal "piccoletto nazionale", il cantante ed attore romano Renato Rascel. Mi riferisco ad "Arrivederci Roma", che fotografa una visione idillica ma non fastidiosa (almeno per me) della Città Eterna. mi fa tenerezza, ad esempio, il quadro dell'inglesina che getta il soldino in Fontana di Trevi, come sapete anche questo è diventato reato, mentre il falso in bilancio no (giustizia è fatta!).
La prossima traccia di nostra conoscienza è "Nessuno al mondo", buona cover di Peppino di Capri di un notissimo successo americano di Pat Boone. Va detto che il Di Capri degli inizi non ha dato frutti spregevoli (altro discorso quando si metteva a reinterpretare le canzoni napoletane, stravolgendole così da rendere irriconoscibile,quindi inapprezzabile, qualsiasi versione filologica a chi lo amasse).
Il disco continua con una canzone caratterizzata dalla presenza di un "effetto speciale" eseguito dal vero. Mi riferisco alla bellissima "Ilbarattolo" di Gianni Meccia, che è accompagnata dagli spostamenti di un barattolo vero, ossia il cuore del protagonista è fotografato nei suoi movimenti, causati dai maltrattamenti dell'infido personaggio femminile (un po' di maschilismo, ma è un bel brano).
Dal Sanremo 1960 (quello che vide la vittoria congiunta di Tony Dallara e Renato Rascel con "Romantica") viene estratta "Quando vien la sera", canzoncina spassosa a tempo di twist, rimasta famosa nella versione di Joe Sentieri, il cantante del "saltino". Deplorevole (e parla una sua fan) la versione che ne ha fatto Arbore in "Quelli della notte", meglio 'originale.
Proseguendo, nominata e vista, arriva "Romantica" cantata dal grande Tony Dallara, il migliore "urlatore" che l'Italia possa aver vantato, perché è in grado di coniugare gli stilemi americani con un assoluto rispetto della melodicità nostrana.
Proseguendo si scopre che il brano "A felicidade", uno dei classici della bossanova brasiliana, nato dalla penna di Vinicius de Moraes e António Carlos Jobim, ha avuto una versione italiana dalla voce bellissima di Don Marino Barreto jr, uno dei più grandi cantanti del night italiano, nonostante il suo essere cubano.
E a proposito di gioielli stranieri portati da noi da cantanti stranieri continuiamo con "Uno a te, uno a me", interpretazione in italiano del tema principale del film "I ragazzi del Pireo" con musica di Mikis Theodorakis. l'interprete è la grande Dalida, una delle migliori interpreti che la francofonia e l'italofonia hanno posseduto, dalla voce potente e limpida fino alla sua prematura fine.
In questa atmosfera da night, ovviamente, non poteva mancare una "criminal song" di Fred Buscaglione, il grande contrabbassista, cantante e showman torinese. La sua voce, di solito dolcissima, poteva miracolosamente assumere un colore foschissimo davvero raro, basta vedere i suoi ruoli nel cinema, il film "Noi Duri" con Paolo Panelli e Bice Valori.
L'alter ego femminile di Buscaglione era senza dubbio Caterina Valente, grande artista dimenticata dal grande pubblico ma citata dal grande esordiente Piji nella canzone "I cigni di Ninfenburg" nel cd autoprodotto "Lentopede". La voce della Valente è jazz, ma non arriva alle forzature di Mina, che imita senza creare niente di nuovo.
Questo volume si chiude con un omaggio a Napoli proveniente dagli Stati Uniti (che spreco!), ovvero con la versione che Elvis Presley haeseguito di "'O sole mio". Non è male ma, sinceramente, da cultrice della canzone napoletana, avrei preferito avere in questo volume, un brano di Renato Carosone a chiusura di questo omaggio al cinema e al night.
Di nostro completo interesse è anche il volume successivo, quello dedicato ai cantautori.
Il volume inizia con "Genova per noi", classico scritto dal grande Paolo Conte e qui presentato nella notevole versione di Bruno Lauzi. Il brano non è sconvolto, anzi è reso ancora più melodico, evidenziando la sua anima latina, il suo essere una habanera tra le più riuscite di quante sono state scritte.
Il secondo brano è del repertorio "minore" di Fabrizio De Andrè, quello nel quale il cantautore genovese ancora non aveva il coraggio di far vedere la sua vera personalità. Mi riferisco a "Nuvole barocche", comunque interessante fusione tra un ritmo terzinato ed una strofa eseguita ad habanera. Lo si trova nell'lp del 1972 dallo stesso titolo.
Continuando con la scuola genovese si trova una traccia estratta dal primo disco di Gino Paoli, album che già mostra un cantautore giunto a precoce ma completa maturità. Il brano qui presente è "Sassi", canzone dall'andamento misterioso e dal testo triste ed intrigante.
Dello stesso periodo è il brano successivo, un gioiello sconosciuto dell'opera di Luigi Tenco intitolato "Mai".
Subito dopo compare uno tra gli antesignani del cantautorato, il polignanese Domenico Modugno, del quale si ascolta una bellissima ballad anni Sessanta dal titolo "Notte di Luna calante". La ballata è un misto tra un brano romantico all'italiana e certe suggestioni riprese da certi cantanti americani riconducibili al canto singhiozzato, in quegli anni coltivato anche da Modugno, dopo aver interrotto i suoi rapporti con il folk.
Tornando alla scuola genovese si omaggia il grande e dimenticato Umberto Bindi, ottimo interprete ma soprattutto grande autore di musiche con la ricchezza della musica classica e la giovialità ed intimità del jazz. Il brano che troviamo pubblicato è "Se ci sei".
Sempre dall'lp "Nuvole barocche" viene estratto il secondo brano presente di Fabrizio De Andrè, un'interessante ballad a tempo di bolero cubano dal titolo "E fu la notte". Va ricordato che il repertorio di cui ci stiamo occupando fu bollato dallo stesso De Andrè come "peccati di gioventù", in maniera forse cattiva e perché no superficiale. Riascoltarlo ora, alla luce anche della sua produzione successiva, forse farebbe cambiare idea a molti estimatori.
Dopo aver omaggiato i cantautori provenienti o lanciati da Genova si passa alla scuola romana, che viene iniziata da Amedeo Minghi, con il brano da lui dedicato a Giovanni Paolo II. Sinceramente io non l'avrei inserito, avrei scelto "1950" o "La vita mia", e non l'avrei messo in questa posizione, prima sarebbero dovuti venire almeno un Venditti ed un De Gregori.
Continuando si ha il piacere di ascoltare "Agnese", bellissima e dolcissima ballata di Ivan Graziani volontaria o involontariamente ispirata ad un pezzo anni Sessanta anch'esso bello. La versione di Ivan è molto ben fatta, la melodia non lascia spazio ad influenze americane o straniere, stupenda.
Proseguendo si ascolta "Minuetto" nella versione eseguita da uno dei suoi autori, il cantautore Franco Califano. Il testo è modificato in molte parti, la versione è altrettanto sofferta di quella di Mia Martini, seppure quest'ultima aveva una voce migliore (ovvio!).
Troviamo poi Sergio Endrigo, che ci presenta il brano col quale arrivò terzo al Festival di Sanremo 1970 in coppia con Iva Zanicchi. La canzone è "L'arca di Noè", ritratto intimo ma molto sferzante dei problemi profondi di una società che iniziava a sentire di essere allo sbando. La forza di Endrigo sta nell'intimità che filtra tutto, e qui sta anche la sua impossibilità di essere compreso dai cosiddetti intellettuali.
Continuando si arriva al tema ecologico, affrontato da Pierangelo bertoli con forza insuperabile nel suo classico "Eppure soffia". Per chi nonla conosce è una ballata bellissima, con una melodia larga e chiara, di quelle adatte per denunciare le ingiustizie. La sua voce è sempre stata di una limpidezza disarmante, non è mai cambiata tantomeno calata. L'album da cui è estratto il brano è quello che lo porta come title track, risalente al 1975.
Ed eccoci con un omaggio alla scuola milanese, rappresentata da Giorgio Gaber, quando ancora faceva il cabarettista e non dava comizi tramite le canzoni. Il cantautore meneghino è ricordato attraverso una tarantelluccia spassosa degli anni Sessanta dal titolo "Il riccardo", uno dei tanti ritratti di vita di bar lasciatici da Gaber.
L'ultima traccia permette di ascoltare uno dei cantautori di ultima generazione, uno di quelli che a me non piacciono, il rocker Massimo Priviero, uno di quelli che si ispira agli stilemi americani senza permearli di qualsiasi cosa che sia propria. Ne mancherebbero tanti all'appello ma ancora abbiamo molto materiale da visionare e recensire.
Continuando si arriva ad un volume che inizia in maniera divina. Ci riferiamo al disco "Le canzoni del cuore", la cui prima traccia si intitola "Il cielo in una stanza" ed è interpretata dal suo autore Gino Paoli. Sinceramente, pur essendo io una grande ammiratrice del cantante di Monfalcone, avrei preferito la versione di Mina, interpretata sicuramente meglio e con un arrangiamento sicuramente maggiormente curato. A riprova di ciò è il fatto che Paoli stesso, dopo la versione storica del 1960, utilizzerà per cinquant'anni arrangiamenti più o meno fortemente ispirati a quello fatto per Mina.
La seconda traccia non ci interessa perché è un brano che ignoro, quindi ci dedichiamo ad uno dei capolavori della produzione della prima Mina, la bellissima e giustamente celeberrima "Se telefonando" (anche qui,vedasi "Un'ora sola ti vorrei", hanno operato dei rifacimenti per il suo sputtanamento). Qui abbiamo la fortuna di ascoltare la versione originale, quella arrangiata dal grande Ennio Morricone, che prima di iniziare un'inarrestabile carriera di compositore di colonne sonore ha arrangiato alcuni tra i più bei brani italiani.
Come dire dal Paradiso all'Inferno. Andando avanti si ritrova Amedeo Minghi con "Cantare d'amore", brano presentato ad un Sanremo di una decina di anni fa, tra i più brutti che mi sia dato di ricordare.
Proseguendo, sempre da Sanremo, esce uno dei rari brani decenti usciti in questi ultimi anni,da una delle nuove proposte la cui carriera non ha più visto vette che abbiano interessato i media. mi riferisco alla bella romantic ballad "Sei la vita mia" di Mario Rosini, promettente cantante e pianista siciliano, dalla voce tenorile con leggerissime incrinature jazz. La melodia è semplice, per alcuni forse banale, per me sicuramente e giustamente italiana.
Tornando ad omaggiare Umberto Bindi (dopo aver reperito uno dei suoi brani nel volume "Cantautori") qui ci si presenta "Il nostro concerto", bellissima ballata, incrocio tra un brano classico e la sensualità delle ritmiche jazz. Credo però che questa doppia anima del brano e di tutta la produzione bindiana, abbia portato molti jazzisti, con la frettolosità che li distingue, ad appropriarsi di qualcosa che non gli appartiene o non può essere completamente di loro proprietà. Preferisco, se proprio si deve parlare di rifacimenti, quelli di artisti come Claudio Baglioni, che ha reinterpretato il brano in ben due occasioni: nel 1997 nel cd "Anime in gioco" e qualche anno dopo nella raccolta "Quelli degli altri tutti qui".
Un altro esempio di bolero cubano all'italiana lo troviamo nel brano successivo, la bellissima ballata "Era d'estate" di Sergio Endrigo, che qui ascoltiamo con la partecipazione dell'ottima cantante di jazz e musica leggera Rossana Casale. Nonostante il mio aver approvato tale versione, sinceramente rimpiango l'orchestrazione, da qualcuno forse ritenuta barocca, tipica della versione anniSessanta.
Proseguendo si ascolta la versione di Milva del celeberrimo brano "Estate" di Bruno Martino. Sinceramente nonconosco la suddetta versione, ma, quasi per principio, i brani di Martino debbono essere ascoltati da lui (e di questa va rigorosamente ascoltata la versione anni Sessanta!).
Il passaggio agli anni Ottanta si attua tramite una delle canzoni più insipide che mi sia mai stato dato di conoscere, la ballata "Ancora" del cantautore napoletano Edoardo De Crescenzo. la voce del cantante non è malvagia, ma sinceramente mi stancano i virtuosi in modo gratuito, quelli che con il virtuosismo debbono nascondere qualche loro grave mancanza (e ce ne sono trasversalmente!).
Sinceramente avrei preferito ascoltarmi la versione dei Pooh, perché è l'originale, ma andando avanti si trova "Pensiero" cantata da Riccardo Fogli. Il cantante toscano sinceramente, dopo un periodo fortemente creativo avutosi tra gli anni Settanta e gli inizi dei Novanta, credo abbia facilmente ceduto alla tentazione divivere di rendita con il suovecchio repertorio e, soprattutto, con quello da lui cantato per i Pooh.
Dopo aver saltato una traccia ("Io sarò la tua idea" cantata da Iva Zanicchi) quando possiamo tornare a parlare di cose che conosciamo troviamo "Piccolo uomo", canzone di Bruno Lauzi interpretata e portata al successo da una strepitosa Mia Martini. Il brano di Lauzi è bello, ma sinceramente cantato dall'autore è molto meno convincente, gli manca la sofferenza che invece la voce di Mimì gli dà invariabilmente.
La penultima traccia è una perla estratta da un Sanremo di fine anni Sessanta, il brano "Un'ora fa". Il brano è la riuscita fusione tra lo stile soul che permette come nessuno di brillare al cantante milanese ed una grande e larga melodia nostrana. La strofa è in minore, mentre il ritornello è in maggiore, dimostrando così che ancora all'epoca si lavorava in maniera ricca.
Anche in questo volume troviamo la presenza della canzone napoletana, con uno dei suoi ultimi capolavori, la "Resta cu mme" scritta da Domenico Modugno negli anni Cinquanta ed ancora oggi gradevolmente ascoltata dagli intenditori.
Il prossimo volume è dedicato alle "Canzonissime", ossia ad alcune delle canzoni uscite dalla famosa trasmissione televisiva "Canzonissima" (rivoglio quella e via "X factor", "Amici" e compagnia brutta!).
La prima traccia è "Roma nun fa la stupida stasera", bellissima habanera di Garinei e Giovannini, estratta direttamente dall'immortale colonna sonora della commedia musicale "Rugantino". L'interprete è uno dei miei preferiti per quanto riguarda la canzone romana, il romano verace Lando Fiorini,che io ebbi l'onore di conoscere durante il mio periodo a "Sarabanda", poiché venne in trasmissione e, dopo aver recitato una stupefacente poesia di Trilussa, cantò una "Cento campane" che mi ha fatto commuovere fino alle lacrime.
Sulla seconda traccia ho già da ridire, perché il brano è bello ma la versione presentata secondo me non è sufficientemente buona. Il brano è "Un'estate fa", rifacimento in italiano della canzone francese "Une belle histoire", qui cantato dagli Homo Sapiens ma lanciato anche da Michel Fugain, interprete originale del brano. Ilsuo italiano è caratterizzato da un'affascinante e tirannica "erre moscia", ma l'interpretazione è insuperabile, vi giuro!
Ed a proposito di brani rifatti (o che dopo sono stati tradotti in svariate lingue), si ha il piacere di ascoltare la versione italiana di "Without you" dei Gens. Il brano si intitola "Per chi" e devo dire che è riuscito, molto peggiore è il rifacimento recente di Brenda, per L'italia, e di Maria Karey per gli Stati Uniti.
Dopo aver saltato una traccia si trova la stupenda versione che José Feliciano ha dato del mediocre brano di Jimmy Fontana (e parla una sua ammiratrice) "Che sarà". La bellezza della versione di Feliciano, secondo me, sta nel virtuosismo che il portoricano mette nell'accompagnamento di chitarra, sicuramente notevole.
Si ritorna ai cantautori e si ritrova Bruno Lauzi, con uno dei suoi primi e più bei brani, la ballata "Ritornerai", che come sempre io vi consiglio di ascoltare solo da lui. Bruttissima infatti è la versione che ne diedero circa una decina di anni fa i Delta v, gruppo di pop elettronico a me completamente estraneo.
Proseguendo si trova un altro dei capolavori della produzione di Mina, la traduzione initaliano del brano "It's a lonely town" dal titolo "Città vuota". Non so quale versione si trova nel cd, spero di cuore sia quella anni Sessanta, perché quando successivamente la cremonese reincise il brano per uno dei suoi dischi dal vivo, gli arrangiatori ne fecero (come spesso accade) scempio. È sempre un problema riuscire a riarrangiare completamente un brano, spesso si cade nelle grinfie della moda, soprattutto nel deleterio ambiente del pop.
Bellissima la traccia successiva, la spassosissima canzone "La gatta" di Gino Paoli. Qui non ho preferenze di versioni, voglio solo segnalare, per la sua indubbia particolarità, quella interpretata dal cantautore montefalconese insieme ad Enrico Rava, Danilo Rea ed altri jazzisti nel disco di Rava "Strane stelle strane", tutto dedicato a rifacimenti in chiave jazz di successi della musica d'autore italiana e non solo. Da quel disco è notevole anche la partecipazione di Renzo Arbore, con il swing napoletano di "Smorza 'e lights", dove il foggiano suona anche il suo amato clarinetto.
Continuando si arriva alla traduzione in italiano di "Milord", brano lanciato in Francia da Edith Piaf e da noi ripreso da Milva. L'arrangiamento qui è fidedigno, anche se forse i giri di fisarmonica musette nella versione italiana suonano come qualcosa di falso ed imitato. L'interpretazione è abbastanza buona, perché sono innegabili i punti di contatto tra le due voci, ma il mio consiglio, ovviamente, è quello di ascoltare la versione francese, assolutamente più bella. Sono alla pari, invece, la canzone della Piaf "Les amants d'un jour" e la sua traduzione italiana, curata ed interpretata dall'italo-francese Herbert Pagani, dal titolo "Albergo ad ore". Il fatto è che nel caso di Pagani la teatralità francese è qualcosa di naturale, non imitato e tantomeno acquisito.
Andando avanti si riscopre una delle canzoni meno belle che possano aver dato gli anni Sessanta italiani, ossia il motivetto beat "Perché l'hai fatto", che si ritrova nella versione di Beniamino Reitano, noto al grande pubblico come Mino Reitano. La voce del calabrese avrà forse il suo fascino, ma secondo me è tutto meno che un timbro perfetto o bello.
Anche in questa compilation fanno capolino i pooh, con la loro famosissima "Piccola Ketty", primo loro grande successo, ancora in epoca beat. Io l'ho sempre trovata una canzone pietosa, perché si sente lontano un miglio che è composta per scimmiottare ciò che non ci appartiene.
Dopo una traccia a noi sconosciuta ("Furore" di Adriano Celentano) riscopriamo uno dei tanti gioielli usciti dalla penna del grande e dimenticato Memo Remigi. Dalla sua voce abbiamo il piacere di riascoltare "Io ti darò di più", brano portato al successo da Ornella Vanoni alla fine degli anni Sessanta. Io sono molto legata a Remigi, perché circa tredici anni fa conduceva la versione domenicale di "Per noi", bellissimo programma musicale di Rai Radio 1, quando ancora non si era completamente votata allo sport. Il programma era fatto da un immaginario night club anni Sessanta, con un grandissimo pianista chiamato Luciano Simoncini,e vi venivano invitati grandi nomi di quel periodo come Bruno Martino, Gino Paoli ed altri (che nostalgia!).
Il disco si chiude con un pezzo di un gruppo di musica strumentale "progressiva" chiamato Il guardiano del faro". Sinceramente a me non dicono niente.
Il prossimo volume è intitolato "L'ora dell'amore", titolo ripescato da una delle più belle canzoni del periodo anni Sessanta, la cover di "Homburg" dei Procol Harum eseguita dai Camaleonti.
Il volume inizia con "la più bella del mondo", bellissima ballata romantica interpretata da Marino Marini, una delle stelle del night club anniSessanta, nato a Napoli. Il suo stile potrebbe essere paragonato a quello di Renato Carosone, anche se il Marini era possessore di un timbro sicuramente più bello e raffinato.
La seconda traccia è un brano dal titolo "Amore grande, amore libero", ripreso dal repertorio dei già citati e deplorati "Il guardiano del Faro".
Ed eccoci ad una delle canzoni più insipide (e quindi più ricordate) degli anni Settanta italiani. Mi riferisco a "Bella da morire" degli Homo Sapiens. Per descriverla brevemente si potrebbe definire una canzone da fotoromanzo, una di quelle dove l'uomo si chiede perché la sua innamorata lo abbia lasciato, senza chiedersi se costui a colpe.
Continuando troviamo una delle voci più grintose che gli anni Settanta abbiano potuto conoscere, quella di Mino Vergnaghi, il quale ha azzeccato alcune belle melodie tra cui questa "Amare", anche se, quando con gli anni ha deciso di rifarle, ci ha messo delle coloriture troppo blues che non le esaltano ma le nascondono. Comunque fa sempre piacere ricordare questi interpreti rimasti solo nella memoria di chi la musica la amava davvero.
Andando avanti si ritrovano i Cugini di Campagna (sarebbe meglio di no!), con una canzone che ha tragicamente segnato la mia infanzia. Mi riferisco ad "Anima mia", che digerisco (a malapena) nella versione di Baglioni, solo perché è lui che canta. È una delle tante canzoni che sfrutta lo stereotipo della tristezza dell'uomo lasciato, che non si chiedemai il perché sia stato abbandonato dalla propria compagna, della quale sente una nostalgia sferzante, diremmo "canaglia" citando un pezzo che spero non troverò mai.
Un'altra cover del repertorio dei Pooh da parte di Riccardo Fogli continua la scaletta. Il brano prescelto è "Tanta voglia di lei", il primo (che io sappia) brano dei Pooh ispirato ad una relazione adulterina. In questo caso, contrariamente a quanto accadrà anni dopo con "L'altra donna", qui il protagonista capisce il suo sbaglio e dice un laconico "Il mio posto è solo là", per accontentare i benpensanti, all'epoca ancora grandi fustigatori.
Continuando con i gruppi troviamo prima i Ricchi e poveri (che dai trallalleri liguri sono passati al poppettino commerciale) e poi i New Trolls quando già avevano ampiamente superato la fase beat. Il brano che troviamo in scaletta è la bellissima "Quella carezza della sera", canzone tenerissima sui ricordi d'infanzia del protagonista. Interessante soprattutto per il finale del ritornello, che contiene un dodiesis settima aumentata, che fa da seconda diminuita rispetto alla scala di do del brano.
Dopo una traccia sconosciuta, "Fiore di carta" cantata da Bobby solo", troviamo il brano che dà il titolo al cd, di cui si è già parlato in sede introduttiva. Qui voglio solo spezzare una lancia a favore dei Camaleonti, che sono riusciti ad eseguire un rifacimento italiano molto bello, anche migliore della stessa canzone originale.
Anche qui abbiamo il piacere di ritrovare Memo Remigi, con uno dei suoi gioielli assoluti, la ballata dal ritmo inclassificabile "Innamorati a Milano". In molte parti sembra un bolero, ma prima che il ritmo si schiude ve ne sono altre a tempo neutro, molto enigmatiche (imparate nuovi autori da chi aveva meno accademia e più fantasia!).
Continuando riscopriamo un altro grande successo estrapolato dal canzoniere di Umberto Bindi, la ballad terzinata "Arrivederci". Sinceramente trovo molto più convincente la versione jazzata data da Marino Barreto Jr, ma queste sono le scelte di chi ha fatto la compilation. È abbastanza brutto il vocalizzo che Bindi esegue prima di ogni esposizione del tema melodico, semplicemente perché è portato avanti da una voce che non è abituata all'uso di questa risorsa.
Dello stesso periodo è la penultima traccia, la mia canzone preferita di Giorgio Gaber, nella quale il milanese sfodera un'anima da crooner che dopo, infervorato dalla politica, ha perso assolutamente per strada. La ballata che troviamo è "non arrossire", bellissima serenata d'amore, debitrice sì di certi stilemi nordamericani, ma prima d'ogni cosa della serenata popolare italiana.
Il volume si chiude con il tema del film "Love story", interpretato dal sassofonista Fausto Papetti, interprete che ha chiuso un'epoca, purtroppo mai più ricominciata, nella quale la musica strumentale andava a braccetto con i dischi cantati.
Eccoci ad uno dei momenti più polemici di tutta questa rassegna, perché ci dobbiamo occupare del volume napoletano della collezione "best Italia".
Il volume porta il titolo di "Bella Napoli" ed inizia con "Cu' mme", rpesentataci in una versione interpretata solamente da Mia Martini, e già qui c'è da ridire. Infatti il brano è spudoratamente concepito affinché una voce (maschile) canti a strofa mentre un'altra (femminile) le risponda nel ritornello. Poi trovo ingiusto omettere Murolo dalla prima traccia di un cd napoletano, lui che ha sempre perseguito il rinnovamento rispettoso della canzone napoletana, anche quando è stato preso in mano da produttori senza alcuno scrupolo.
Ancora più da ridere c'è nella seconda traccia, perché troviamo Gigi D'Alessio, ossia colui che ha dato visibilità nazionale al deplorevole fenomeno dei "neomelodici", quegli interpreti il cui stile è assolutamente e rigidamente prestabilito. Il napoletano interpreta "Annarè", colonna sonora di un film, ultima sua esperienza rimasta confinata praticamente al territorio campano.
Il volume va di male in peggio, perché dopo il primo figlio troviamo il padre dei "neomelodici", che pentito del misfatto compiuto e volendolo in qualche modo appianare (mentre oramai si sa che non può più) si è dato al teatro e alla cosiddetta "canzone di qualità" (siete sicuri?). Mi riferisco a Nino D'Angelo, di cui si ascolta "Nu jeans e 'na maglietta" risalente all'inizio degli anni Ottanta, ai suoi primi film osceni.
Il primo brano "classico" che si ascolta è "Tu ca nun chiagne", in una versione forse non bruttissima ma sicuramente non favolosa. Mi riferisco a quella che ne hanno dato il gruppo napoletano "Il giardino dei semplici", quando, nel più generale e spesso falso interesse per le canzoni dialettali o di tradizione, anche la canzone napoletana sembrava rivivere con versioni rivisitate fino all'eccesso. In questa addirittura spiccava uno strumento sintetico tipico del "progressivo" su cui è meglio sorvolare.
E a proposito di cose sgradite andando avanti si trova l'abruzzese Fred Bongusto che rilegge "Resta cu' mme", ma questa licenza può essere perdonata in quanto la versione di Modugno è stata già inserita in un volume precedentemente da noi consultato (potevano non so perché mettere la versione di Murolo, forse sì!).
Non sono una fan di Mario Merola, ma per lo meno la sua napoletanità e il suo essere legato ad un certo stile "classico" sono innegabili. Dalla voce di Merola ascoltiamo "'A voce 'e mamma", brano che stava benissimo sulla bocca di tutti quei cantanti che avevano nelle corde il repertorio "guappo" o "di giacca", tra cui ricordiamo Tony Bruni, Tony Astarita, Nunzio Gallo ed altri.
Il prossimo brano è sicuramente il migliore della prima metà della serie, anche se non sono tanto d'accordo sulla versione prescelta. Come settima traccia, infatti, si trova "Malatia", interpretata da Peppino di Capri. Il cantante napoletano si è sempre vantato di aver cantato la canzone napoletana senza avere mai impostato la voce, mentre secondo me un minimo di impostazione o di purezza di dizione è richiesta obbligatoriamente da questo repertorio. Io vi consiglio di sentire le versioni di Armando Romeo (autore del brano) e di Roberto Murolo, ottimo interprete per tutti i brani nati o concepibili per chitarra e voce.
A proposito di grandi chitarristi andando avanti si riscopre Fausto Cigliano, quando ancora non aveva ricevuto la lezione di Mario Gangi, quindi suonava con tecnica da night. Del cantante vomerese viene riscoperta la bellissima versione, incisa negli anni Cinquanta chitarra e voce, del brano "Che m'e 'mparato a ffà", da molti conosciuto per essere entrato nel repertorio canoro di Sofia Loren.
Domenico Modugno fa la sua apparizione con "Strada 'nfosa", brano completamente da lui scritto in lingua napoletana,cosa che si può notare per le leggere imperfezioni presenti nel testo, notate ironicamente e rispettosamente da Totò. Il brano è una dimostrazione di come i ritmi swingati, con la loro oscurità, sanno esaltare come pochi il napoletano ed il suo suono ondoso.
Roberto Murolo arriva ad interpretarci "Anema e core", uno dei classici della canzone napoletana degli anni Cinquanta, prima canzone partenopea che portasse l'indicazione "slow" sulla partitura. Credo sia stata incisa da Murolo due volte: la prima su 78 giri (molto migliore) e la seconda per la sua "Antologia della canzone partenopea" per la Durium.
Dopo questa parentesi filologicamente corretta vi sono svariate tracce che non conosco, interpretate rispettivamente da Sofia Loren e Mina, ma quando si torna a cantare brani noti lo si fa con una bruttissima versione di "Maruzzella" da parte dei Beans, gruppo che negli anni Settanta si prodigò in rifacimenti-distruzioni di brani storici, tra cui la bellissima (e altrettanto napoletana di provenienza, seppure in lingua italiana) "come pioveva" di Armando Gill.
La chiusura permette di nominare Renato Carosone, il più diretto rivale di Murolo per quanto riguarda la popolarità a livello napoletano, nonché di Buscaglione nel suo periodo di frequentatore di night. Non so quale versione è presente in compilation di "Tu vuo' fa' l'americano", ma io vi consiglio di ascoltare solo quella incisa con il sestetto storico, difatti trovo deludente tutto ciò che Carosone ha inciso dopo rifacendo il repertorio anni Cinquanta.
Il prossimo volume ha una logica che non capisco. Difatti, anche se si chiama "I grandi interpreti" inizia con un cantautore. Il primo brano difatti è "1950", forse la canzone più commovente che Amedeo Minghi sia riuscito a concepire. La sua versione non è assolutamente brutta, però solo da studio. Non sopporto la sua abitudine di cantare dal vivo eseguendo continui spostamenti di tempo, che non permettono mai il canto al pubblico. Lo sfasamento di tempo, come qualsiasi risorsa, va usata moderatamente.
La traccia successiva riporta alla ribalta un artista che a me non piace, a cui però non può essere negata bravura. Mi riferisco a Michele Zarrillo, del quale si ascolta "Una rosa blu", brano del 1982, assurto alla popolarità solo nel 1998 in occasione del suo rifacimento nella raccolta "L'amore vuole amore". Il brano, è strano a dirsi, è cento volte meglio nella versione rifatta nel 1998 piuttosto che in versione originale, sono soprattutto più curati gli arrangiamenti.
Anche questo volume contiene l'ennesima cover dei Pooh da parte di Riccardo Fogli (che stette nel gruppo svariati anni, meglio specificarlo). Il brano che si trova in questa compilation è "Noi due nel mondo e nell'anima", che però è cento volte meglio in versione originale, perché fonde bene sonorità italiane con qualche condimento "progressivo" (forse solo per ammiccare alla nascente moda!).
Come quarta traccia si trova una canzone di Toto Cutugno che non conosco o non ricordo (perché non so se faceva parte delle sessioni d'ascolto domenicali che mi dovevofare mentre mio nonno russava come un trombone!).
Purtroppo quando si torna a parlare di brani conosciuti arriva Adriano Pappalardo (che speravo di non trovare, sinceramente!), con quello che è stato il suo più grande successo, quello che tutt'ora lo contraddistingue, ossia "Ricominciamo". Non parliamo del testo, dico solo che è un banalissimo brano terzinato con qualche venatura blues, perché già stavamo diventando più statunitensi degli statunitensi.
Andando avanti si torna agli anni Sessanta e si parla di brani di indubbia qualità, come la ballata "A chi", forse la canzone più bella mai cantata da Fausto Leali. Un'altra storia è la versione di De Gregori che, essendo un po' stanco, l'ha fatta... a blues, tanto quella è una musica che si canta pure senza voce, e lui oramai è notorio che non ce l'ha (tra lui e Dalla è una coppia perfetta!).
Continuando con gli anni d'oro della canzone italiana troviamo "Una rotonda sul mare", uno dei tantissimi gioielli regalatici da Franco Migliacci, il grande paroliere di "Nel blu dipinto di blu". La ballata è di una semplicità e una leggerezza che conquistano, esenti da banalità in tutti i sensi. Da notare l'assolo di chitarra classica che scandisce le parti strumentali del brano oltre agli immancabili violini.
Il brano che segue è molto bello ma io non l'avrei inciso nella versione presente in compilation. Ci troviamo davanti a "Love in Portofino", che però ascoltiamo nella versione di Dorelli (avrei preferito Buscaglione o la già ricordata Dalida). La versione del Dorelli, nonostante le sue innegabili qualità vocali, è fiacca, soprattutto è troppo alla Frank Sinatra.
E l'avevamo citata poco fa, ce la ritroviamo cantata da Domenico Modugno. Mi riferisco a "Nel blu dipinto di blu". Spero di cuore che sia la versione del1958, quella incisa con il sestetto azzurro di Semprini, l'unica davvero bella.
Dal Paradiso all'Inferno: "Italia" di Mino Reitano continua questa scaletta. Il brano è di un patetismo riluttante, sorvoliamo.
Subito dopo si fa il viaggio all'incontrario, perché si trova la bellissima "L'immensità", che io ritengo la più bella canzone italiana di tutti i tempi. La si ascolta (e giustizia è fatta!) da Don Backy. Spero sinceramente di cuore che non sia la versione del 1967, infatti il Caponi secondo me aveva una voce non molto espressiva da ragazzo, e solo con gli anni Ottanta, ancora di più dagli anni Novanta in poi, gli è nato il timbro limpido e rauco che amo tanto. Io vi consiglio quindi diascoltare la versione presente nel volume 1 della collezione "I grandi successi", quello dedicato al repertorio 1962-1967, che giustamente porta questo brano in chiusura.
Ed eccoci ad una delle prime canzoni impegnate cantate da Giorgio Gaber, anche se ancora fortunatamente era lontano dalle canzoni-comizio degli anni Settanta. Troviamo infatti "E allora dai", presentata sempre all'edizione sanremese del 1967. Il brano è spudoratamente beat, non mi ha mai del tutto convinto, ma è gradevole.
La penultima traccia è un brano che non conosco, ilcui titolo dà adito al sospetto che sia il rifacimento, sicuramente in chiave rock, del brano del Quartetto Cetra dal titolo "Donna". Speriamo di no!
Il volume si chiude con un omaggio al "molleggiato" che appare con il suo primo successo, il rock and roll spumeggiante "Ciao ti dirò", interpretato contemporaneamente anche da Gaber.
Il prossimo volume contiene brani di qualità abbastanza mediocre, ma sempre più belli di ciò che ci propinano attualmente le radio. L'argomento, quindi anche il titolo del cd, è "Super classifica '70-80".
Si inizia con il più grande successo dei già ricordati Il giardino dei semplici, ossia la ballad "Miele". È un titolo che dà adito a possibili schifezze come pochi altri, infatti esiste anche una canzone di Gigi d'Alessio con questo titolo (mamma mia!).
La seconda traccia è "non si può morire dentro", interpretata da Gianni Bella, uno dei cantanti che mi piacciono di meno, dopo quelli di "X FACTOR", OVVIO! lA SUA VOCE è VERAMENTE ORTICANTE, IL SUO FALSETTO DA SOPRANISTA è BRUTTISSIMO, SOLO PEGGIO DEL CANTANTE STORICO DEI cUGINI DI cAMPAGNA.
Negli anni Settanta andavano in classifica anche brani strumentali. La conferma ne è questa "Il gabbiano infelice" del guardiano del faro, su cui non tornerei.
E come dire subito appena nominati, eccoli i Cugini di Campagna. Dal loro repertorio in questo caso si estrae una canzone dove l'uomo, indeciso tra due donne, non trova la sua strada. Patetica, con un ritmo neutro ma senza alcun interesse e... la voce di lui non merita alcun commento.
E gli anni Ottanta compaiono con la vincitrice del Sanremo 1982, ossia "Storie di tutti i giorni". Il brano è decente solo nella versione di Gianni Morandi, la versione originale è quasi inascoltabile, quasi completamente elettronica, senza la traccia di uno strumento elettrico, eccezion fatta per una banalissima chitarra elettrica.
E come poter sorvolare questa canzone di Fiordaliso, la cui carriera è restata legata a questo brano fino ad oggi. mi riferisco a "Non voglio mica la luna", inno della contentezza per le poche cose che si possono avere, che non invita assolutamente a lottare, ma che volete eravamo nell'epoca del riflusso.
Gli anni Ottanta, ovviamente, sono stati caratterizzati dall'apparizione folgorante di Donatella Rettore (scusate, solo Rettore!). La cantante faceva dei testi un po' provocatori, innovativi ma secondo me da quattro soldi. Il brano che troviamo vorrebbe essere un tentativo, per me fallito, di affrontare l'amore in maniera innovativa, facendo una disquisizione sul kobra. Ilbrano è pseudo etnico, forse potrebbe anche essere una tarantella, è pietoso.
Dal 1980 viene "Su di noi", una delle perle prodotte da Enzo Ghinazzi in arte Pupo, quando non si era dato anche alla conduzione di programmi televisivi e radiofonici nonché alla convivenza con i principi. Il problema è che quello che per lui è "senza una nuvola", per chi ha delle buone orecchie è un incubo.
E l'avevo citata prima durante l'esplorazione del volume "Bella Napoli", come esempio della maniera di lavorare di questo gruppo, ed ecco che mi ritrovo la "Come pioveva" dei Beans in questo volume. In ogni epoca vanno fatte cose diverse, forse questo è vero, ma chenon le si facciano prendendo e depredando un'altra epoca di ciò che le si addisse di più. Il brano è eseguito senza alcun tremolo nella voce, con uno stile di canto più avvicinabile al pop che alla melodia italiana, senza nessuna fuga da schemi statunitensi a noi estranei. Il ritmo è una specie di bolero fatto a rock, bruttissima!
Dispiace sempre vedere chi ha una bella voce svendersi fino a fare cose pop e commerciali. È questo il caso di Giuni Russo, che negli anni Ottanta ebbe qualche contentino di popolarità con delle canzoni scritte spesso da Battiato (prima filosofeggiava e dopo scriveva "Un'estate al mare"), tra cui questa "Limonata Cha cha cha". È un pezzo accettabile solo per l'interessante operazione di revival nei confronti di un ritmo che all'epoca non era di moda, ma se volete sentire dei cha cha cha all'italiana andate su "Drakula cha cha cha" di Bruno Martino o sul "Cha cha cha dell'impiccato" di Jimmy Fontana e Gianni Meccia, che in verità prende questo ritmo solo nel ritornello.
Uno dei cantautori più dimenticati degli anni Settanta è Leano Morelli, trasmesso solo da pochissime radio tra cui appunto Radio Italia Anni Sessanta. Del cantautore in questione si ha l'onore di trovare una bellissima ballata dal titolo "Nata libera", molto lenta, caratterizzata dall'alternanza di una strofa in minore ed un ritornello completamente in maggiore. La semplicità dell'accompagnamento strumentale, eseguito senza elementi sintetici, esalta l'armonia e la stupenda melodia, che incastonano un bellissimo testo.
Abbiamo trovato in precedenza Marco Ferradini con la sua peggiore canzone, ora ci rifacciamo. In questo volume è presente un brano dove è evidentissima l'influenza di Lucio Dalla, soprattutto nella presenza di un sassofono alto molto graffiante. La ballata è concepita su una scala maggiore quasi completamente sfruttata, quindi non è una di quelle da falò in spiaggia e s'intitola "Schiavo senza catene".
Per fare canzoni quantomeno discutibili si può facilmente sfruttare la partenza per il militare, che ancora negli anni Settanta era obbligatoria. È questo il caso di questo classico dei Santo California dal titolo "Tornerò", che sfrutta l'alternanza tra cantato e parlato, sperimentata tra gli altri da Serge Ginzburg nella sua "je t'aime, ma non plus", ovviamente con ben altri risultati.
Il volume si chiude con un ricordo di Ivan Graziani, con un altro dei suoi gioielli, uno dei pochi che sia riuscito a diventare di dominio pubblico. Mi riferisco a "Firenze (canzone triste)", canzone che si può annoverare tra le ballate più intime del suo repertorio. Per chi non la conosce dirò che è una ballata caratterizzata da un brevissimo ritornello che si inserisce all'interno di strofe lunghissime, che musicalmente alternano momenti minori ad altri maggiori.
Ora ci dobbiamo occupare del repertorio riguardante le canzoni dell'estate, quelle che forse vanno bene sotto l'ombrellone (non è detto!), ma che, appena tornati, a me fanno subito venire l'orticaria.
Si inizia con "Tropicana", grande hit anni '80 del Gruppo italiano, ensemble che ha prodotto un altro brano molto più carino, la swingante "Anni ruggenti".
Non so perché l'estate è sempre collegata all'America Latina, ai Caraibi,quasi mai al Mediterraneo. A riprova di ciò si può citare il prossimo brano, un'insopportabile ritmo pseudocubano, dove si mischiano molti posti caraibici e si dipinge un paradiso a sfondo sessuale veramente vergognoso. Mi riferisco a "Maracaibo" di Lu Colombo, interpretata insieme a Davide Riondino.
E quando si parla d'estate non possono maimancare i Righeira, che già avevamo incontrato con "No tengo dinero" ma ritroviamo con "L'estate sta finendo", brano ispirato a quando a settembre si riflette "Sugli anni e sull'età", a quando "dopo l'estate" si ha "il dono usato della perplessità". Ovviamente la citazione di Guccini dalla "Canzone dei dodici mesi" in questo contesto è ironica, perché la canzone si limita ad asserire con ripetitività e povertà musicale che "Le'state sta finendo".
Non so cosa farei a Tony Esposito e Tullio De Piscopo se solo mi capitassero tra le mani. È troppo facile fare progetti spudoratamente commerciali per poi potersi finanziare i progetti cosiddetti "di nicchia". Di Tony Esposito troviamo quell'insopportabile mix di napoletano, inglese e lingue inesistenti che è "kalimba de luna", interpretata con una vocina che non sa né di me né di te (comeEugenio Bennato con la sua taranta del "volemose bbene".
Continuando in questa atmosfera latinoamericaneggiante troviamo le sorelle Iezzi, che dopo aver fatto qualche cosa di decente all'inizio, hanno successivamente capito che per scalare le vette delle classifiche dovevano fare dance. Così, al ritorno da un viaggio in Spagna, ci hanno regalato questa hit meravigliosa stile "ciclone" di cui io avrei fatto volentieri a meno, dal titolo "Vamos a bailar (esta vida nueva").
L'avevamo citata ed eccola, ancheperché questo volume porta esattamente il titolo di questa traccia. Ci troviamo davanti ad "Un'estate al mare", cantata da Giuni Russo, brano dove Battiato sembra voler espiare i suoi peccati presenti e futuri di filosofia musicale (altrettanto detestabile che il pop di consumo!).
E tornando a voci che non sanno né di me né di te (almeno la Russo aveva una bella voce, l'ho già detto) troviamo la più grande voce porno italiana, ossia Viola Valentino. Il timbro è falsamente sensuale, perché è la storia di una donna che si vende ad un uomo (vergogna!), il brano si chiama "Comprami".
Sull'articolo di commento alla "Shit parade" di www.hitparadeitalia.it avevo citato "il vocione" e il "vocino". Ve li ricordate? Bravissimi, Al Bano e Romina Power. In questo volume, e come poteva mancare, purtroppo c'è "Felicità", una delle canzoni più brutte che io abbia mai sentito (ovviamente l'inno dei Truzzi e fuori classifica!). Per chi non se la ricorda è una bella tarantella (perché Carrisi e di Cellino San Marco, quindi "le radici ca tene" sono pugliesi), con un testo bruttissimo.
La traccia successiva fortunatamente la ignoro, è cantata dagli Homo Sapiens e si chiama "Due mele", ma non manca alla mia coscienza una bellissima merdolina di Tullio De Piscopo intitolata "Andamento lento", dove credo che il napoletano suoni una bruttissima batteria elettronica o sintetica. Si può dire che questo brano di De Piscopo è l'antesignano più diretto della filosofia del "volemose bene" di cui sopra.
Reperiamo andando avanti uno dei rap più brutti (anche se lui ha una bella voce, vai qualcosa di accettabile c'è), ossia "Ma quale idea" di Pino D'Angiò. Ma sarà mica il fratello di Carlo D'Angiò dei Musicanova, il quale gli scriveva le canzoni di nascosto mentre poi si cantava le "montanare" e le "rodianelle" del gargano? Comunque il brano è insopportabile, come tutti i rap, a me infatti il parlato mi piace solo se non va a tempo con il ritmo del brano, e prende le forme di un recitativo (vedasi certe cose di Paolo Conte o l'ultimo Claudio Lolli). Va detto poi che il rap in minore è qualcosa di penoso, ed ancora più penosa è la reinterpretazione ed ammodernamento che ne hanno fatto i Flaminio Mafia.
Una carina l'abbiamo trovata come terz'ultima traccia, la canzone "Profumo di mare", rifacimento da parte di Little Tony di "Love boat". Non è del tutto banale, è anzi una ballad abbastanza carina, e lui non ha una voce completamente insignificante.
Geniale è la penultima traccia, ovvero la "Tintarella di luna" di Mina,che ci permette di ricordare Bruno De Filippi, grande musicista recentemente scomparso, compositore di questa frizzante melodia. È un twist introdotto da una piccola parte melodica, ma fortemente caratterizzato nella versione di Mina da un impareggiabile assolo di sassofono baritono.
Si chiude con un brano "beat", il maggior successo di Giuliano e i Notturni, ossia la traduzione italiana del "Simon says", diventato da noi "Il ballo di Simone". Non è un capolavoro, ma questo volume ne ha ben pochi.
Il volume dedicato ai "gruppi" inizia con un riferimento all'epoca "beat", quella che in Italia ha visto la proliferazione indisturbata di "complessi" tra cui i Rokes, di cui ascoltiamo "È la pioggia che va". Il brano è bello, peccato la voce di Shapiro ed il suo funestissimo accento inglese.
La seconda traccia ci permette di riscoprire uno dei pochi rifacimenti di brani non americani tra quelli entrati nella storia della musica italiana, ossia la traduzione italiana del brano "Wight is wight" di Michel Delpêche, interpretata dai Dik Dik con il titolo "L'isola di Wight". Sinceramente non mi ha mai convinto questo brano, né in versione originale né tradotto, anche se devo riconoscere una qualche ricchezza alla melodia.
E per tornare ad un rifacimento americano, arriviamo ad un'altra cover incisa dai Pooh nel loro periodo "beat", il brano "Vieni fuori", rifacimento di "Keep on running". La melodia, non so se in seguito o contemporaneamente, è stata ricantata anche da un altro cantante che non so precisare con un altro testo, prassi completamente accettata.
E ci troviamo di fronte ad uno dei gruppi più importanti nella fase tra "beat" e "prog", ossia la Formula 3, di cui ascoltiamo "Questo folle sentimento", uno dei brani usciti dalla produzione di Mogol e Lucio Battisti, che scrivevano anche per i gruppi della loro scuderia, la Numero 1. Il brano è basato su un mi un po' ripetitivo, che si sblocca solo con l'apparizione di un "la" nel ritornello. Impostazione fortemente blues, sempre riconosciuta da battisti nel suo primo periodo.
Della fase di transizione tra il "beat" ed il "prog" fa parte anche il brano successivo, interpretato dai New Trolls e dal titolo "Davanti agli occhi miei". La caratteristica più rilevante è la presenza di un gruppo di voci che suonano all'unisono nel ritornello, come forma di risposta alla voce falsettata di Di Palo.
Dal Sanremo '67 viene "Proposta", geniale quadro di "tipi" sociali e di preoccupazioni portato in scena dai Giganti. Di cose interessanti ne ha svariate, a partire dall'alternanza di accordi maggiori e minori nell'introduzione, per poi arrivare a stabilizzarsi durante tutto il resto del brano in una struttura blues in parte smorzata da un "mi minore".
Tra le cover, dopo aver saltato un brano dell'Equipe 84, spicca quella di "norvegian Wood" eseguita dai Camaleonti. All'epoca gli strumenti etnici non erano in voga (per una parte era meglio!), solo che il brano è spudoratamente concepito per Sitar da George Harrison che lo aveva appena imparato in India. Sarei curiosa di sentirla!
E si passa ad un capolavoro di produzione nostrana, ossia "Concerto", giustamente la canzone più ricordata dallo sterminato e bello canzoniere degli Alunni del Sole di PaoloMorelli. Qui non si gioca con la tradizione napoletana, qui si compone un brano agile e malinconico, in tonalità minore, molto semplice ma segretamente complicato. Il testo riprende, senza patetismo, il tema della fine di un amore nato su una spiaggia, lo stesso clima che si respira nella notevole "Settembre" cantata da Peppino Gagliardi, altro grande partenopeo.
Dopo aver saltato una delle canzoni sconosciute del repertorio dei Califfi, si trova "Gioco di bimba", bellissima favola da molti erroneamente interpretata come una canzone dedicata ad uno stupro. Secondo Aldo Tagliapietra de Le orme essa non è che il racconto della nascita di un amore.
Essendovi due tracce che non conosco passo direttamente all'ultima, la canzone swingante "Anna da dimenticare" de I nuovi Angeli. Molto interessante, perché ha una melodia molto larga ed il gruppo di mostra una buona padronanza della polivocalità.
Il volume su "I favolosi anni Sessanta" inizia proponendoci una rarità, ossia la versione di Giorgio Gaber del successo di Adriano Celentano "Il ragazzo della Via Gluck". Mi era arrivata alle orecchie la "Risposta al ragazzo della Via Gluck" nonché "Com'è bella la città", entrambi brani di Gaber con chiare finalità polemiche nei confronti dell'ambientalismo del "molleggiato".
La seconda traccia riporta un successo del Sanremo 1964 (la precedente viene da quello del '66) interpretato da Little Tony, che lo cantava in coppia con Gene Pitney. Il brano è un po' troppo basato su stili nordamericani, ed è tra i primi in cui si fa un massiccio uso di tastiera o pianoforte sintetizzato.
Nel 1959 la giovane Mina Mazzini si presenta al "Musichiere" di Mario Riva interpretando in maniera spumeggiantissima una delle canzoni del Festival di Sanremo di quell'anno, la mediocre canzone melodica "Nessuno". La giovane "tigre di Cremona" riesce a renderla un capolavoro, anche grazie al solito (per i suoi primi dischi) assolo di sassofono baritono. Mi riferisco a "Nessuno", che al Festival era stata lanciata da Betty Kurtis.
La traccia successiva è un brano di fortissima ispirazione latina, ma profondamente debitore anche allo stile del grande Gorny kramer. Mi riferisco a Marina, che io amo perché ha un bellissimo assolo di fisarmonica, che dimostra che questostrumento, in quanto a "svisate" non ha niente da invidiare ad una più convenzionale chitarra elettrica.
Ed ecco Adriano Celentano con uno dei suoi primi successi, il rock and roll "Iltuo bacio è come un rock". Sicuramente interessante, anche se trovo che i ritmi nordamericani non abbiano niente a che fare con noi che siamo profondamente latini, per niente anglosassoni (per fortuna!).
Gli anni Sessanta furono caratterizzati da numerosi cantanti francesi che fecero molto successo in Italia, traducendo in italiano i loro brani principali. Tra questi Adamo Salvatore, belga di origini siciliane, ha un posto del tutto particolare. Dal suo meraviglioso repertorio ascoltiamo "Affida una lacrima al vento", bellissima ballata dove un innamorato chiede alla propria amata di piangere una lacrima per lui e mandargliela tramite il vento. Anche qui secondo me c'è assolutamente un debito con la tradizione nostrana delle serenate.
Abbiamo già accennato che i rifacimenti o cover non riguardano solo il bacino anglosassone, anzi si andava spesso a pescare da altre culture. Un esempio ne è questa bellissima "Angeli negri", traduzione italiana di "Angelitos negros" di Antonio Machín, lanciata per la prima volta dal cubano Don Marino barreto jr, e poi fatta conoscere al grande pubblico da Fausto Leali. Secondo me Leali non convince su questa melodia, perché le voci soul come la sua non hanno niente a che vedere con la cantabilità cubana, invece grandemente rappresentata sia da Machín che da Don Marino Barreto Jr.
In Italia il campo di coloro che ripresero il repertorio di Elvis Presley fu occupato e monopolizzato da due cantanti: Bobby Solo e Michele, mentre Little Tony, pur assumendosi come suo emulo, non volle mai o quasi mai cantare le sue canzoni. Michele si avventurò anche nel periodo buio, quello degli anni Settanta, dove il cantante, poiché del rock and roll non gliene importava niente ma della fama sì, cantò anche canzoni sui diritti civili ai Neri d'America tra cui "In the ghetto". Il brano è una ballata indubbiamente forte, ma sinceramente tradotta non convince.
Avevamo citato Betty Kurtis in occasione di "Nessuno", ora la ritroviamo con l'altro suo classico dal titolo "Cantando con le lacrime agli occhi", brano molto melodico.
Dopo un brano cantato da uno sconosciuto Federico Monti Arduini,arriva "Lisa dagli occhi blu", più grande successo di Mario Tessuto, cantante che avrebbe meritato sicuramente maggiore fortuna e di non essere etichettato con una canzone così insipida. Il brano ha un'orchestrazione innegabilmente bella, anche per la mirabile fusione che si esercita tra il soul e la melodia italiana, ma vi giuro che c'è molta discografia di tessuto sicuramente migliore.
Ed eccoci a Donatello, che interpreta "Io mi fermo qui", direttamente dal Sanremo 1970. È una bellissima ballata dall'impianto fortemente americano come tecnica chitarristica, ma debitrice di tutta la tradizione italiana, nonché di certa imponenza nell'orchestrazione che precede il ritornello.
La successiva traccia è una delle canzoni più tristi che mi sia mai stato dato di sentire. Mi riferisco alla ballata pessimista "Soli simuore", cantata in Itlaia sia da Michele che da Patrick Samson, cantante olandese che dopo questo exploit non poté più ripetersi.
L'ultima traccia è un brano impegnato dei Pooh, il loro primo brano, dal titolo "Brennero '66". È una ballata dall'impostazione folk, con tanto di chitarra a dodici corde, ma è un tentativo bieco di seguire una moda che si dissolverà subito.
Il prossimo volume è dedicato a ciò che più ci contraddistingue a livello mondiale, ossia la "Melodia italiana".
Il volume si apre con "Estate", cantata stavolta da bruno Martino (speriamo che sia la versione originale, l'unica che convince).
In questo frangente si torna ad omaggiare i cantautori, continuando con Luigi Tenco ed un suo gioiello estratto dal suo primo vinile, la bellissima "Quando".
La terza traccia di questo cd non poteva che essere "Il nostro concerto", ma avendo già inserito la versione di Umberto Bindi si doveva trovare un ripiego,e lo si è trovato in Peppino di Capri. Non conosco la versione in questione, comunque preferisco quella originale, perché ritengo che Bindi abbia spudoratamente cucito questo brano alla propria vocalità.
Ed ecco la migliore versione de "Il cielo in una stanza", quella di Mina. Sinceramente ritengo che questa orchestrazione sia insuperabile, magari si poteva puntare ad un canto maggiormente melodico ma sono sfumature.
una delle poche canzoni belle di Bongusto è questa "Tre settimane da raccontare", un ritratto sornione ma per niente patetico di un amore iniziato d'estate, che però, al contrario del solito, forse d'inverno continua.
La traccia successiva ci riporta alla mente un brano a me sconosciuto di Gianni Nazzaro, precedendo quella che per me è una delle più belle e care canzoni romane. Miriferisco alla sigla del film (sceneggiato) tv "Il segno del comando", ultimo grande sussulto della canzone romana, quel capolavoro assoluto di Fiorenzo Fiorentini che è "Cento campane". Abbiamo il piacere di ascoltarlo dalla voce più verace di Roma, il grande e già qui citato Lando Fiorini. La canzone riprende il tema delle streghe, dell'amore che strega l'anima, quindi la donna vista come una strega, che tiene l'uomo in eterna soggezione. La tematica viene sviluppata in maniera tradizionale, su una melodia altrettanto di conio tradizionale, appunto "italiana".
Si fa poi un salto negli anni Ottanta, con un brano che preso da solo è bello, innegabile, ma se paragonato all'altro grande hit del suo interprete è completamente uguale se non fosse per qualche scala più ricca (è un po' quello che adesso succede con Alessandra Amoroso). Mi riferisco al brano "Daniela" di Christian, che nello stesso periodo (precisamente nel 1984) aveva cantato "Cara" al Festival di Sanremo. I due brani sono entrambi caratterizzati da una struttura melodica in maggiore, con sfumature minori e da un ritmo di bolero cubano velocizzato.
E torna il Beniamino nazionale, o meglio il begnamino nazionale, Mino Reitano. Questa volta lo troviamo in una delle sue canzoni di ispirazione folkeggiante, perché in quegli anni c'era una moda dilagante, ossia la composizione di brani d'autore che sembrassero etnici (almeno non si sputtanava il folklore come fanno i Bennato, Epifani e compagnia, c'era qualchesperanza che qualcuno ci si avvicinasse con canzoni che se ne nutrivano). Non sto dicendo che si siano fatti sempre buoni brani con tale metodo compositivo, quantomeno però non si rovinava ciò che c'era lo si arricchiva davvero. Il brano che ci interessa, "Il tempo delle more", riprende il folklore di ispirazione alpina, l'unico che veniva nutrito, il meridione allora nutriva il settentrione, adesso ci sono molti settentrionali che imparano le danze popolari del Sud senza neanche capirle.
Tornando al ritmo di bolero velocizzato di cui sopra ricordiamo un brano di un cantante che potremmo definire "meteora", di quelli che danno un colpo e via. Mi riferisco a Rossano che è interprete di un'insulsa canzone dal titolo "Ti voglio tanto bene". Con titolo simile ("Te voglio bene") consiglio di riscoprire un gioiello napoletano di Renato Rascel, interpretato anche da Roberto Murolo.
Finalmente abbiamo il piacere di toccare con mano la favolosa creatività e vocalità di jimmy Fontana, con il brano "Il mondo", reso immortale dalla perfetta combinazione tra musica e testo, propiziata anche dall'arrangiamento profondamente classico di Ennio morricone. Infatti è un brano dove l'orchestra classica si viene a sostituire (all'epoca era comune) a quella leggera, in tutti i suoi ruoli. È bellissimo sentire il ritmo terzinato affidato ai timpani a livello di batteria, agli archi bassi per la parte di basso e così via, altri tempi.
La traccia successiva è un'interessantissimo duello amoroso tra due ragazzi che raccontano il loro diverso modo d'amare, tramite un uso intenzionale da una parte della voce confidenziale, dall'altra di quella urlata. Il brano che ci interessa è tratto dal repertorio de Igiganti e si intitola "Una ragazza in due", interessante terzinato che, per esprimere meglio il duello alterna parti sensuali in minore a parti urlate in maggiore.
Il secondo grande successo sanremese di Domenico Modugno, "Piove", è il prossimo protagonista, un commovente brano in terzinato veloce, che inizia con un'indimenticabile suono d'arpa che imita onomatopeicamente la pioggia. Anche qui si utilizza il linguaggio evocativo degli strumenti, cosa completamente dimenticata da questo pop da quattro soldi.
L'ultima traccia, infine, è di Don Backy ed è una bella versione di "Canzone", brano portato da costui e Celentano al Festival diSanremo 1968. Probabilmente non vinse per la maleducazione di Celentano, che lo rovinò volutamente per gli screzzi con DonBacky che da allora non finirono più.
Ovviamente un altro tema importante quando si tratta di fare compilation a tema è quello sessista, le donne da una parte e gli uomini dall'altra. Così anche in "Best Italia troviamo "Bella donna", compilation tutta concepita al femminile.
Si inizia con "Pensiero stupendo" lanciato ed interpretato da Patty Pravo, brano scritto per lei da Ivano Fossati. Nel brano la Strambelli utilizza la sua sensualità in maniera esagerata, non vorrei dire altro.
Qualche tempo fa era tornata di moda una canzone insopportabile che io nonconoscevo, e qui me la trovo in versione originale, ossia interpretata da Gabriella Ferri. La canzone è "Remedios", quella che si è sentita fino allo sfinimento dalla voce della brasiliana Selma Ernandes, per poi buttarla via come uno stuzzicadenti. Sinceramente il brano è brutto l'ho già detto, ma ancora più sconcertante è quando le cantanti di musica popolare o affine, per la maggiore popolarità, accettano questi compromessi con il mercato. Non dico questo per il mio proverbiale antimercantilismo, ma perché so benissimo che i produttori di musica leggera, dopo averti sfruttato, ti buttano via e tu ritorni come prima o peggio.
La terza traccia è un capolavoro che Mina estrasse dal Festival di Sanremo 1964, ossia "E se domani". Il brano non era passato a notorietà perché secondo me nessuno dei due cantanti gli aveva impresso l'anima giusta, né Gene Pitney (e si capisce) né Fausto Cigliano (ed è inspiegabile). La versione di Mina è swing ma melodica, lenta, aperta e sincera.
Ed eccoci ad uno dei più bei valzer mai scritti, quella "Senza fine" scritta da Gino Paoli per la voce di Ornella Vanoni. Da questa interprete abbiamo il piacere di ascoltarla, quando lei ancora non cantava alla brasiliana, ma semmai come una cantante venuta dalla scuola di Streler.
Andando avanti si fa un salto di circa trent'anni, ricordando una bellissima (e non capita dagli uomini) canzone cantata da Mia Martini al Sanremo 1992. Mi riferisco, ovvio, a "Gli uomini non cambiano", bellissima ballata aperta, che permette alla cantante di Bagnara di esprimersi al massimo.
Dopo una traccia di Spagna a me sconosciuta ("noi non possiamo cambiare") si arriva a "Donna con te" cantata da Anna Oxa al Sanremo 1990. Il brano non è male, anche se lei ha una voce che solo raramente riesce a piacermi, un po' come la Vanoni.
Si prosegue con l'unica citazione in tutta la compilation (e non posso che gridare vergogna!) per Enrico Ruggeri, la cui arte ci viene mediata da Loredana Bertè che interpreta il brano "Il mare d'inverno". È una ballata che io (grande ammiratrice di Ruggeri) amo solo dalla sua voce ruvida ma mai banale, mentre la versione della Bertè la trovo piatta e deludente. Il testo invece è un quadro mirabile, che per essere dipinto ha bisogno di una tavolozza piena di colori.
Dopo una traccia a me sconosciuta di Milva ("Oh mamma") si arriva a "Rumore", brano che purtroppo conosco bene perché ho frequentato una persona ammiratrice di Raffaella Carrà. Il brano è il la minore, ma ha il basso testardamente posizionato sopra il do, quindi produce un odioso effetto di dissonanza.
Dal Sanremo 1969 viene l'unica canzone decente di Iva Zanicchi che sia passata per le mie orecchie (insieme a "Testarda io", "Un fiume amaro" e "Se fossi un tango"), ossia "Zingara. La ballata porta l'inconfondibile stile terzinato, che comunque era già interpretato in maniera strutturalmente diversa, con la terzina prevalentemente affidata alla batteria, che comunque spesso evita il colpo intermedio spesso debole. Il brano è interessante per la ricchezza melodica ed armonica.
Dopo due tracce a me sconosciute il cd si conclude con "Ti telefono tutte le sere, un valzerino della produzione di Caterina Caselli, credo collegabile ai suoi inizi.
L'ultimo volume della collezione che dobbiamo analizzare è di nostro capitale interesse, in quanto dedicato al folk, ossia alle rielaborazioni di brani popolari digeriti dal pop o al repertorio d'autore d'ispirazione popolare.
Si inizia con una delle più mirabili ballate della produzione apulo-sicula di Domenico Modugno (difatti le prime versioni dei suoi brani cosiddetti siciliani erano in verità in dialetto brindisino). Il brano che apre la collezione infatti è "Lu pisci spada" (nel sito è scritto "Lu pisce spada"...), grande narrazione epica di una storia d'amore tra due pesci spada che non viene interrotta neanche dalla morte provocata da un pescatore impietoso. La melodia è interessante perché alterna parti in 2/4 su scala minore agli interventi dei pescatori eseguiti rullando su un accordo particolare (fa-sol diesis-re-si).
Ed eccoci al primo canto popolare proveniente dall'Abruzzo, ossia "Vola, vola, vola", valzerino che siascolta a cappella eseguito da due cori del posto.
Dio mio... La terza traccia qualcuno dovrebbe spiegarmi cosa c'entra col folklore. È una spassosa canzoncina che viene dal Festival di Napoli del 1966, che abbiamo il piacere di ascoltare Dalla Voce di Aurelio Fierro, ma è sicuramente d'autore, e il folklore campano ha tutte altre strutture (vedasi la tammurriata). Il brano, strano a dirsi, è comunque più convincente nell'interpretazione del meneghino Giorgio Gaber, dotato di una verve molto maggiore su brani dove conta più l'esser caratteristi che buoni cantanti.
Arrivando in Puglia si ascolta "Lu maritiello" di Tony Sant'Agata, sicuramente spassoso valzerino ma con la stessa tradizionalità o ispirazione tradizionale di una tarantella d'autore scritta da chi non si dedica in fondo al canto di tradizione.
Andando avanti il misfatto si radicalizza ancora, perché abbiamo "Eulalia Torriceli"", canzone risalente al periodo fascista, ma non tradizionale. È spassosa anche questa, e fa comunque piacere ascoltare la bella voce di Tajoli.
Andando avanti, nel pieno spirito del folklore milanese, si ascolta "Oh mia bella Madunina", tango (quindi ritmo tipico della città del nord Italia) cantata da Giovanni D'anzi. Così come si era detto per "Dialetti d'Italia", in queste operazioni si confonde molto il dialettale con il popolare in senso stretto.
E ovviamente inizia il percorso nel liscio, ovviamente in quello massificato delle orchestre con batteria e tutto, non in quello di Melchiade Benni. Lo si fa con un brano dell'Orchestra Bagutti che mi è sconosciuto, intitolato "Casetta bianca".
Il Veneto è rappresentato da un brano sulle gondole, anch'esso a me sconosciuto, dal titolo "Marieta monta in gondola".
Andando avanti si arriva a Roma,e la si presenta come una città di "magnaccioni" (che lo è) con "la società dei mangnaccioni". Nonostante ciò c'è assolutamente da ridire sull'assenza di ogni riferimento ai grandi romani, si chiamino Lando Fiorini (già presente in altri volumi) o Gabriella Ferri (mai citata come interprete di brani folk, ricordata con la sua peggiore parentesi, bravi!)
Ed eccoci con il ritorno a Napoli, tentando di rimediare la figuraccia che è stato omettere Sergio Bruni dal disco "Bella Napoli". Da Sergio Bruni, da molti definito "La voce di Napoli" si ascolta "Reginella", brano di Libero Bovio e Gaetano Lama del 1917.
Tornando al liscio si ascolta Enrico Musiani, che con la sua stupenda voce da controtenore (non sto scherzando, mi piace il suo timbro!) interpreta "Madonnina dai riccioli d'oro", una delle più orride canzoni di liscio che mi sia stato dato di sentire nella mia vita.
Si arriva in Toscana e si assiste ad uno dei pochi atti di giustizia di questo volume, perché, anche se manchiamo completamente a livello di chiarezza di concetti, ricordiamo in una volta due grandi fiorentini: da un lato lo chansonnier Odoardo Spadaro e dall'altro il tenore Carlo Buti, che interpreta "La porti un bacione a Firenze" (nel sito è scritto "Porta un bacione a Firenze"...).
La penultima traccia è una "Calabrisella" interpretata da un gruppo a me sconosciuto, dal nome sicuramente inquietante, ossia Gruppo folk calabro-lucano. Il mio consiglio, da profaziana di ferro quale sono, è di ascoltare la versione del grande Profazio, sia in "Calabria" (con il fratello Vincenzo alla fisarmonica e alle seconde voci) che in "Amuri e pilu", solo chitarra e voce.
Delle isole viene rappresentata solo la Sardegna, ma (almeno lei) viene rappresentata nel miglior modo possibile, dalla grandissima sassarese Maria Carta.
Che dire dopo questa analisi? Io vi ho informati: fate voi.
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venerdì 3 dicembre 2010
Lucio Dalla e Francescde Gregori: "Workinprres"
Carissimi lettori, riesco a mantenere una promessa che feci quando recensì la prima data del tour "Work in progress" di Lucio Dalla e Francesco De Gregori, ossia finalmente riesco a recensire il cd che ne è scaturito.
Il disco in questione si apre con un brano inedito dal titolo "Non basta saper cantare", che fortunatamente ora è stato scelto come singolo per trainare questo disco, per rimediare all'errore che secondo me è stato commesso facendo sì che questo disco fosse annunciato con "Gigolo", uno dei brani più insipidi di Dalla e De Gregori che io abbia mai sentito. Comunque il brano è una ballata che rimanda molto a "Santa Lucia" di Francesco De Gregori, già presente in "Banana republic", di cui questo progetto è un aggiornamento giocoso e bello. Il brano è una di quelle ballads sulla vita che ad entrambi gli autori vengono ancora bene.
Il percorso tra i classici dei due autori inizia con "Tutta la vita" di Lucio Dalla, che viene cantata insieme da entrambi ma più da De Gregori, che gli dà un'essenza fortemente blues o dylaniana. In questa versione il brano riscopre la sua anima latina, tramite l'inclusione di numerose percussioni etniche che rimandano a Cuba. È interessante sentire Dalla che si prodiga nel suo inconfondibile "scat" mentre De Gregori suona un'armonica.
Ed eccoci ad un Francesco De Gregori che ci interpreta "Anna e Marco" con una bellissima tenerezza, che io non gli sentivo da tempo. Quando Dalla entra il canto si sporca, diventa jazzato, perché lui è uno di quelli per cui la musica leggera va arricchita perché opprime ma non si può abbandonare (per motivi economici: forse!).
Comunque in queste occasioni ancora riesco a provare emozioni ascoltando questi due mostri sacri che si stanno divertendo davvero, cosa che la musica cosiddetta leggera non mi trasmette quasi mai.
E con un inizio a tempo di charleston arriva la prima incursione nel repertorio di Francesco De Gregori, con il brano "Titanic". L'atmosfera che si respira è veramente rilassata, libera e liberatoria, i due cantanti intrecciano molto armoniosamente i propri stili, alternando strofe singole a piccole parti a due voci. Nell'ultima strofa è da notare la sostituzione della parola "sposarci" con "provarci".
Ed arriviamo con piacere ad una molto bella versione de "La leva calcistica del '68", introdotta da un graffiante assolo di sassofono di Lucio Dalla. Il canto sembra completamente affidato a De Gregori, mentre Dalla dà delle pennellate di sax contralto, che precedono la sua entrata anche a livello di voce. Il secondo ritornello è affidato a Lucio Dalla, che fa degli interessantissimi finali calanti, dove scende di circa un'ottava e mezzo. Questo effetto, invece di indurire il canto, lo addolcisce, prima di lasciare spazio ad un dialogo tra il sassofono di Dalla ed una chitarra elettrica che si abbandona a fraseggi leggermente blues, subito equilibrati da una certa melodicità.
Il ritorno al repertorio di Dalla si effettua con "Canzone", brano che live perde sempre, seppur è sempre piacevole e leggero. Trovo che niente esalti la dolcezza della melodia come l'orchestrazione che si riscontra nella versione da studio presente nel cd "Canzoni". In questo brano, come vuole la struttura melodica, Dalla viene aiutato da delle coriste molto abili. Le improvvisazioni non sfociano mai in giri che rimandano a stilemi non italiani. È geniale l'imitazione del mandolino da parte di Dalla, che precede un breve intervento di De Gregori, che riscopre il suo avere iniziato come cantante di musica popolare nordamericana ed italiana al folkstudio di Roma. L'ultimo ritornello è diviso tra una parte interpretata a vocalizzi ed un'altra dove il testo viene regolarmente cantato.
Dal repertorio di Dalla viene estratta anche "Enna", brano a cui il cantante è molto legato, mentre invece io non l'ho mai amato. Nonostante ciò devo riconoscere che con questa versione acustica acquista un certo fascino, anche se non mi chiedete d'amarlo (ripeto!). Non amo, credo d'averlo già detto ma con l'occasione lo ribadisco, i brani che mascherano la politica dietro un muro di buoni sentimenti, a questo punto datemi una sincera canzone d'amore (vedi "Frasi d'amore" di Don Backy o "Bell'amore" di De Gregori).
Il brano si chiude con una bruttissima coda rock, dove Dalla dialoga con una banale chitarra elettrica con dei vocalizzi assolutamente indegni di lui.
Quando si torna a cantare De Gregori si interpreta uno dei brani più belli, forti e profondi del cantautore romano, giustamente asceso al grado di classico della canzone italiana. Mi riferisco a "La storia", canzone sulla condizione umana tra le più intime e ben fatte che mi sia dato di conoscere. Molto bello è anche l'intervento di Dalla con il clarinetto, che dialoga con il pianoforte e con il canto semiparlato di De Gregori. È strano sentire un leggero accenno di valzer durante la conclusione, ma qui è tutto bello, niente disturba.
Avevamo parlato dei rimandi che questo disco contiene a "Banana republic". Il brano che continua la scaletta potrebbe rimandare alla title track di quel disco, perché è un ritmo latino dolce e ruffiano. Il brano racconta dei viaggiatori, di quel viaggio che purtroppo fa perdere le radici, cosa che a molti piace in questo mondo dove essere globalizzati pare un obbligo. Bellissimo l'accompagnamento, molto buono anche ilcanto, abbastanza pulito, pieno di melodia italiana. Ancora una volta Lucio Dalla ci delizia con la sua personale riproduzione vocale del "tremolo" del mandolino. Sembra uno di quei brani alla De Gregori, di quelli che raccontano le atmosfere d'inizio Novecento, come "L'abbigliamento del fuochista".
All'inizio di questo articolo avevo citato "Santa Lucia" perché "Non basta saper cantare" me la ricorda, ed eccola qui riscoperta e valorizzata. È emozionante sentire De Gregori che alla fine del suo primo intervento riesegue uno stacco su una "i", tipico dello stile del cantautore romano degli anni Settanta. È un brano pieno di tenerezza e leggerezza, sentimenti di cui l'ascolto di questo disco fa fare incetta.
Quando si torna a prendere in mano il canzoniere di Dalla si ruba una perla ad "Automobili", ovvero "Nuvolari". Dispiace un po' l'abbassamento di ben due toni da sol a mi, ma probabilmente il bolognese non ha più il suo mitico falsetto, e soprattutto in tono originale De Gregori non potrebbe partecipare al canto. De Gregori esegue la prima parte lenta, rallentandola ancora, facendola diventare un po' ambient, ma forse gli dà un'atmosfera che non la raprpesenta. Quando si riprende a ritmo standard, Dalla riprende le redini del canto, con una forte teatralità sulla parola "chiusa", che diventa quasi il perno della frase melodica, prima di un giocoso tentativo di imitazione del rombo della macchina (da parte di Dalla, ovvio!). Dispiace ancora una volta sentire Dalla cantare su note più basse delle sue note naturali, mal'età non perdona nessuno (ancora Zero riesce a fare cose favolose, ma questa è altra musica!).
È un po' deludente il finale, che si chiude su la parte lenta eseguita da De Gregori con le atmosfere ambient di cui sopra.
Il brano successivo è una perla del canzoniere di De Gregori, che viene iniziata da Lucio Dalla. Ci riferiamo a "Viva l'Italia", che perde in parte il suo tocco internazionale in favore di una certa italianità o anche di una certa anima natalizia propiziata dalla presenza dei campanelli (fortunatamente sporadica!). Purtroppo anche qui ritroviamo i deplorati coretti criticati già in occasione della data zero. È da notare la sostituzione della parola "nuda" con il termine "povera". Nel finale De Gregori suona un'armonica in la rigorosamente lamella per lamella, concludendo il brano con una scala sulla posizione di soffio, chiusa da un'interessante tremolo sul terzo la dello strumento.
Ancora dal canzoniere di De Gregori viene "L'agnello di Dio", che acquista un'anima rock, solo in parte addolcita da alcuni particolari dello stile sassofonistico di Dalla, che non è mai completamente americano, poiché Dalla aveva iniziato anche come sassofonista di liscio. In questo brano ci sono molte strofe modificate in profondità. È interessante il trillo dolcissimo che Dalla esegue durante la parte lenta del brano, l'unica che io ho mai amato, in quanto, anche se il brano ha un testo profondo e tagliente non mi è riuscito mai ad arrivare per la sua musica che non mi ha mai convinto. Forse qualcuno di voi lo avrà anche sospettato, per me la prima cosa che mi deve colpire in un brano è la melodia, il testo non basta, arriva comunque dopo.
Un'altra perla di De Gregori continua la scaletta, ovvero la ballata "La valigia dell'attore". La melodia è distesa, larga e così è cantata dall'autore. Interessanti gli archi che danno una cornice classica a questo brano, unica che le si addica effettivamente, come ad ogni pezzo che abbia una struttura sviluppata. La seconda parte del brano, come sempre, è interpretata da Dalla e De Gregori in condivisione, o "a contrapunto", per usare un termine caro alla tradizione dei payadores sudamericani. Quando il brano è cantato da Dalla si tinge di jazz, ma il canto non si sporca mai troppo, il bolognese ha un grande rispetto di ciò che non gli appartiene.
Ed ecco Marco Alemanno, grande amico e compagno inseparabile di Dalla, che all'inizio del secondo disco introduce "L'abbigliamento del fuochista", una delle canzoni ispirate alla tragedia del titanic.
Ed eccoci all'"abbigliamento del fuochista", interpretata in maniera veramente convincente. Il brano è una testimonianza toccante di uno dei lavoratori del Titanic, uno dei tanti italiani che grazie a questa tragedia vedranno trasformata la loro fortuna in fallimento. Queste storie, forse, ci dovrebbero far guardare quelli che ora vengono da noi con altri occhi, anche perché non dovremo aspettare molto tempo per dover scappare un'altra volta da questo paese infido. Interessanti sono stati gli interventi di sassofono, che in questo frangente assumono una matrice eniquivocabilmente liscio.
Quando si torna a cantare Dalla si interpreta una "Disperato erotico stomp", che credo non avesse mai conosciuto versioni dal vivo registrate. Questo brano è giocoso sin dall'inizio, la trasgressione del testo e della tematica si riverbera quasi in ogni singola sfumatura del canto dei due interpreti. Veramente spassoso, anche per la variazione al rif musicale che scandisce il passaggio da strofa a strofa. Favoloso il tentativo (devo dire riuscito!) da parte di De Gregori di imitare uno stile tipico di Dalla sulla parola "grande". Curioso è anche il rallentamento in corrispondenza dell'ultimo quadro esterno, prima del rientro a casa del protagonista, che precede una serie di giochi di allungamenti di frasi con duplicazioni di parole.
Quando si torna a cantare il canzoniere di De Gregori si interpreta "Vai in Africa Celestino", che si addolcisce a livello d'accompagnamento ma dialoga molto più fortemente con la sua matrice profondamente blues a livello di canto. Anche qui ci sono numerose modifiche al testo, una tra tutte "diossina" sostituita con "eroina". Il sassofono di Lucio Dalla in questo frangente forse convince meno, ci sarebbe voluto uno strumentista con una matrice più blues rispetto al bolognese, che comunque suona più in maniera ricollegabile a certo jazz anni Cinquanta.
E quando si pensa a Dalla, si torna alle cose serie (scusate, il pezzo precedente non lo amo!), difatti si esegue "Piazza grande". Il brano acquista una matrice sudamericana, molto generosa nei confronti della melodicità del brano, dove ancora una volta i due cantanti si rimpallano strofe a "contrapunto". De Gregori dipinge un quadro neorealista, aiutato da Dalla che però non resiste mai alla tentazione di entrare con inutili sporcature jazz, e addirittura con uno "scat" davvero opprimente.
Continuando con il repertorio di Dalla recuperiamo "Com'è profondo il mare", che viene iniziata da De Gregori con dolcezza, mentre Dalla risponde con il suo nuovo canto, che secondo me denota comunque stanchezza (checché ne dica lui!), perché solo molto raramente riesce a dare il peso dovuto alla parola, la sua principale maniera di comunicare. Nonostante ciò devo dire che mi piace questa versione, come quasi tutto questo cd, che consiglio nonostante tutti i nei che gli trovo.
Continuando si ha il piacere di ascoltare "L'anno che verrà", uno dei cavalli di battaglia di Dalla, dove c'è la solita tecnica della divisione per strofe, ognuna affidata ad un interprete diverso. È spassosissimo questo brano, fa meno piacere sentire i due timbri combaciare sulla stessa frase melodica in "E si farà l'amore", perché le due voci non hanno nessuna affinità, quindi l'insieme è abbastanza disarmonico. Comunque è bella, se non fosse per un pezzo troppo blues in corrispondenza della parte dove il ritmo latino si dissipa, comunque sono piccolezze.
Tornando a De Gregori si prende in mano un brano che il cantautore romano a dedicato sentitamente a Pier Paolo Pasolini. La dolcezza nostalgica del brano non è intaccata da nessun elemento, veramente perfetta. Se dovessi fare un paragone degregoriano per descrivere l'insieme di questa antologia citerei i tre live usciti tra il 1990 ed il 1991, da me ritenuti insuperabili come schiettezza interpretativa. Questo brano soprattutto ha quel respiro, davvero magico.
Tornando al repertorio di Lucio Dalla, ci viene offerta "Futura", iniziata da De Gregori in maniera al contempo tenera e giocosa. Ancora una volta va detto che l'abbassamento di tonalità beneficia solo De Gregori, proebendo assolutamente a Dalla di esprimersi al suo massimo (anche se comunque al cantautore il timbro è peggiorato a vista d'occhio in questi ultimi anni!).
Ed eccoci ad una "Rimmel", a cui il pubblico partecipa stupito, anche se poi l'orchestrazione che entra nella seconda strofa impedisce di godere qualche volta del canto gioioso della gente comune. L'arrangiamento è tra il country ed il latino, simile insomma a quello di Gianni Morandi, che come ricorderete si è appropriato del brano nel suo pregevole lavoro "Canzoni da non perdere". Questi momenti dovrebbero far capire a De Gregori che ogni arrangiamento è lecito, nello stesso momento in cui non si impedisca all'ascoltatore di godere liberamente dei brani in sede di concerto, atto bello solo se il pubblico ha la possibilità di parteciparvi attivamente, altrimenti tra gli eventi più sterili che può contare la vita attuale.
In questo gioco di rimandi a "bannaa republic", ovviamente non poteva mancare il richiamo alle atmosfere di "Come fanno i marinai", brano che, seppur non concepito per quell'occasione perché già inciso dai due in un 45 giri, ha ritratto come nessuno quel concerto. Il brano che riecheggia quei suoni è "Gigolo", quello che ci ha presentato questo progetto ancora prima che venisse pubblicato. Ho già avuto occasione di dire che trovo che questa interpretazione non sia degna di essere presentata come anteprima di questo progetto, che dopo ci ha fatto scoprire un gioiello come "Non basta saper cantare". Ciononostante è carina, godibile, è misterioso come il swing si arricchisca di rock e di blues senza perdersi.
Tornando ai brani di repertorio di De Gregori si interpreta quel gioiello pianistico assoluto che è "la donna cannone". Il cantautore romano la interpreta con tenerezza assoluta, si crea un'atmosfera raccolta in qualsiasi posto, una sensazione di viaggio verso sentieri sconosciuti. Era da molto che non ritrovavo un De Gregori così ispirato, divertito e tenero, davvero magica questa ballata tristemente circense. È da notare che difatti la comicità ispira alle anime sensibili grandissima tristezza, basti pensare alla nuova e bellissima canzone di Francesco Guccini dal titolo "Iltestamento del pagliaccio", dalla quale si evince che un pagliaccio è una persona profondamente sensibile, se quest'arte non è applicata fuori contesto. È bello sentire che la gente canta, inclinazione che andrebbe riscoperta, perché il canto apre e rasserena l'anima.
Tornando al canzoniere di Dalla troviamo una canzone indubbiamente bella anche se secondo me molto anzi troppo sopravvalutata. Mi riferisco a "Caruso", che ha talmente influito sull'immaginario collettivo che la si cataloga anche come canzone napoletana, mentre secondo me è solo una canzone ispirata a Napoli e ad un tenore che legò molta sua vicenda alla bella Partenope seppur nemmeno napoletano. L'interpretazione che se ne ascolta è abbastanza buona, anche se si assiste al balletto degli abbassamenti di tono, che sicuramente tolgono espressività ad una melodia concepita come omaggio grato e rispettoso al "bel canto" all'italiana.
Discutibile è anche il riverbero che contraddistingue il ritornello, dandogli un che di misterioso e si direbbe quasi allucinato, che secondo me non gli si confà per niente.
Alcuni musicisti italiani, quando sono un po' stanchi e non hanno idee, si buttano sul blues, per il quale, secondo Paolo Conte, noi non abbiamo cultura (ovviamente io do ragione all'avvocato di Asti!). Siccome Francesco De Gregori si è stancato (lo ha detto svariate volte) di "Buonanotte fiorellino" l'ha portata a blues, che tanto il valzer è il blues degli europei quindi sta bene (sono questi discorsi sconclusionati di chi giustifica gli sperimentatori da quattro soldi che lavorano così!). Come state capendo questa è l'unica nota veramente dolente di questo disco e di questo concerto. Pietoso è il finale dove i due cantanti giocano con le voci per scimmiottare ancora meglio i cantanti americani (per favore trovatemi un cantante americano che canti all'italiana, ve ne prego!).
Nonostante quest'ultima nota fortemente polemica è un bel disco che continua con un brano misterioso, che si scopre essere una bella versione di "Generale". In questo caso il brano si esegue rispettosamente, seppur con il mitico giro strumentale trasformato o rarefatto. Il canto in questo caso è dolce, non si vuole imitare nessuno, ci si vuole presentare per quello che si è, con molta schiettezza (grazie a Dio!).
Buon ascolto che non ve ne pentirete!
Il disco in questione si apre con un brano inedito dal titolo "Non basta saper cantare", che fortunatamente ora è stato scelto come singolo per trainare questo disco, per rimediare all'errore che secondo me è stato commesso facendo sì che questo disco fosse annunciato con "Gigolo", uno dei brani più insipidi di Dalla e De Gregori che io abbia mai sentito. Comunque il brano è una ballata che rimanda molto a "Santa Lucia" di Francesco De Gregori, già presente in "Banana republic", di cui questo progetto è un aggiornamento giocoso e bello. Il brano è una di quelle ballads sulla vita che ad entrambi gli autori vengono ancora bene.
Il percorso tra i classici dei due autori inizia con "Tutta la vita" di Lucio Dalla, che viene cantata insieme da entrambi ma più da De Gregori, che gli dà un'essenza fortemente blues o dylaniana. In questa versione il brano riscopre la sua anima latina, tramite l'inclusione di numerose percussioni etniche che rimandano a Cuba. È interessante sentire Dalla che si prodiga nel suo inconfondibile "scat" mentre De Gregori suona un'armonica.
Ed eccoci ad un Francesco De Gregori che ci interpreta "Anna e Marco" con una bellissima tenerezza, che io non gli sentivo da tempo. Quando Dalla entra il canto si sporca, diventa jazzato, perché lui è uno di quelli per cui la musica leggera va arricchita perché opprime ma non si può abbandonare (per motivi economici: forse!).
Comunque in queste occasioni ancora riesco a provare emozioni ascoltando questi due mostri sacri che si stanno divertendo davvero, cosa che la musica cosiddetta leggera non mi trasmette quasi mai.
E con un inizio a tempo di charleston arriva la prima incursione nel repertorio di Francesco De Gregori, con il brano "Titanic". L'atmosfera che si respira è veramente rilassata, libera e liberatoria, i due cantanti intrecciano molto armoniosamente i propri stili, alternando strofe singole a piccole parti a due voci. Nell'ultima strofa è da notare la sostituzione della parola "sposarci" con "provarci".
Ed arriviamo con piacere ad una molto bella versione de "La leva calcistica del '68", introdotta da un graffiante assolo di sassofono di Lucio Dalla. Il canto sembra completamente affidato a De Gregori, mentre Dalla dà delle pennellate di sax contralto, che precedono la sua entrata anche a livello di voce. Il secondo ritornello è affidato a Lucio Dalla, che fa degli interessantissimi finali calanti, dove scende di circa un'ottava e mezzo. Questo effetto, invece di indurire il canto, lo addolcisce, prima di lasciare spazio ad un dialogo tra il sassofono di Dalla ed una chitarra elettrica che si abbandona a fraseggi leggermente blues, subito equilibrati da una certa melodicità.
Il ritorno al repertorio di Dalla si effettua con "Canzone", brano che live perde sempre, seppur è sempre piacevole e leggero. Trovo che niente esalti la dolcezza della melodia come l'orchestrazione che si riscontra nella versione da studio presente nel cd "Canzoni". In questo brano, come vuole la struttura melodica, Dalla viene aiutato da delle coriste molto abili. Le improvvisazioni non sfociano mai in giri che rimandano a stilemi non italiani. È geniale l'imitazione del mandolino da parte di Dalla, che precede un breve intervento di De Gregori, che riscopre il suo avere iniziato come cantante di musica popolare nordamericana ed italiana al folkstudio di Roma. L'ultimo ritornello è diviso tra una parte interpretata a vocalizzi ed un'altra dove il testo viene regolarmente cantato.
Dal repertorio di Dalla viene estratta anche "Enna", brano a cui il cantante è molto legato, mentre invece io non l'ho mai amato. Nonostante ciò devo riconoscere che con questa versione acustica acquista un certo fascino, anche se non mi chiedete d'amarlo (ripeto!). Non amo, credo d'averlo già detto ma con l'occasione lo ribadisco, i brani che mascherano la politica dietro un muro di buoni sentimenti, a questo punto datemi una sincera canzone d'amore (vedi "Frasi d'amore" di Don Backy o "Bell'amore" di De Gregori).
Il brano si chiude con una bruttissima coda rock, dove Dalla dialoga con una banale chitarra elettrica con dei vocalizzi assolutamente indegni di lui.
Quando si torna a cantare De Gregori si interpreta uno dei brani più belli, forti e profondi del cantautore romano, giustamente asceso al grado di classico della canzone italiana. Mi riferisco a "La storia", canzone sulla condizione umana tra le più intime e ben fatte che mi sia dato di conoscere. Molto bello è anche l'intervento di Dalla con il clarinetto, che dialoga con il pianoforte e con il canto semiparlato di De Gregori. È strano sentire un leggero accenno di valzer durante la conclusione, ma qui è tutto bello, niente disturba.
Avevamo parlato dei rimandi che questo disco contiene a "Banana republic". Il brano che continua la scaletta potrebbe rimandare alla title track di quel disco, perché è un ritmo latino dolce e ruffiano. Il brano racconta dei viaggiatori, di quel viaggio che purtroppo fa perdere le radici, cosa che a molti piace in questo mondo dove essere globalizzati pare un obbligo. Bellissimo l'accompagnamento, molto buono anche ilcanto, abbastanza pulito, pieno di melodia italiana. Ancora una volta Lucio Dalla ci delizia con la sua personale riproduzione vocale del "tremolo" del mandolino. Sembra uno di quei brani alla De Gregori, di quelli che raccontano le atmosfere d'inizio Novecento, come "L'abbigliamento del fuochista".
All'inizio di questo articolo avevo citato "Santa Lucia" perché "Non basta saper cantare" me la ricorda, ed eccola qui riscoperta e valorizzata. È emozionante sentire De Gregori che alla fine del suo primo intervento riesegue uno stacco su una "i", tipico dello stile del cantautore romano degli anni Settanta. È un brano pieno di tenerezza e leggerezza, sentimenti di cui l'ascolto di questo disco fa fare incetta.
Quando si torna a prendere in mano il canzoniere di Dalla si ruba una perla ad "Automobili", ovvero "Nuvolari". Dispiace un po' l'abbassamento di ben due toni da sol a mi, ma probabilmente il bolognese non ha più il suo mitico falsetto, e soprattutto in tono originale De Gregori non potrebbe partecipare al canto. De Gregori esegue la prima parte lenta, rallentandola ancora, facendola diventare un po' ambient, ma forse gli dà un'atmosfera che non la raprpesenta. Quando si riprende a ritmo standard, Dalla riprende le redini del canto, con una forte teatralità sulla parola "chiusa", che diventa quasi il perno della frase melodica, prima di un giocoso tentativo di imitazione del rombo della macchina (da parte di Dalla, ovvio!). Dispiace ancora una volta sentire Dalla cantare su note più basse delle sue note naturali, mal'età non perdona nessuno (ancora Zero riesce a fare cose favolose, ma questa è altra musica!).
È un po' deludente il finale, che si chiude su la parte lenta eseguita da De Gregori con le atmosfere ambient di cui sopra.
Il brano successivo è una perla del canzoniere di De Gregori, che viene iniziata da Lucio Dalla. Ci riferiamo a "Viva l'Italia", che perde in parte il suo tocco internazionale in favore di una certa italianità o anche di una certa anima natalizia propiziata dalla presenza dei campanelli (fortunatamente sporadica!). Purtroppo anche qui ritroviamo i deplorati coretti criticati già in occasione della data zero. È da notare la sostituzione della parola "nuda" con il termine "povera". Nel finale De Gregori suona un'armonica in la rigorosamente lamella per lamella, concludendo il brano con una scala sulla posizione di soffio, chiusa da un'interessante tremolo sul terzo la dello strumento.
Ancora dal canzoniere di De Gregori viene "L'agnello di Dio", che acquista un'anima rock, solo in parte addolcita da alcuni particolari dello stile sassofonistico di Dalla, che non è mai completamente americano, poiché Dalla aveva iniziato anche come sassofonista di liscio. In questo brano ci sono molte strofe modificate in profondità. È interessante il trillo dolcissimo che Dalla esegue durante la parte lenta del brano, l'unica che io ho mai amato, in quanto, anche se il brano ha un testo profondo e tagliente non mi è riuscito mai ad arrivare per la sua musica che non mi ha mai convinto. Forse qualcuno di voi lo avrà anche sospettato, per me la prima cosa che mi deve colpire in un brano è la melodia, il testo non basta, arriva comunque dopo.
Un'altra perla di De Gregori continua la scaletta, ovvero la ballata "La valigia dell'attore". La melodia è distesa, larga e così è cantata dall'autore. Interessanti gli archi che danno una cornice classica a questo brano, unica che le si addica effettivamente, come ad ogni pezzo che abbia una struttura sviluppata. La seconda parte del brano, come sempre, è interpretata da Dalla e De Gregori in condivisione, o "a contrapunto", per usare un termine caro alla tradizione dei payadores sudamericani. Quando il brano è cantato da Dalla si tinge di jazz, ma il canto non si sporca mai troppo, il bolognese ha un grande rispetto di ciò che non gli appartiene.
Ed ecco Marco Alemanno, grande amico e compagno inseparabile di Dalla, che all'inizio del secondo disco introduce "L'abbigliamento del fuochista", una delle canzoni ispirate alla tragedia del titanic.
Ed eccoci all'"abbigliamento del fuochista", interpretata in maniera veramente convincente. Il brano è una testimonianza toccante di uno dei lavoratori del Titanic, uno dei tanti italiani che grazie a questa tragedia vedranno trasformata la loro fortuna in fallimento. Queste storie, forse, ci dovrebbero far guardare quelli che ora vengono da noi con altri occhi, anche perché non dovremo aspettare molto tempo per dover scappare un'altra volta da questo paese infido. Interessanti sono stati gli interventi di sassofono, che in questo frangente assumono una matrice eniquivocabilmente liscio.
Quando si torna a cantare Dalla si interpreta una "Disperato erotico stomp", che credo non avesse mai conosciuto versioni dal vivo registrate. Questo brano è giocoso sin dall'inizio, la trasgressione del testo e della tematica si riverbera quasi in ogni singola sfumatura del canto dei due interpreti. Veramente spassoso, anche per la variazione al rif musicale che scandisce il passaggio da strofa a strofa. Favoloso il tentativo (devo dire riuscito!) da parte di De Gregori di imitare uno stile tipico di Dalla sulla parola "grande". Curioso è anche il rallentamento in corrispondenza dell'ultimo quadro esterno, prima del rientro a casa del protagonista, che precede una serie di giochi di allungamenti di frasi con duplicazioni di parole.
Quando si torna a cantare il canzoniere di De Gregori si interpreta "Vai in Africa Celestino", che si addolcisce a livello d'accompagnamento ma dialoga molto più fortemente con la sua matrice profondamente blues a livello di canto. Anche qui ci sono numerose modifiche al testo, una tra tutte "diossina" sostituita con "eroina". Il sassofono di Lucio Dalla in questo frangente forse convince meno, ci sarebbe voluto uno strumentista con una matrice più blues rispetto al bolognese, che comunque suona più in maniera ricollegabile a certo jazz anni Cinquanta.
E quando si pensa a Dalla, si torna alle cose serie (scusate, il pezzo precedente non lo amo!), difatti si esegue "Piazza grande". Il brano acquista una matrice sudamericana, molto generosa nei confronti della melodicità del brano, dove ancora una volta i due cantanti si rimpallano strofe a "contrapunto". De Gregori dipinge un quadro neorealista, aiutato da Dalla che però non resiste mai alla tentazione di entrare con inutili sporcature jazz, e addirittura con uno "scat" davvero opprimente.
Continuando con il repertorio di Dalla recuperiamo "Com'è profondo il mare", che viene iniziata da De Gregori con dolcezza, mentre Dalla risponde con il suo nuovo canto, che secondo me denota comunque stanchezza (checché ne dica lui!), perché solo molto raramente riesce a dare il peso dovuto alla parola, la sua principale maniera di comunicare. Nonostante ciò devo dire che mi piace questa versione, come quasi tutto questo cd, che consiglio nonostante tutti i nei che gli trovo.
Continuando si ha il piacere di ascoltare "L'anno che verrà", uno dei cavalli di battaglia di Dalla, dove c'è la solita tecnica della divisione per strofe, ognuna affidata ad un interprete diverso. È spassosissimo questo brano, fa meno piacere sentire i due timbri combaciare sulla stessa frase melodica in "E si farà l'amore", perché le due voci non hanno nessuna affinità, quindi l'insieme è abbastanza disarmonico. Comunque è bella, se non fosse per un pezzo troppo blues in corrispondenza della parte dove il ritmo latino si dissipa, comunque sono piccolezze.
Tornando a De Gregori si prende in mano un brano che il cantautore romano a dedicato sentitamente a Pier Paolo Pasolini. La dolcezza nostalgica del brano non è intaccata da nessun elemento, veramente perfetta. Se dovessi fare un paragone degregoriano per descrivere l'insieme di questa antologia citerei i tre live usciti tra il 1990 ed il 1991, da me ritenuti insuperabili come schiettezza interpretativa. Questo brano soprattutto ha quel respiro, davvero magico.
Tornando al repertorio di Lucio Dalla, ci viene offerta "Futura", iniziata da De Gregori in maniera al contempo tenera e giocosa. Ancora una volta va detto che l'abbassamento di tonalità beneficia solo De Gregori, proebendo assolutamente a Dalla di esprimersi al suo massimo (anche se comunque al cantautore il timbro è peggiorato a vista d'occhio in questi ultimi anni!).
Ed eccoci ad una "Rimmel", a cui il pubblico partecipa stupito, anche se poi l'orchestrazione che entra nella seconda strofa impedisce di godere qualche volta del canto gioioso della gente comune. L'arrangiamento è tra il country ed il latino, simile insomma a quello di Gianni Morandi, che come ricorderete si è appropriato del brano nel suo pregevole lavoro "Canzoni da non perdere". Questi momenti dovrebbero far capire a De Gregori che ogni arrangiamento è lecito, nello stesso momento in cui non si impedisca all'ascoltatore di godere liberamente dei brani in sede di concerto, atto bello solo se il pubblico ha la possibilità di parteciparvi attivamente, altrimenti tra gli eventi più sterili che può contare la vita attuale.
In questo gioco di rimandi a "bannaa republic", ovviamente non poteva mancare il richiamo alle atmosfere di "Come fanno i marinai", brano che, seppur non concepito per quell'occasione perché già inciso dai due in un 45 giri, ha ritratto come nessuno quel concerto. Il brano che riecheggia quei suoni è "Gigolo", quello che ci ha presentato questo progetto ancora prima che venisse pubblicato. Ho già avuto occasione di dire che trovo che questa interpretazione non sia degna di essere presentata come anteprima di questo progetto, che dopo ci ha fatto scoprire un gioiello come "Non basta saper cantare". Ciononostante è carina, godibile, è misterioso come il swing si arricchisca di rock e di blues senza perdersi.
Tornando ai brani di repertorio di De Gregori si interpreta quel gioiello pianistico assoluto che è "la donna cannone". Il cantautore romano la interpreta con tenerezza assoluta, si crea un'atmosfera raccolta in qualsiasi posto, una sensazione di viaggio verso sentieri sconosciuti. Era da molto che non ritrovavo un De Gregori così ispirato, divertito e tenero, davvero magica questa ballata tristemente circense. È da notare che difatti la comicità ispira alle anime sensibili grandissima tristezza, basti pensare alla nuova e bellissima canzone di Francesco Guccini dal titolo "Iltestamento del pagliaccio", dalla quale si evince che un pagliaccio è una persona profondamente sensibile, se quest'arte non è applicata fuori contesto. È bello sentire che la gente canta, inclinazione che andrebbe riscoperta, perché il canto apre e rasserena l'anima.
Tornando al canzoniere di Dalla troviamo una canzone indubbiamente bella anche se secondo me molto anzi troppo sopravvalutata. Mi riferisco a "Caruso", che ha talmente influito sull'immaginario collettivo che la si cataloga anche come canzone napoletana, mentre secondo me è solo una canzone ispirata a Napoli e ad un tenore che legò molta sua vicenda alla bella Partenope seppur nemmeno napoletano. L'interpretazione che se ne ascolta è abbastanza buona, anche se si assiste al balletto degli abbassamenti di tono, che sicuramente tolgono espressività ad una melodia concepita come omaggio grato e rispettoso al "bel canto" all'italiana.
Discutibile è anche il riverbero che contraddistingue il ritornello, dandogli un che di misterioso e si direbbe quasi allucinato, che secondo me non gli si confà per niente.
Alcuni musicisti italiani, quando sono un po' stanchi e non hanno idee, si buttano sul blues, per il quale, secondo Paolo Conte, noi non abbiamo cultura (ovviamente io do ragione all'avvocato di Asti!). Siccome Francesco De Gregori si è stancato (lo ha detto svariate volte) di "Buonanotte fiorellino" l'ha portata a blues, che tanto il valzer è il blues degli europei quindi sta bene (sono questi discorsi sconclusionati di chi giustifica gli sperimentatori da quattro soldi che lavorano così!). Come state capendo questa è l'unica nota veramente dolente di questo disco e di questo concerto. Pietoso è il finale dove i due cantanti giocano con le voci per scimmiottare ancora meglio i cantanti americani (per favore trovatemi un cantante americano che canti all'italiana, ve ne prego!).
Nonostante quest'ultima nota fortemente polemica è un bel disco che continua con un brano misterioso, che si scopre essere una bella versione di "Generale". In questo caso il brano si esegue rispettosamente, seppur con il mitico giro strumentale trasformato o rarefatto. Il canto in questo caso è dolce, non si vuole imitare nessuno, ci si vuole presentare per quello che si è, con molta schiettezza (grazie a Dio!).
Buon ascolto che non ve ne pentirete!
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