lunedì 16 marzo 2009

Parlando di Zoè

Sinceramente l’avrei voluto evitare, ma dato che sono mesi che leggo opinioni di gente che senza competenze ne parla male, eccomi qua a sfogare tutta la mia indignazione, solo per il gusto di essere a posto con la mia coscienza. Io non sono una di quelle ammiratrici ad oltranza dei gruppi musicali, anzi la mia storia con gli Zoè è stata molto travagliata. Ho infatti avuto il mio primo contatto con l’ensemble tre anni fa, quando, in una raccolta di pizziche salentine mi sono imbattuta nel Santu Paulu I. Mi ricordo che fu amore a prima vista, perché il gruppo era bravo ed era anche fortemente diverso dall’unico che conoscevo sino allora: gli Aramirè. “Terra”, il primo cd del gruppo che ho ascoltato, mi ha aperto gli occhi su delle possibilità reinterpretative insospettate. Mentre Raheli con il suo violino quasi imitava Stifani, Inchingolo, che ha veramente imparato dal maestro di Nardò, si lasciava andare ad improvvisazioni che né allora né adesso, con la mia cultura sulla pizzica sicuramente aumentata, saprei etichettare. Fatto sta che questo sound “Zoè” mi fece innamorare, anche se poi non ebbi la curiosità di cercare i due cd che erano venuti dopo. con il passare del tempo, un po’ condizionata da chi mi stava intorno un po’ perché trovavo grandissimi difetti in “Terra” perfino in giri che avevo amato, è venuta naturale l’erezione di un “muro” che poi sarebbe stato sgretolato da quella che tutt’ora è la mia canzone preferita dell’”Officina” (Zoè non lo dico mai): “menevò”.Quando mi è arrivato tra le mani questo pezzo, stavo quasi per dire addio alla pizzica: mi ero un po’ stufata di quello schematismo che mi sembrava di sentire soprattutto per quanto riguardava il modo di cantare e di usare e dividere le frasi e le parole (non ascoltavo ancora gli anziani, che insieme ai tanto detestati Zoè sono i miei preferiti). In questa canzone, di cui io per circa tre mesi non ho capito una parola, tramite l’interpretazione di Cinzia Marzo (di cui per fortuna finalmente ho letto una buona valutazione), ho intuito che avrebbe avuto un testo molto bello. Da lì è stato solo riascoltare “terra”, avere “Crita”, impazzire con “Il Miracolo” (testi inclusi) e scoprire un pochino “sangue vivo”, oltre a vedermeli in concerto. Devo dire che di questi eventi il più folgorante è stato il concerto, visto a Torrepaduli, davanti al santuario di San Rocco il 14 agosto di due anni fa, in cui ho avuto il piacere di scoprire la coerenza dell’”Officina”. Infatti, mentre Raheli aveva tuonato dal palco della “Sagra della municeddra” di Cannole sulla necessità di riscoprire le voci, Zoè l’aveva effettivamente fatto, dando vita a controcanti forse non molto tradizionali perché se vi mettete ad analizzare gli anziani non cantano sempre per terze salentine, ma comunque bellissimi. Mi piacerebbe poi farvi notare che l’Officina si è denudata di elementi coreografici (il vostro beneamato Zimba!), per creare un gruppo in cui effettivamente ci sia parità anche perché suonano sempre insieme e non c’è in loro questa necessità dell’assolo lungo quasi estenuante (vedasi Alla Bua). Dopo il concerto di Torrepaduli, li ho rivisti a Roma (senza amplificazione) ed ho potuto costatare la loro profonda umanità e la loro vera voglia di suonare. Mi piacerebbe vedere quale altro gruppo, affermato come loro, avrebbe accettato o voluto suonare in quelle condizioni. Eravamo in un posto grande, è stato più quello che si è perso che quello che si è sentito, ma questa è la musica popolare. Quella sera in più ho potuto parlare lungamente con Cinzia Marzo, scoprendo la sua cultura musicale e la sua curiosità sconfinata. Io sono una cultrice di fado e lei se ne è venuta fuori con una fadista di strada (non posso riportare il nome sennò sbaglio la scrittura), che a lei piacque talmente tanto che… nacque così l’intro di “Menevò.”. folgorata dalla sua semplicità e dalla sua umiltà, mi venne poi in mente, coadiuvata da un amico, di spedirle un piccolo attestato di riconoscimento per tutte le emozioni che mi aveva dato sia dal vivo che su disco (soprattutto in concerto e parlandoci). Quando di recente è venuta a Perugia (23 agosto 2007) mi sono sentita dire che non solo aveva ascoltato ed aveva gradito, ma mi aveva paragonato a Rosa Balistreri (conoscetela così capite qualcosa). Credo Poi che gli errori di frasi non esistano in musica popolare: non siete voi di “pizzicata” a condannare ogni forma di schematizzazione eccessiva? Se lo facesse il vostro beneamato Uccio Aloisi che si vende alla Notte della Taranta e poi condanna la riproposta lo condannereste? Probabilmente no! Sinceramente mi sono stancata di leggere le vostre polemiche sterili, tanto è vero che nessuno di voi troverà mai un mio scritto su quel sito. Tornando a Zoè, non hanno bisogno di voi per essere i migliori del mondo: d’altronde quando un gruppo prende il volo pur rispettando la tradizione non so perché ma sta quasi automaticamente sulle scatole a più di uno. Potreste dirmi chi ha introdotto il mediterraneo (vero!) nella pizzica? Naturalmente gli Zoè. Potreste dirmi chi ha fatto il primo esperimento di musica d’autore salentina pur restando nel solco della pizzica e della stornellata? Naturalmente Zoè. Chi è che ha permesso a tutti gli altri gruppi di andare all’estero, andando ad esempio in Corea una decina di anni fa? Zoè! Ultimo sfogo. Questa la dedico proprio a loro: complimentoni per la colonna sonora di “Come a Cassano”, stupenda sintesi tra la semplicità di “Sangue vivo” e la salentinità profonda de “Il Miracolo”.La perugina pizzicata.

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