lunedì 27 aprile 2009

Officina zoè: Terra

Carissimi lettori, voglio togliermi una spina dal fianco, oltre a sancire il mio debito di gratitudine con un cd che non riesco ad ascoltare ormai da diverso tempo. Mi riferisco a "Terra" degli Officina Zoè. Questa non sarà una recensione dove si citino i menhir o i messapi, si parlerà concretamente, con un certo trasporto ma scientificamente di musica salentina, tramite una delle sue vette.
Il cd, ed è uno dei motivi che lo fa amare tanto a persone che solo per questo si ritengono cultori di musica popolare, è stato inciso, completamente autoprodotto perché ancora la musica etnica non faceva gola agli amministratori locali, dal gruppo tricasino Officina Zoè. L'album è del 1997, quindi viene prima della tarantamania, e si può dire, credo non a torto, che molti scempi fatti alla Notte Della Taranta, nella parte leggera del concertone, siano frutto di interpretazioni distorte o sommarie delle idee che vi si espongono. Non è, infatti, un cd dove il folklore non sia sfidato a convivere sia con il passato profondo che con il presente del Salento. Non è sicuramente un disco da cartolina, né è vittima, però, di questo cliché tipicamente tarantapoweriano, del "bisogna contaminare con la contemporaneità". Piuttosto, dimostra ai signori su citati, che qualsiasi suono, anche un oud mediorientale, può essere contemporaneo, per il solo fatto che si scelga di inserirlo in modo creativo in una musica che non gli appartiene per storia, i cui geni, però, gli sono molto vicini.
Io sono grata a questo disco, per avermi insegnato a creare rispettosamente, a rielaborare senza stravolgere troppo il passato di una musica che ha già almeno ottocento anni di storia, da cui, spesso, dall'alto della nostra maledetta contemporaneità, non vogliamo imparare più niente.
La formazione dell'"Officina" che lo ha inciso è, e questa è la ragione principale del mio allontanamento, troppo "sbilanciata" verso le percussioni (addirittura nelle pizziche, oltre ai due tamburelli che battono molto forte, troviamo anche le nacchere ed i cucchiai che eseguono una terzina completa) ed i plettri, mancando completamente di strumenti a mantice, che secondo me sono l'elemento fondamentale del nostro folklore. Credo poi che il gruppo sia stato un po' sommario, facendoci immaginare le pizziche come qualcosa di molto ripetitivo anche a livello di improvvisazioni all'interno dei brani. E' vero, spesso e volentieri Stifani faceva sempre lo stesso giro di "tarantata", ma la riproposta ha il dovere di ampliare lo spettro, mostrandoci le principali melodie di una tradizione, non solo quelle del maestro che il suonatore ha concretamente avuto.
Nonostante questa pleiade di difetti, che potrebbe far pensare ad una stroncatura completa, ovviamente questo non me lo posso permettere, perché, se io suono ciò che suono durante una pizzica ed ho un certo spettro di "ricreazione" del genere, lo devo in grandissima misura a questo cd.
Voglio quindi portarvi, brano per brano, anche utilizzando il linguaggio tecnico, perché non è detto che chi non è musicista debba restare ignorante di musica.
Il cd si apre con quello che è stato il primo brano da me ascoltato degli Officina Zoè, "Santu Paulu I". In questa pizzica, suonata qui con una breve parte accompagnata dalle corde prima dell'entrata dell'ensemble completo, c'è un sapientissimo riassunto, non manca neanche una fase, del percorso che faceva la "tarantata", (non sto qui a spiegarvi cos'è, provate a dare un'occhiata al web e vedrete che cercando tarantata o tarantismo verranno fuori una miriade di risultati, spesso scadenti ma bastevoli a capire), dal morso alla possessione, arrivando poi alla guarigione. Qui, come nelle prime quattro pizziche del cd, è fondamentale il violino di Ruggero Inchingolo, tra i primi ad aver imparato dal barbiere violinista. La melodia del brano, anche per il successo del cd che ormai si continua a vendere ininterrottamente da anni, è diventata una delle più toccate, rifatte e rovinate della tradizione salentina. Tra le strofe, per dimostrare che l'"Officina" fa ricerca e non copia dagli altri, mi va di segnalare una interessante coppia di versi ripresi direttamente dalla "Terra del rimorso" di De Martino, il quale a sua volta la riprende da uno scritto del '600. Nella strofa, con la solita semplicità disarmante che ha chi ha studiato poco, si semplifica tutto il tarantismo, che vi giuro è complesso, al semplice effetto di una bevuta di troppo. ("Non fu taranta né fu tarantellaca fu lu vinu de la garrettella").
Con questo, però, non si arriva a quelle teorie di negazione del fenomeno che certi studiosi mettono in giro per non averlo capito, se ne relativizza l'entità, il che è molto diverso. In questo brano, interpretato come voce solista dalla leader del gruppo (lei si arrabbierebbe molto ma questa è la verità) Cinzia Marzo, vi è , alla fine, una ripresa del tipico giro che Luigi Stifani, ultimo musicoterapeuta del tarantismo, eseguiva per curare le tarantate. La Marzo, qui, ne dà un esempio vocale, ispirandosi, anche se inserendosi in tutt'altro contesto, alla pizzica voce e tamburo, con soli vocalizzi, eseguita dalla tamburellista "storica" di Stifani, Salvatora Marzo.
Subito dopo arriva una delle versioni più mirabili (per me è la più mirabile, bando agli indugi!) di "Quannu camini tie". Questa è una serenata, che secondo quanto dice l'"Officina" è ispirata ad un canto di carrettieri, risalente addirittura a quando ancora il popolo non si era convinto del fatto che la terra girasse ed il sole stesse fermo. ("Me fa girare comu gira lu sule"). Io non conosco versioni tradizionali di questo brano, ma trovo che questa sia perfetta, in quanto qui si crea un'armonia tale tra musica e testo, che la barriera linguistica, che per chi non è abituato al salentino è davvero forte, viene distrutta. Oltretutto, nonostante che il brano sia cantato da una donna mentre è connotato come un brano di corteggiamento, attività storicamente eseguita da uomini, non perde assolutamente la sua aria inequivocabilmente romantica. Anzi, si può dire, che tra gli arabeschi del canto, già preparatori delle libertà che Cinzia sta imparando a prendersi ultimamente, che poi sono completamente nello spirito della vera tradizione, e le scale arabe, con il quarto grado aumentato di un semitono, presentate dall'oud di Inchingolo, si crea un unicum magico, che attira il brano verso il passato più antico del Salento, andando però anche verso il suo presente. Qui, ed il merito va riconosciuto sia a "Zimba" (storico tamburellista del gruppo scomparso poco più di un anno fa, qui incaricato di suonare le nacchere) che a Lamberto Probo (incaricato, credo, di suonare i tamburi a cornice), le percussioni dànno semplicemente un tappeto affinché le corde possano dialogare con la voce.
Subito dopo, arriva una "pizzica tarantata", esempio dei giri tipici di Luigi Stifani. E' strumentale, la si esegue con molto impeto, ma forse di tradizionale c'è ben poco. Il grande merito del brano, è che, tra le versioni di "riproposta", è l'unica a contenere un'intervallo di seconda aumentata, che Stifani eseguiva regolarmente, che non viene mai ripreso nemmeno dai signori che tutt'ora eseguono questo pezzo con il violino scordato (cacofonia pura!).
Eccoci all'unico brano in grecanico (lingua sulla cui origine si sa poco, molto simile al greco antico), intitolato "Nia, nia, nia". Il pezzo in questione, e va precisato perché uno dei pezzi più rovinati e comuni della tradizione salentina è la pizzica dallo stesso titolo, non ha niente a che vedere con quella filastrocca scanzonata, la cui migliore versione è quella del cd "Stella lucente" degli Alla Bua. Il brano griko di Zoè, è una delle più accorate ninnenanne che io conosca, che fa capire quanta importanza questo genere avesse nel mondo tradizionale. E' una madre che, per addormentare i suoi figli, augura loro di avere una sorte migliore di quella che le è toccata. Il gruppo, in questa versione, dà letteralmente, per lo meno sul fronte strumentale, una lezione impagabile su come si fanno le serenate o i pezzi dolci in genere. A livello di canto, invece, trovo che la voce di Cinzia sia un po' troppo potente, rinunciando, e data la sua proverbiale timidezza potrei dire vergognandosi, della dolcezza che le è consona.
Si prosegue poi con un brano di cui ignoro versioni tradizionali, intitolato "Canuscu na carusa". Penso di non sbagliarmi troppo, se dico che la versione che descriviamo è la prima "riproposta". E' interpretata a pizzica, con la voce solista di Lamberto Probo, tamburellista di Zoè. L'interpretazione non è delle migliori, mi scusasse la sincerità, perché vi sono numerose stonature, che in un contesto di esibizione "spettacolare" di musica contadina sinceramente reggo poco. Il testo, comunque, è uno dei tanti di corteggiamento, poco romantico ed un po' malizioso ed esagerato, presenti nella tradizione popolare.
Subito dopo troviamo il primo brano interpretato da Raffaella Aprile, una delle prime componenti degli Zoè "storici" a gettare la spugna. Il brano, ripreso paro paro a livello di testo e melodia dall'"Italian treasury Puglia: the Salento" di Alan Lomax, è una tarantella maliziosa, che in Zoè acquista una raffinatezza forse esagerata, data anche dai dialoghi magari un po' pretenziosi tra oud mediorientale e mandolino italiano.
Ecco qui "Lu rusciu de lu mare", cavallo di battaglia di qualsiasi gruppo che faccia questo genere di musica. Questa ballata, di cui non si sa più di tanto sull'origine, è un po' "turchesca", quindi Zoè ci ha giocato, facendo un arrangiamento dove la tradizione salentina scompare, per volatilizzarsi nel suo passato più antico e profondo. Non so descrivervi i ritmi che Zoè usa, rischierei di andare troppo lontano con la mente e la fantasia, quindi andiamo avanti.
Nel Salento, lo si fa ancora ma ora lo fanno gli emigrati, i nostri nuovi schiavi, si raccoglieva il tabacco. L'officina Zoè, come ottava traccia del cd, ci regala una commovente, anche se magari non perfetta, versione di "Fimmene fimmene", canto che si cantava durante questo faticosissimo ma ispiratore lavoro. Il brano, come molti di questi popolari, non ha né un numero di strofe né un argomento predefiniti. Quindi, a partire dagli anni '70, quando si è insomma iniziato a fare "riproposta", si è mischiato un po' del contenuto originale del brano con strofe ispirate al tarantismo. Sin da quando ebbi terra, questo fu uno dei motivi che non mi fece amare questo brano, anche se io non ero cosciente della possibilità di fare di questo motivo un qualcosa di veramente rivendicativo o comunque lavorativo. Sono molto grata, nonostante tutto, a questo brano, poiché mi ha dato, involontariamente, l'idea dell'accompagnamento musicale della mia "Preghiera allu ientu", che circa un mese fa ho postato in questo stesso blog.
Subito dopo, e questo è uno dei momenti migliori del cd, arriva Santu Paulu II. E' una pizzica che, iniziando a cappella, come se fosse una preghiera fatta nella cappella di Galatina, (luogo dove si recavano le tarantate per chiedere la fine del male al loro santo protettore), diventa poi, piano piano, un'irruentissima pizzica, con voce solista di Lamberto Probo. L'"Officina", e si sente sin da questo primo disco, ha sempre voluto rispettare, ampliandola, quella convenzione più o meno standard, secondo la quale, in pizzica, gli strumenti entrano ognuno secondo un preciso turno d'entrata. A differenza dell'altro "Santu Paulu", questo non può essere tanto vincolato al tarantismo, quanto ad un gruppo fondamentale, se si vuole cercare un "anello" tra tradizione (ossia musica acustica suonata da dilettanti, radicata in un determinato territorio e legata a determinati usi), e riproposta, reinvenzione spettacolare di un repertorio, eseguito spesso al di fuori dei luoghi e delle date tradizionali. Il gruppo in questione si chiamava "Gli Ucci", ed è stato mirabilmente "ritratto" dalle Edizioni Aramirè nel cd "Bonasera a quista casa".
La cultura salentina, tarantismo incluso e soprattutto, ha avuto il suo motivo di esistere nella maniera così ben studiata, grazie alla mancata emancipazione della donna. Un brano che la rivendica, senza violenza perché ci è completamente estranea, per fortuna, è "La turtura". Il brano è una metafora, che Zoè forse non sa rendere con la nitidezza di "Quannu camini tie", ma anche questo è un brano al quale sono molto legata, anche se purtroppo, bisogna capire il dialetto per apprezzarlo. Infatti, neanche la casa discografica Anima Mundi, che ha curato un'ottima edizione di questo cd, ha pensato di pubblicarne i testi con la traduzione a fronte.
Subito dopo arriva "E lu sule calau calau", brano molto simile al noto "Sciur padrun da li beli braghi bianchi". Nei due brani, infatti, vi sono lavoratori che reclamano stipendio, ma credo che le minacce che elabora il salentino nei confronti del suo padrone siano insuperabili (Ci nun me ne porti [i soldi] me settu 'n terra e fazzu carotti). L'interpretazione che ne dà il gruppo, è divisa in due parti molto evidenti. La prima, completamente a cappella, è costituita solo da due strofe, le prime del canto, mentre poi si arriva ad una tarantella (non ad una pizzica, perché in verità le due forme musicali sono simili ma non uguali), introdotta da una bellissima, e purtroppo poco usata nel Salento, tammorra muta. Questo trucco, ad una persona coscienziosa, permette di non dimenticare la tristezza dei lavoratori, comunque presente, mentre magari se la spassa e si balla il brano.
Il cd si chiude con un omaggio all'insuperabile "Simpatichina" Niceta Petrachi, con la "sua" "Pizzicarella", brano che ormai è diventato talmente comune, che i signori della polemica, che in Puglia purtroppo sono tanti davvero, non la eseguono più. L'"Officina" in nome della sua proverbiale filologia, la esegue, a livello di testo e melodia, così come la si trova nel doppio cd "Musiche e canti popolari del Salento" delle Edizioni Aramirè. Questa versione è interessante perché ci permette di ascoltare uno strumento che ha di recente, circa una novantina di anni fa, grazie al ritorno di numerosi salentini dai fronti di guerra del nord Italia, affiancato quello che è il grande assente di questo cd. Lo strumento di cui si parla è l'armonica a bocca, spesso chiamata in dialetto "organetto a bocca", il grande assente è invece l'organetto, chiamato spesso in dialetto "organetto a mano". Il cd, dopo la mitica chiusura a quindici colpi di tamburello tanto caratteristica dell'"Officina", si conclude, in senso assoluto, con un grido di "Zimba", che a me dà delle emozioni del tutto particolari, perché mi ricorda una bellissima serata passata con lui, che magari vi racconterò in futuro.
Spero che con questa recensione, dato che sono pochissimi i cultori di musica popolare salentina che non hanno questo cd, otterrò solo di trovare in giro un testo che non lo idolatri ma ne parli con obbiettività, mettendo a nudo le conseguenze, non tutte positive, che esso ha avuto.

2 commenti:

  1. Ciao, grazie per questa recensione molto ricca, che da "profana" mi ha permesso di capire molto di più in questo disco bellissimo...

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  2. @letizia
    Di niente, lo dovevo a questo cd fondamentale per la mia formazione. Forse è una recensione da cultori e magari anche troppo pensata, ma così venne.
    Spero d'averti fatto svegliare curiosità anche per altre fonti meno note.

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