domenica 19 aprile 2009

Una recensione "officiniana" a quattro mani.

Carissimi lettori, questa mattina voglio parlarvi di un altro disco che mi ha formato molto. E' il cd che ha segnato la mia effettiva scoperta degli Officina Zoè, ed è intitolato "Crita". Sin dal titolo, parallelo a quello del loro primo disco, il fondamentale ma forse sopravvalutato "Terra", è un ritorno alle origini. Infatti, anche qui, si affrontano i brani della tradizione salentina. Il gruppo, però, ormai è indubbiamente cambiato, essendo passato per quell'insuperabile tappa di interiorizzazione della tradizione e delle sue sonorità, rappresentata da "Il miracolo". Il cd, e va detto subito, è uno dei più mirabili esempi di tradizione che sgorga dalla modernità, unita a modernità che sgorga dalla tradizione. Il tutto, è ottenuto con una serenità disarmante, che non ha forse permesso al vecchio pubblico del gruppo, troppo legato alla precedente formazione, di capirne la forza. Va detto, oltretutto, che negli anni in cui il gruppo tricasino si "faceva le ossa" con le colonne sonore, vari musicisti, più o meno improvvisati, hanno dato nuova vita, in maniere più o meno discutibili, al repertorio che poi sarebbe confluito in questo disco. Questi fattori, insieme alla tendenza del salentino a giudicare i progetti secondo il loro grado di innovazione, spiegano il poco successo e la minor comprensione avuta da questo album.
Entrando concretamente nella materia, il primo brano, intitolato "Ferma ferma", è tradizionale come impianto, ma l'"Officina" lo fa talmente proprio, da poter aspirare a pensarlo come un brano d'autore. Per la sua esecuzione, il gruppo utilizza semplicemente una chitarra acustica, un mandolino e la voce eterea di Cinzia. Le parole, come spesso accade nel più autentico stile Zoè, diventano suoni, senza però mai perdere il loro significato, o mutarsi in qualcosa di immateriale.
Si prosegue poi con il primo brano veloce del cd, intitolato "Allu sciardinu". E' un brano che io non saprei catalogare, perché il ruolo di dare il ritmo effettivo, invece di essere affidato al tamburello, come prevederebbe la più schietta tradizione leccese, è affidato a due strumenti, la chitarra battente e le nacchere, che sono più tipici di altre zone. Il tamburello, infatti, si limita quasi a battere dei colpi secchi, accentuando a malapena le parti principali della struttura ritmica. Le voci, qui, si contrastano. Se, da un lato, le voci maschili cantano in maniera "urbana", con colori più tipici dello stile popolare moderno, la voce di Cinzia, si staglia con un'irruenza che da diverso tempo non si ritrovava, quantomeno dalla "Macaria" di "Sangue vivo".
Subito dopo si arriva ad una stornellata, fatta, per ammissione dello stesso gruppo nel libretto del cd, da proverbi e detti salentini. Il ritmo, per chi conosce un po' i primi Zoè, potrebbe ricordare "Nifta maiu" o "Ttuppi ttuppi", mentre per gli appassionati di musica sudamericana e da ballo, potrebbe ricordare una 'beguine'. Il brano in questione è "Anima bella", uno dei più caratteristici e "rurali" del repertorio del gruppo. Infatti, e va detto, a parte l'organetto e la chitarra, tutti gli strumenti che vi figurano, sono oggetti della quotidianità contadina. Abbiamo, innanzitutto, il "tamburo a frizione", chiamato in salentino "cupacupa", costituito da un pezzo di coccio dentro il quale si mette un bastoncino di legno, che si suona con una spugna per piatti bagnata d'acqua (una volta si bagnava anche con la propria saliva!); troviamo poi il "lavaturu" e dei normali cucchiai.
Il brano successivo è l'unico strumentale del disco, una "Pizzica paccia", fatta sul modo di un anziano soprannominato "pacciu" ("pazzo"). Il protagonista del pezzo è l'organetto, coadiuvato, oltre che dal tamburello, anche dagli strumenti "quotidiani".
Per dimostrare che si può fare qualcosa di nuovo ed inaspettato anche partendo da testi e melodie più che conosciute, arriva poi il "Fior di tutti i fiori". E' uno stornello, eseguito, a livello di testo e melodia, così come lo si trova nel cd "Musiche e canti popolari del Salento" delle edizioni Aramirè. Ritmicamente, però, l' "Officina" si è presa la grande libertà di rallentarlo, facendo forse fuoriuscire quella tristezza che è insita nelle parole, causando però un certo "appesantimento" durante l'ascolto. Qui, poi, è particolarissimo anche l'insieme di strumenti che suonano accompagnando il canto. Troviamo infatti, insieme ad uno strumento "quotidiano" come il cupacupa, la chitarra, strumento di origine colta ma ormai entrato nella tradizione, ed il bouzouki, elemento greco tanto caro a molti gruppi salentini attuali.
L'anima greca degli Zoè, però, si sfoga in pieno nella traccia seguente, la bellissima, romantica e festosa "Kali nifta". Questo canto, d'autore ma ormai diventato della tradizione, eseguito in lingua grika su una melodia probabilmente macedone, qui viene portato ad un'allegria discreta, che non fa perdere mai il romanticismo di base. Non va dimenticato, anche se poi molti lo fanno, che il brano è una delle più belle e struggenti serenate del nostro Sud.
Di seguito troviamo il primo brano completamente a cappella mai eseguito in studio dal gruppo. Il pezzo, reperibile con una strofa in meno nel cd "Le cicale" della casa editrice Kurumuny, è uno dei classici indiscussi della tradizione leccese, e si intitola "E l'acqua ci te llavi". Anche questa è una serenata, di quelle che si cantavano nei campi per corteggiare a distanza la propria innamorata. La versione del gruppo è la più tradizionale tra quelle di "riproposta" che conosco, infatti rispetta gli intervalli tipici del canto polivocale salentino, limando solo quegli aspetti che oggi non si accettano più.
Subito dopo arriva una tarantella, eseguita con cupacupa, chitarra, organetto e voci, che non era mai stata riproposta da nessuno, ed era presente solo in un vecchio film di Pietro Germi, che l' "Officina", con il suo attaccamento alle fonti, cita come personale modello. Il brano è "Maria Nicola", tarantella spassosa su una giovane che, invece di sposarsi, dilapida tutti i soldi che gli altri le offrono per fare cose di cui si può fare benissimo a meno. Anche di questo brano, nel 2007, la Kurumuny ha pubblicato una versione "tradizionale" nel già citato "Le cicale". Questa versione, come tutto il disco, è a cappella, ed è più lenta di quella dell' "Officina".
Tornando a Crita, che a casa mia viene da sempre chiamato "Il mostro", andando avanti arriva una strabiliante "Tambureddu meu". Questo brano è il più tradizionale del cd, e forse sarebbe stato meglio metterlo a chiusura del percorso, per "intrappolare" l'ascoltatore in un ideale cerchio, simbolo d'altronde caro alla tradizione meridionale, che va dalla dolcezza gentile di "Ferma ferma" alla durezza contadina di questa pizzica. Comunque, il pezzo è uno dei più famosi all'interno del repertorio tradizionale, ed è eseguito senza strofe né melodie particolari, senza neanche eccessiva cura nell'addolcire la tradizione. Si è registrato, infatti, lo so per testimonianza diretta dell'armonicista Antonio Corsano che vi ha partecipato, completamente in presa diretta. Qui, infatti, forse Zoè mostra il suo spirito più vero: ci fa capire che ciò che cerca è una vera comunione con il proprio pubblico, per il quale, poi, prova una vera e propria gratitudine.
Il cd si chiude con una geniale versione di "Camina ciucciu", brano molto poco eseguito, del quale, fino all'uscita del cd di cui parliamo, esistevano solo due versioni di ispirazione tradizionale, tra l'altro eseguite dallo stesso gruppo a vent'anni di distanza l'una dall'altra.
Descrivendo concretamente la versione dell' "Officina", è la più riuscita perché, anche non capendo le parole e non conoscendo il dibattito di interpretazione causato da questo brano apparentemente così semplice e scanzonato, si arriva a capire che ci si trova davanti ad un pezzo ispirato dalla figura del carrettiere, che per andare avanti incita sempre il proprio animale a camminare. Musicalmente, il brano è positivamente caratterizzato dalla presenza del mandolino di Antonio Calzolaro, mandolinista di Uccio Aloisi.
Prima, introducendo il brano, l'ho definito "geniale". L'apprezzamento è riferito ad una piccola cosa che succede a metà esatta dell'esecuzione: la musica etnica è bella perché fa grandi le piccole cose. Il brano, prima di ricominciare daccapo per il secondo giro, si caratterizza per una presenza del tipico suono che si produce per incitare gli animali da locomozione. Dopodiché Cinzia, forse trasportata dall'atmosfera creata da questo trucco, utilizza un tipico melisma salentino, una semplicissima scala di quattro note con un leggero trillo, non utilizzata abitualmente in questi contesti, ma che qui acquista un colore tutto particolare. Dopo la fine del canto, che sfocia in una piccola parte a pizzica lenta, si arriva ad un dialogo serrato tra il mandolino e l'organetto, che purtroppo è troppo breve per permetterci di goderne come si dovrebbe e come si sarebbe portati a fare.
Voglio sperare che con questa recensione ho portato qualcuno ad ascoltare questo cd non più condizionato dagli stereotipi e dai luoghi comuni.
Cari salentini: quando verrà il giorno che con la vostra musica tradizionale tornerete a fare semplicemente festa senza più nessun tipo di polemica?

Carissimi lettori, voglio regalarvi la recensione personale di un mio grande amico, l'ormai inguaribile "malato di pizzica" Gianluca.
Il mio approccio con la pizzica si è avuto, ormai la bellezza di quattro anni fa, con la scoperta (grazie alla mia superamica!) proprio di questo cd. Il retroterra musicale dal quale provenivo era assai scarso e nello stesso tempo rigorosamente selettivo: posso dirvi che i miei generi preferiti si riducevano sostanzialmente a due, vale a dire le canzoni popolari e politiche e l'opera lirica, soprattutto di carattere buffo e di scuola italiana.
Quando cominciai a prendere confidenza con la musica salentina del genere pizzica, scoprii letteralmente un 'universo parallelo'; un nuovo mondo alternativo e davvero magico, di "emozione musicale". Ma entriamo nel vivo del cd "Crita", ovvero la mia 'iniziazione' alla pizzica ed in particolar modo alla musica degli "Officina".
Partiamo da "Ferma ferma": l'armonia è come un pizzicare l'anima, e la dolcezza che oserei dire rimbomba, farebbe pensare ad una normale serenata... Una serenata in cui il dialetto tricasino rende le parole e la melodia ancora più dolci. (Zoè, siate più tricasini nella vostra filosofia di canto, dimostrate che anche da voi c'è una grande tradizione. Ve lo dice una perugina, quindi non ci sono sospetti di campanilismo!n.d.r.).
"Allu sciardinu" si pone come una melodia altrettanto singolare. Non saprei dire il motivo, ma mi evoca moltissimo l'aria del Salento (in cui ancora non ho avuto la fortuna di capitare...), e tranquillamente potrebbe fungere da colonna sonora ad un documentario superdettagliato sulle terre della provincia di Lecce. E questo nonostante sia un pezzo forse, tra quelli di "Crita", dei più lontani dalla tradizione salentina.
Ed arriviamo alla terza, in ordine cronologico, del cd: "Anima bella". La prima volta che l'ho sentita, devo essere sincero, non ho colto immediatamente il suo vero valore. Forse proprio a causa della poca dimestichezza che avevo con il genere "musica popolare salentina", non era, in un primissimo tempo, tra le mie preferite. Il motivo, credo, fosse il "distacco" dalle altre, o meglio, in un primo momento, l'avrei vista di più in "Terra", oppure come singolo a sé (cosa che, nella musica popolare, è inaudita!). In realtà mi è bastato solamente ascoltarmela un po' più di volte, per comprendere quanto veramente ci stesse bene lì. E' da ricordare, anche, che la prima volta che li abbiamo visti insieme, il 7 luglio 2006, alla "Palma" di Roma, ce l'hanno anche dedicata (n.d.r).
Molto piacevole e di gran gusto, è la "Pizzica paccia", che rivela il talento del grande "Don pizzica", ossia Donatello Pisanello.
Arriviamo così a metà disco, con "Il fior di tutti i fiori", un pezzo veramente superbo! Inconfondibile e unico. A parte il testo, una dolcissima poesia stornellata che sa di profondo sentimento e oserei dire di tenerezza, la musica, ancora una volta, eleva le parole ad una quinta essenza. Si può far poesia in moltissimi modi, e forse ci sono ancora molti segreti che la nostra lingua ed i nostri dialetti possono e debbono dirci... Ma quando entra in gioco la magia della musica, e questa musica si concatena perfettamente a quello che sono le parole ed a cosa esse vogliono mirare, è davvero tutta un'altra cosa.
Se questo è vero per il brano precedente, è innegabile che lo si possa riscontrare anche nella successiva "Kali nifta". Ma sarà anche il fatto che la lingua greca detiene sul sottoscritto un potere di seduzione non indifferente...
Arriviamo ad un pezzo che ha insita una certa vena classica. (Non a caso è stato cantato anche dal celebre tenore Tito Schipa). Il pezzo è particolarmente impregnato di calore e sentimento, e secondo me risponde ad una esigenza che sento particolarmente viva, di richiamarsi ad una certa galanteria nei rapporti sentimentali. Per la cronaca, il pezzo in questione, si intitola "L'acqua ci te llavi".
Ed eccoci a quella che considero la mia canzone preferita: "Maria Nicola". Ha un ritmo dolce a tutti gli effetti, che troppo bene si abbraccia alla voce della "Maria Callas del Salento", (mi dispiace per chi la pensa diversamente...!) insieme alla tradizione più spontanea del centro-sud. Non ne abbiano a male gli studiosi di etnomusicologia e nemmeno i cultori più preparati di me di musica popolare, ma tengo a precisare che una voce come quella della Marzo ha in sé un 'potere' assai particolare ed unico. Non si deve - e lo dico anche da teorico - omologare un genere musicale a canoni predefiniti ed aprioristici. (per quanto essi siano tradizionali n.d.r.). La musica popolare, scusate, non è la musica operistica o classica in genere, nelle quali è doveroso rispettare con rigore certi canoni. Ben venga, nella musica popolare, l'uso di un ampio spettro, il più possibile largo e teso all'estensione, della voce: della tonalità, del modo stesso di far vibrare l'aria, ma continueremo il discorso.
Molto carina è pure la successiva "Tambureddu meu", assolutamente tradizionale, piacevole, molto oserei dire distensiva, pur nella sua carica forte e rapida.
Il cd si chiude con "Camina ciucciu", rigorosamente la mia seconda preferita, anch'essa molto vicina a "Maria Nicola", per la dolcezza e la spontaneità con cui canta la Marzo.
Queste le opinioni di un semplice ascoltatore, di un "non addetto ai lavori", di un cultore tardivo della musica popolare salentina, che non vogliono insegnare niente di tecnico e cattedratico a nessuno, semplicemente offrire qualche spontaneo parere che potrebbe esservi di una qualche utilità.

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