venerdì 23 aprile 2010

Francesco Guccini: "Live at R.T.S.I."

Carissimi lettori, oggi ho il piacere di potervi parlare di un album di Francesco Guccini che, nonostante il suo essere stato pubblicato nel 2001, è arrivato alla mia conoscienza solamente adesso.
Mi riferisco ad un concerto registrato negli studi della Radio Televisione della Svizzera Italiana, pubblicato dalla Sony in collaborazione con la Emi, casa discografica che, fin dai suoi inizi, segue il cantautore pavanese.
Il cd è inciso con una chitarra acustica, una chitarra elettrica ed un basso.
Si inizia, come sempre, con una meravigliosa "Canzone per un'amica", interpretata con una rabbia che, contrariamente a quanto succede con altri cantautori come Paolo Conte, non inficia mai la chiarezza ed il corretto posizionamento delle parole. Il brano è veramente riportato alle sue matrici, quelle della ballata americana, che in Guccini riesce ad incontrarsi in maniera insuperabile con quelle della nostra antica canzone narrativa.
Andando avanti si riprende un brano tratto da quel "Metropolis", publicato vent'anni prima, che sarà come un fantasma segreto durante tutto il concerto. Il brano è il classico "Bologna", che veramente acquista una semplicità meravigliosa. E' strano, ma forse non troppo, che il pubblico svizzero non applauda a quel "capace di morte", che Guccini scaglia a ricordarci quella immane strage che, ormai, fa parte dei tanti e troppi misteri irrisolti di questo paese allo sfascio.
L'anima francese che questo brano aveva in "Metropolis", scompare per lasciare spazio ad un incidere più americano, dove con questa parola si vuole intendere una convivenza tra la ballata nordamericana alla bob Dylan e certe suggestioni argentine, altrettanto fondamentali per capire pienamente l'universo di Guccini.
Andando avanti si arriva a quello che, forse, insieme a "Canzone quasi d'amore", è il brano più difficile e virtuosistico della discografia gucciniana. Il brano, il classico "Il vecchio e il bambino", qui non lascia intravedere tutta la tenerezza che il cantautore mette in questo ritratto della convivenza di due generazioni. E' una canzone di una bucolicità non stucchevole o arcadica, ma concreta, tipica di chi la vive e la ritiene l'unica dimensione in cui può vivere e realizzarsi.
Continuando si arriva ad un altro brano che non può mai mancare in un concerto di Guccini, pur latitando completamente dalla discografia da studio del cantautore. Mi riferisco a quell'incrollabile testimonianza di fede in lotta che è "Dio è morto". Questo brano, anche se molto sfruttato da correnti forse troppo diverse, non va assolutamente ridotto all'antimilitarismo sterile che negli anni Sessanta infarciva tanti forse troppi artisti. E' uno dei pochi brani che affrontano sinceramente questa tematica, con rabbia vera e non ipocrisia.
Proseguendo si trova l'unica versione live che io ricordi di quella che per me è, da sempre, la mia canzone preferita di tutto il repertorio gucciniano, ossia "Canzone di notte n. 2". Ciò che ho sempre amato di questo brano è la sua difesa della libertà che, come ci dimostra il nostro premier, non è assolutamente un valore di moda. Non so perché ma è un fatto, il pensiero fa sempre paura, perfino in regimi democratici.
L'interpretazione di Guccini, forse aiutata dalla chitarra elettrica che suona distorta, si tinge di una rabbia che la potrebbe avvicinare all'intimità dell'ultimo repertorio di un grande cantautore e frequentatore di osterie, ossia il bolognese Claudio Lolli.
Continuando si arriva ad un classico del primissimo repertorio di Guccini, quella "Auschwitz che denuncia l'inutilità di tutti gli olocausti ed ecatombi che la storia possa e debba ricordare. Anche qui, come quasi sempre, Guccini riesce a dare all'argomento, che sennò potrebbe prestarsi a brani ubriachi di retorica, un'intimità umana che fa sì che questo brano sia rimasto per quarantacinque anni attuale e fresco.
Anche qui, forse non è troppo ricordarlo, si utilizza, come in quasi tutto il repertorio gucciniano, lo schema della ballata, assolutamente priva di ritornello. Il grido di rabbia ed orrore è esteso, dilatato, disperato, eterno.
E si ritorna a "Metropolis" con il brano di apertura, quella "Bisanzio" che, forse per la sua struttura esageratamente intellettualistica, non mi ha mai finito di convincere.
Questa canzone è una ballata storica sul declino di Bisanzio e sulla sua storia, vista dal punto di vista di Filemazio, grande medico ed astrologo bizzantino.
Si può dire, per descrivere un po' il brano a livello strutturale, che è un ritorno da parte di Guccini, dopo la fortunata interruzione di "Via Paolo Fabbri 43", "Amerigo" e l'"Album concerto" con i Nomadi, al rock progressivo o comunque ad un concetto di ballata popolare progressiva. Infatti, forse non tutti gli ammiratori del cantautore avranno notato, che tra il 1971 ed il 1981, il pavanese tentò di mettere l'estensione notevole dei brani progressivi al servizio dei suoi testi che, in maniera naturale guardavano ad un altro uso della stessa struttura.
Un esempio di questo particolare periodo è l'album "Radici", uno dei dischi a cui sono più legata, anche se non ho mai potuto sopportare gli arrangiamenti che, spesso e volentieri, appesantivano i brani di particolari inutili. Questo è uno degli lp che ascoltavo da piccola con mio zio, da un vecchio e abbastanza mal ridotto vinile, da cui Guccini in questa occasione, per la prima volta che io ricordi, riprende questa bellissima anche se incompresa da molti "Canzone dei dodici mesi". E' un brano dove su una struttura di filastrocca popolare, si innestano riflessioni filosofiche e letterarie che, per la loro semplicità e poesia, mettono la'scoltatore nella condizione di dover riflettere sulla sua vita.
L'interpretazione qui è leggermente rabbiosa e forse anche un pochino ripetitiva, cosiccome è un po' povero tutto lo strumentario di questo disco.
Direttamente da "L'isola non trovata", album del 1971 che io non ho mai amato, viene questa "Un altro giorno è andato". In questo caso, rispetto alla versione classica ed insuperabile di "Fra la Via Emilia e il West", si ritorna molto di più verso un'atmosfera di ballata americana, che lì era stemperata verso il swing, anche grazie al sassofono contralto rabbioso di Antonio Marangolo.
Il concerto, come tutte le esibizioni di Guccini ad eccezione dell'album "Quasi come Dumas" dedicato monograficamente al repertorio di Guccini annni Sessanta, , si chiude con "La locomotiva". Il brano, lanciato nel disco "Radici", è un omaggio al canzoniere anarchico dell'Ottocento, specialmente ad un bellissimo "Inno della rivolta". Il brano di Guccini, forse, è il più grande esempio moderno di concreta immedesimazione in un qualsiasi stile. Questa sua eccessiva retorica, che come abbiamo visto è fortemente estranea allo stile "normale" di Guccini, non è stata ben capita neanche da certa sinistra, che forse non ha la sufficiente cultura né apertura mentale. La versione chitarra e voce, forse, rende questa esibizione insuperabile, anche se è imperfetta a livello di testo.
E' un disco che consiglio a tutti i veri amatori di Guccini, anche se non direi che sia fondamentale quando si tratta di avere un primo approccio con il cantautore. Per quello, non è mai troppo ripeterlo, non c'è niente come "Fra la Via Emilia e il West".

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