martedì 6 aprile 2010

Commento alla puntata del 05/04/10 di "Effetto notte in Italia

Carissimi lettori, eccoci qua ad un altro articolo, sarà un po' polemico già lo so, a commento di una puntata di "Effetto notte in Italia", programma di informazione musicale che va in onda di sera su Radio Inblù.
Intanto non mi piace il fatto che la musica oggi debba per forza fare compagnia, soprattutto non mi piace che si usi per questo scopo, sicuramente importante ma non nobile, la musica, spesso nobilissima, di molti cantautori italiani.
Andando concretamente allascaletta, sicuramente non c'è niente da eccepire sull'apertura, affidata ad uno dei classici indiscussi del repertorio di Antonello Venditti, quella stupenda "Notte prima degli esami", che resiste da ventisette anni tra i brani che il nostro non può non cantare ad un suo concerto. Stiamo avendo il piacere di ascoltarne la versione originale, quella contenuta nel cd "Cuore" del 1984, che portava alla luce anche altri classici di Antonello Venditti come "Ci vorrebbe un amico". E' una canzone meravigliosa, sempre bella ma complicatissima da cantare e suonare (altro che "canzone da scampagnata"!).
E come poter fare a meno di Lucio Battisti, il cantante che ha permesso a tutti di sentirsi musicisti solo perché sanno fare tre accordi sulla chitarra, suonati senza nessuna sfumatura?
Il brano che si ascolta è "La canzone del sole", che da ormai circa quarant'anni, mi pare sia del 1971, ci tormenta (io veramente non ne posso più!).
Oltretutto mi sarei un po' stancata di questa idolatria generale nei confronti di Mogol, buon paroliere, sicuro, ma non paragonabile a gente come Giorgio Calabrese (paroliere di Umberto Bindi) o Sergio Bardotti, ottimo traduttore di gioielli della musica brasiliana come "Funeral de um labrador" di Chico Buarque, diventata "Il funerale di un lavoratore" nella toccantissima interpretazione di Maria Carta ("Vi canto una storia assai vera, 1976).
La voce di Battisti, oltretutto, non è neanche intonata, anzi dal vivo era completamente stonato (idem dicasi per i Beatles, amati da quelle persone per le quali basta che un gruppo abbia importanza come rivoluzionatore di abitudini e costumi per valutarne la bravura!).
Forse il brano non è malvagio se arrangiato, ma non basta l'arrangiamento per fare bella una canzone, anzi i brani sono belli nudi, al limite l'arrangiamento può e deve essere un arricchimento ma non di più.
Andando avanti, per fortuna, torniamo a parlare di capolavori, con la bellissima "La donna a cannone" di De Gregori, pubblicata in un q disc che io possiedo in vinile ma credo di non aver mai sentito. Questo brano, ad esempio, anche fatto solo chitarra e voce, ovviamente con tutti i suoi accordi, è bellissimo, non c'è bisogno d'orchestrazione. Oltretutto, e anche questo non guasta per lo meno per me, ha un testo anche complicato, poetico, riflessivo, che obbliga a pensare e pesare le parole. Non ho mai amato le canzoni scritte come si scriverebbe uno sfogo privato o la lista della spesa.
Andando avanti, io avevo un anno appena, si arriva a questa "Fiore di maggio", che a me ricorda un mio professore di educazione fisica, il quale, quando io facevo la materna, mi regalò una cassettina originale, che da qualche parte forse ancora possiedo, di questo bellissimo album di Fabio Concato, che si intitolava come questa canzone. Piccola curiosità: il mio maestro (così noi montessoriani chiamavamo i nostri insegnanti) mi regalò il primo tamburello che io ebbi nella mia vita, quindi io scoprii questo strumento molto prima di scoprire la pizzica e molto prima che questa fosse effettivamente riscoperta, infatti io ebbi questo dono circa una ventina d'anni fa, anche prima!). Tornando all'album di Concato, quello che tutt'ora è il suo disco più conosciuto, conteneva anche canzoni come "Gigi", "Computerino", che era la mia preferita, e "Rosalina", ancora adesso assolutamente obbligatorie quando si parla di Fabio Concato.
Eccoci a questa musichetta troppo rilassante e rilassata che io non ho mai amato, quella che giustamente si può preferire come colonna sonora di scampagnate (non "La donna a cannone"!). Stiamo ascoltando una canzone di Marina Rei, la cui particolarità basilare è il suo aver studiato percussioni con tecnica cubana, cantante che sennò è completamente banale, perché da noi la banalità è scimmiottare gli americani, magari mancando di rispetto alla nostra lingua (la cosa faceva già arrabbiare Domenico Modugno ai tempi di "Volare"!). Il brano che stiamo ascoltando, intitolato "Primavera", è una cover di un brano dance anni '70 sicuramente festoso ma insipidissimo. Brani così, per lo meno a me, mi dànno solo voglia di spegnere qualsiasi radio io stia ascoltando.
Mamma mia, l'incubo continua! Il cantante che stiamo a scoltando è un ottimo cantante, anche se è il cantautore che io ho sempre amato di meno, il genovese Ivano Fossati. Il brano che stiamo ascoltando, però, è la nauseante, perfino lui la odia, "La mia banda suona il rock". Comunque voglio approfittare per mettere insieme un paio di ricordi legati a questo cantautore, che ebbi anche il piacere di vedere nel 1990, ancora in piena guerra del Golfo. Amo moltissimo un cd di Fossati, forse di qualche anno precedente a quel concerto, intitolato "La pianta del tè". I brani che ho sempre amato sono, e non poteva essere altrimenti, quelli dove il pop è sfidato a "sporcarsi" con suggestioni etniche, che sono quelle che ho sempre cercato in fondo nella musica, ancora prima di scoprire la musica tradizionale. Io vi consiglio di ascoltare tre brani di Fossati: "Terra dove andare", "la pianta del tè" e "Questi posti davanti al mare", interpretato insieme a Fabrizio de Andrè e Francesco De Gregori.
Andando avanti con la scaletta di "Effetto notte in Italia", stiamo ascoltando Paolo Conte che, in "Concerti", album di cui qui si è parlato ampiamente, interpreta "Azzurro". E' veramente meravigliosa, anzi per me è l'unica versione che esiste di questo brano, mi colpisce sempre la sua infinita eleganza. Trovo invece sguaiatissima la versione di Adriano Celentano, ma, fortunatamente, questa è un'altra storia.
E finalmente posso spendere qualche parola, senza un velo di polemica, su un grandissimo cantante, riscoperto molto ma non so con quanta sincerità. Mi riferisco a Rino Gaetano, colui che sarebbe stato, se non fosse morto a trentun anni, uno dei cantanti più trasgressivi della scena italiana, senza la supponenza di quelli che debbono esserlo per forza o per etichetta. Il brano che stiamo ascoltando è "Gianna", che il cantautore calabrese portò, arrivando terzo, al Festival di Sanremo 1978. Una curiosità, che Renato Zero ricorda spesso, è che il cilindro che Gaetano indossò nelle sue esibizioni all'Ariston era di proprietà del "fiacco" che, allora, di vestiti strani se ne intendeva. E' un brano bellissimo, anche se lo stesso non si può dire di quello che è partito adesso!
Stiamo a scoltando la "Anima mia" dei Cugini di campagna (non so se rendo!), di cui io ho un ricordo raccapricciante che credo di aver già condiviso con voi ma non posso far a meno di tornarci con la mente: mio padre che cantava questa canzone, insieme ad altre non meno allucinanti, ad una masnada di bambini che andavano a scuola. Venendo tecnicamente al brano è un brano tipicamente melodico, con una spruzzatina di effetti speciali, suoni di sintetizzatore, che avrebbero voluto renderlo compatibile con il clima "progressivo" che si respirava in quel periodo nel 1973.
Andando avanti troviamo un'altra di quelle canzoni che non amo, anche se non posso dire che abbia una melodia povera, soprattutto per i suoi numerosi "crescendo", come non posso dire che la sua interprete non sia brava (quanto la amava il mio caro nonnino!). Mi riferisco a "Maledetta primavera", interpretata da Loretta Goggi. E' carino il terzinato, ritmo che noi non abbiamo mai rinnegato, anche perché, per usare una metafora religiosa, è letteralmente "sangue del nostro sangue". Infatti l'applicazione di questostandard ritmico, e scusate l'accostamento eretico che farò, la si ritrova indifferentemente in alcuni brani di Bethoven, nelle pizziche, dove il tamburello ed in alcuni casi il canto terzinano, e in brani pop dagli anni Sessanta ad oggi.
Ed eccoci ad un caso di sputtanamento di capolavoro. Se ne era accennato già in occasione del commento al "Work in progress" di Dalla e De Gregori, di cui si riparlerà in occasione della tanto gridata uscita del cd che racchiuderà i momenti salienti della tournée. Mi riferisco naturalmente a "l'anno che verrà" che, come ogni buona canzone sputtanata è nota anche con un altro titolo: "Caro amico ti scrivo", che poi è solo il primo verso. La versione che stiamo ascoltando è 'originale, quella che Lucio Dalla incise, con gli Stadio in grandissima forma e in evidenza assoluta, tra la fine degli anni Settanta e l'inizio degli anni Ottanta (il cantautore, sempre caratterizzato da una fantasia grandiosa nella scelta dei titoli per i suoi dischi, dette lo stesso titolo, il suo cognome, a due dischi di fila, tutti e due capolavori supremi, quindi voi potete capire che faccio un po' di confusione!).
La puntata si chiude con "Centro di gravità permanente", una delle canzoni più insipide di uno dei cantanti più insipidi che l'Italia abbia mai avuto l'onore d'avere (forse dovrei rivedere le graduatorie con gli standard della nuova generazione, ma non assolvo Battiato!). Non sopporto chi fa il filosofo tramite le canzoni, tra fare il filosofo e scrivere le canzoni come la lista della spesa ce ne corre dico io. Oltretutto battiato mi ha sempre dato l'impressione di uno che se la tira, vuole far pesare la sua cultura (la sua o di Sgalambro? boh!). Infine, e va bene già che ci siamo diciamola tutta, non sopporto la vocina da castrato del siciliano.
In fondo mi ha fatto anche piacere questa puntata di viaggio nella storia della canzone italiana, anche se trovo che si sia fatta una bella accozzaglia di capolavori e pezzi così così, accomunati solo dal fatto di essere classici.
Spero che vi sia piaciuto questo articolo, io nello scrivere mi sono divertita moltissimo!

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