Carissimi lettori, le promesse sono promesse, quindi ecco il commento alla seconda puntata del ciclo su Armando Gill della trasmissione "Canzonenapoletana@rai.it".
Si inizia con un brano del 1918, intitolato "'O zampugnaro 'nnammurato", che, in 78 giri, per la sua durata di cinque minuti, era inciso su entrambe le facciate del disco, insomma diviso in due parti, come le ballate di alcuni cantastorie, si pensi alla sfiziosa "La signurina curridura" del siciliano Orazio strano, che scrisse ballate durante molto tempo.
La versione di Armando Gill di questa suacanzone è molto tragica, d'altronde è la storia di uno zampognaro che, andando a Napoli e innamorandosi di una ricca signora, si scorda della sua innamorata lasciata ad Avellino, la quale, pensando che lui ormai l'abbia tradita, si dispera perché non può sposarsi. Qui Gill, con il suo già descritto stile tragico, rende benissimo il contenuto del testo, anzi, forse questa è la versione migliore da sentire per capirne lo spirito.
Subito dopo si ascolta una delle mie canzoni napoletane preferite, il brano, scritto nel 1919 "Bella ca bella sì".
La versione di Gill, con i suoi alternati recitativi e cantati, non mi convince più di tanto, in quanto, essendo una serenata, mi pare che questa struttura di canto dà al brano un'esagerata teatralità che non gli è propria.
Insuperabile, tra le interpretazioni recenti, forse non troppo, è quella di Giulietta Sacco.
Ecco una delle canzoni forse meno conosciute di Armando Gill, "Varca d'ammore". Uno dei pochi che l'ha interpretata, che io sappia, è stato Giuseppe Di Stefano. L'interpretazione di Gill, questa volta, è perfetta, veramente si riesce a vedere questa barca che, come spesso accade nella canzone classica napoletana, è considerata il miglior rifugio per il casto amore di cui si parla. L'amore nella canzone napoletana, infatti, è quasi nascosto, anche quando è protagonista delle canzoni, perché chi poi finisce per avere il ruolo principale è la musica insieme al mare e la psicologia dell'innamorato.
Del 1920 è "Piererotta", ritratto bozzettistico di questa festa laico-religiosa che è stata così importante per il passato della canzone napoletana, che forse sarà importante anche per il suo futuro. La versione che stiamo ascoltando di questa canzone è affidata al grandissimo Nino Taranto, ed è una incisione, ridotta piuttosto male in verità, risalente agli anni sessanta. Esiste anche un'interpretazione di Massimo Ranieri, ma è troppo teatrale.
Ed eccoci ad una spassosissima tarantella, in verità prende questo ritmo solo nella seconda parte delle strofe, intitolata "Detti napoletani". E' una serie di proverbi o di modi di dire che andavano di moda nella Napoli innocente e pittoresca tanto amata da Murolo o Di Giacomo. L'interprete del brano è stata Mirna Doris.
Adesso stiamo avendo un piacevolissimo intermezzo, che Paquito del Bosco ha paragonato alla "Rumba degli scugnizzi" di Raffaele Viviani, intitolato "A messa". Se il brano di Viviani comunque finisce per avere un ritmo ed un'armonia musicale, per lo meno nelle versioni eseguite in questi ultimi quarant'anni, insuperabile è quella di Sergio bruni, questo brano è puro teatro, nel senso che Gill sta imitando, con quell'innocenza tipica di quegli anni, le beghine che, con il pretesto di assolvere i loro doveri religiosi, vanno a sparlare del paese e dei loro vicini di casa in chiesa.
Se proprio devo cercare un paragone per farvi capire l'atmosfera del brano, penserei ad Ettore Petrolini, a quello di Fortunello.
Siamo arrivati alla fine, e ci arriviamo con un collage sulle caratteristiche dominanti delle donne nelle varie regioni. Potrei paragonarla, senza l'impietosità, a "Si presenta" tarantella del grande Domenico Modugno. Il brindisino, forse, ha approfittato un po' troppo di desueti luoghi comuni, mentre Gill utilizza una maggiore innocenza, una maggiore dolcezza.
Spero che vi sia piaciuto questo commento e, signori, sempre viva Napoli!
domenica 4 ottobre 2009
domenica 27 settembre 2009
Commento alla puntata del 26 settembre 2009 di "Canzonenapoletana@rai.it".
Carissimi lettori, come promesso, continuo a commentare le puntate di "Canzonenapoletana@rai.it".
Da oggi inizia un ciclo di tre puntate dedicate ad Armando Gill, uno dei primi, se non il primo, cantautore italo-napoletano.
Io non vi scriverò le informazioni che Paquito del Bosco dà perché, come vi ho già detto, le puntate di queste trasmissioni possono essere ascoltate in due siti internet: http://www.canzonenapoletana.rai.it/, a partire dal lunedì della settimana successiva all'emissione, quindi questa si potrà ascoltare da domani, e su http://www.international.rai.it/notturnoitaliano, cliccando sulla fascia oraria dalle 02.00 alle 03.00, dal giorno dopo l'emissione in radio, quindi dalla domenica.
Il primo brano che si ha il piacere di ascoltare è "'O surdato", una bellissima canzone, triste e malinconica, sui soldati che partono e, quando tornano, spesso non trovano le cose come le hanno lasciate.
La voce di Gill è tenorile, ma non quel tenorile tirannico, anche se con poca dolcezza.
Siamo ancora nel periodo in cui Gill scriveva solamente i versi, che spesso venivano musicati da un non meglio identificato maestro De Crescenzo.
Anche questa canzone, intitolata "Uocchie celeste", interpretata da Enrico Caruso, è stata scritta da questi autori e risale all'inizio del Novecento, mentre quella di prima era del 1899.
Nonostante i suoi anni, il materiale, rigorosamente antico, è in buone condizioni e si può notare come questo maestro De Crescenzo aveva il gusto per melodie da romanza, molto corpose. Infatti, l'interpretazione di Caruso rende assolutamente giustizia.
Armando Gill amava molto i militari, e spesso ha dedicato loro canzoni. E' il caso di questa "'O ritorno d'a Cina", tra le prime canzoni scritte e musicate autonomamente dal Gill. E' un duetto, come andavano di moda molto allora nel "cafèchantant" o "cafècantante" alla napoletana. Non vi posso dire niente, se non che il brano è interpretato da Achille Diaz e Maria Borsa. (Il disco si sente male, ma d'altronde, pensate, molti dischi venivano incisi su matrici già precedentemente utilizzate!).
Ed ecco un bozzetto, di quelli che Gill amava tanto, sempre d'ispirazione militaresca, intitolato "Pasquale va a Tripoli".
E' una specie di "macchietta", genere a cui Gill d'altronde si dedicava con buonissimi risultati, coltivato allora anche da altri interpreti come Nicola Maldacea o Peppino Villani, i cui testi erano scritti, tra gli altri, da Pasquale Cinquegrana e Ferdinando Russo.
Ed ecco un bozzetto macchiettistico su quella gelosia, che tutt'ora fa tanti danni nel Sud d'Italia e non solo, perché noi, anche se ci diamo tante arie di falsa modernità, soprattutto sui difetti siamo ancora quelli di cent'anni fa.
La canzone in questione, "Nun so geluso", scritta nel 1917, è interpretata dallo stesso autore, non con un senso del ritmo rigoroso, ma questa è storia della canzone napoletana e ci dobbiamo inginocchiare. Particolarmente bella è la versione di Roberto Murolo nella sua "napoletana, antologia cronologica della canzone partenopea", uscita in vinile per la Durium tra il 1959 ed il 1963.
E' del 1918 l'ultimo brano che si ascolta in questa puntata, la bellissima e segretamente triste "'O quatto 'e maggio", su quanto i traslochi o le intimazioni modificano la nostra vita.
La versione di Gill è molto rovinata, per scoprirla meglio io consiglio di sentire quelle di Giacomo Rondinella o Tony Bruni.
Spero di farvi piacere con queste chicche napoletane, e spero, soprattutto, di contribuire a far riscoprire questo sterminato mondo.
Da oggi inizia un ciclo di tre puntate dedicate ad Armando Gill, uno dei primi, se non il primo, cantautore italo-napoletano.
Io non vi scriverò le informazioni che Paquito del Bosco dà perché, come vi ho già detto, le puntate di queste trasmissioni possono essere ascoltate in due siti internet: http://www.canzonenapoletana.rai.it/, a partire dal lunedì della settimana successiva all'emissione, quindi questa si potrà ascoltare da domani, e su http://www.international.rai.it/notturnoitaliano, cliccando sulla fascia oraria dalle 02.00 alle 03.00, dal giorno dopo l'emissione in radio, quindi dalla domenica.
Il primo brano che si ha il piacere di ascoltare è "'O surdato", una bellissima canzone, triste e malinconica, sui soldati che partono e, quando tornano, spesso non trovano le cose come le hanno lasciate.
La voce di Gill è tenorile, ma non quel tenorile tirannico, anche se con poca dolcezza.
Siamo ancora nel periodo in cui Gill scriveva solamente i versi, che spesso venivano musicati da un non meglio identificato maestro De Crescenzo.
Anche questa canzone, intitolata "Uocchie celeste", interpretata da Enrico Caruso, è stata scritta da questi autori e risale all'inizio del Novecento, mentre quella di prima era del 1899.
Nonostante i suoi anni, il materiale, rigorosamente antico, è in buone condizioni e si può notare come questo maestro De Crescenzo aveva il gusto per melodie da romanza, molto corpose. Infatti, l'interpretazione di Caruso rende assolutamente giustizia.
Armando Gill amava molto i militari, e spesso ha dedicato loro canzoni. E' il caso di questa "'O ritorno d'a Cina", tra le prime canzoni scritte e musicate autonomamente dal Gill. E' un duetto, come andavano di moda molto allora nel "cafèchantant" o "cafècantante" alla napoletana. Non vi posso dire niente, se non che il brano è interpretato da Achille Diaz e Maria Borsa. (Il disco si sente male, ma d'altronde, pensate, molti dischi venivano incisi su matrici già precedentemente utilizzate!).
Ed ecco un bozzetto, di quelli che Gill amava tanto, sempre d'ispirazione militaresca, intitolato "Pasquale va a Tripoli".
E' una specie di "macchietta", genere a cui Gill d'altronde si dedicava con buonissimi risultati, coltivato allora anche da altri interpreti come Nicola Maldacea o Peppino Villani, i cui testi erano scritti, tra gli altri, da Pasquale Cinquegrana e Ferdinando Russo.
Ed ecco un bozzetto macchiettistico su quella gelosia, che tutt'ora fa tanti danni nel Sud d'Italia e non solo, perché noi, anche se ci diamo tante arie di falsa modernità, soprattutto sui difetti siamo ancora quelli di cent'anni fa.
La canzone in questione, "Nun so geluso", scritta nel 1917, è interpretata dallo stesso autore, non con un senso del ritmo rigoroso, ma questa è storia della canzone napoletana e ci dobbiamo inginocchiare. Particolarmente bella è la versione di Roberto Murolo nella sua "napoletana, antologia cronologica della canzone partenopea", uscita in vinile per la Durium tra il 1959 ed il 1963.
E' del 1918 l'ultimo brano che si ascolta in questa puntata, la bellissima e segretamente triste "'O quatto 'e maggio", su quanto i traslochi o le intimazioni modificano la nostra vita.
La versione di Gill è molto rovinata, per scoprirla meglio io consiglio di sentire quelle di Giacomo Rondinella o Tony Bruni.
Spero di farvi piacere con queste chicche napoletane, e spero, soprattutto, di contribuire a far riscoprire questo sterminato mondo.
venerdì 25 settembre 2009
Gianni Morandi: "Grazie a tutti: il concerto" (
Carissimi lettori, mi metto di nuovo a scrivere, per raccontarvi una passione rimasta nascosta, quella per Gianni Morandi. Il pretesto è l'appena uscito "Grazie a tutti: il concerto", cd + dvd.
La prima canzone è "Vita", che già rappresenta una tappa importante nella mia formazione, perché la versione originale era contenuta nel cd "Dalla-Morandi", uno dei dischi che mi ha cullato l'infanzia.
La versione live è, come tutto questo concerto, chitarra e voce, così Morandi riesce a rendere pubblica, addirittura con un tour intero, la sua passione per questo strumento.
Subito dopo si va negli anni '60 con "Se perdo anche te", una delle cover più riuscite della musica italiana. Il ritmo è informale, festoso, ma comunque concertistico.
Dopo si ha la possibilità di ascoltare una canzone del repertorio recente di Gianni Morandi intitolata "Dimmi adesso con chi sei". Il brano si divide in due parti distinte, la prima acustica, eseguita quindi completamente live, un'altra con una base, ma non vi preoccupate, la voce di Morandi svetta in tutta la sua limpidezza.
Forse leggermente meno recente è questa "Io sono un treno", una delle più simpatiche canzoni di Morandi, dove si racconta con tenerezza la maturità ormai raggiunta dal "ragazzo di Monghidoro".
Forse, questo brano potrebbe esere dedicato alla figlia del cantante e cantautore, infatti non ha dimenticato che, sin dall'inizio ed in molti casi recentemente, Morandi si occupa personalmente di comporre il suo repertorio.
Ed eccoci a "Tenerezza", un brano che conoscevo, ma non sapevo di conoscere, risalente al primo repertorio. La versione live è molto fedele, anche se è denudata di quelle magiche orchestrazioni così tipiche di quegli anni.
Subito dopo arriva "Chimera", una delle mie canzoni preferite di Morandi, che, eseguita solo con chitarra acustica, acquista un'aura folk interessante. Spesso e volentieri, purtroppo, e "Chimera" non è un'eccezione, molti brani sono eseguiti per metà, ma è un cd che io consiglio caldamente, perché dà la possibilità, forse come pochi altri, di capire, o di convincersi, del fatto che la sua popolarità, Morandi se la merita tutta.
Subito dopo si fa un salto di trent'anni, e si ascolta "La storia mia con te", sigla di "Cento vetrine". La versione è molto bella, acustica, come quasi tutto questo cd.
Subito dopo, completamente accompagnata da una base, si ascolta "Bella signora, un brano risalente alla fine degli anni '80, classico indiscusso della carriera del nostro.
L'interpretazione è forse meno dura in alcuni punti, ma non c'è confidenzialità.
Ora Gianni Morandi, tornando in acustico, interpreta una delle canzoni del periodo di semideclino, quello degli anni '70, quello dove, forse, proprio dato che aveva meno pubblico, ha potuto interpretare non tutte, ma alcune delle sue canzoni più belle, anche se questa è un'opinione relativa e soggettiva.
Ho detto della relatività dell'opinione appena espressa, ed infatti si arriva ad una delle mie canzoni preferite di Morandi, la bellissima "Varietà", scritta per lui da Mario Lavezzi alla fine degli anni '80.
La versione live è, forse, più sofferta, sicuramente più rabbiosa, ma non direi disperata.
Ed eccoci a "Se non avessi più te", uno della grande triade dei "lentoni" morandiani degli anni '60, che, d'altronde, verrà completamente eseguita.
L'interpretazione è, più rabbiosa, meno confidenziale, ma, anche nel Gianni Morandi attuale, c'è nascosto il ricordo di quello anni '60.
Ed ecco la canzone con cui, dopo il periodo buio degli anni '70, Morandi è tornato prepotentemente alla ribalta. Il brano, ovviamente, è "Canzoni stonate". Anche questa è eseguita per metà in acustico, e Morandi lì si prende delle interessanti libertà ritmiche, e per metà coadiuvato dalla base originale del brano.
Il pubblico, alla fine, delira e Morandi continua con "Solo all'ultimo piano", un'altra delle sue canzoni più intime, che viene seguita da "La mia nemica amatissima" che, nonostante il crescendo di ritmo, è accompagnata solo dalla sua chitarra, che Morandi suona con semplicità ma bene.
Ed ecco una delle più famose e carine canzoni di Morandi, la "latinsong" "Banane e lampone", scritta da Franz Campi, cantautore toscano, il cui testo fu però modificato per renderlo cantabile da Morandi.
La versione live è interessante, soprattutto per le improvvisazioni di Morandi durante gli intervalli strumentali,ed è una delizia.
Ed eccoci ad un altro brano tratto da "Dalla-Morandi", quel "Chiedi chi erano i Beatles", scritto da Gaetano Curreri e da lui interpretata con i suoi Stadio.
I semplicissimi, ma ben fatti arpeggi della chitarra di Morandi, riescono a dare un'anima nuova ed intima anche a questo brano.
E subito dopo si va verso gli anni '60, con una ballata meravigliosa intitolata "Ma chi se ne importa". E' uno dei brani che resta più se stesso, pur nella cornice strumentale completamente diversa. Purtroppo anche di questa se ne sente solo metà, ma i brani sono tanti ed il tempo di un cd è quello che è.
Si arriva poi ad un brano recente, intitolato "Stringimi le mani", che io, e qui lo dico, non conoscevo. E' una ballata con quelle melodie che permettono come poche a Morandi di esprimersi in tutta la sua bravura e forza di voce.
Ed eccoci al primo medley dedicato agli anni '60. Il primo brano è "Se vuoi uscire una domenica", che Morandi esegue con una forza ritmica insospettabile, rispettando rigorosamente il tempo di twist. Il brano era stato anche, per chi fosse a caccia di curiosità morandiane, reinterpretato dagli Statuto. Il ritmo poi diminuisce tramite due bellissimi terzinati, intitolati "Si fa sera" e "Notte di ferragosto". Nonostante le parole quasi gridate, si può assolutamente capire, o ricordare, la bellezza e la dolcezza di queste melodie.
Ed eccoci ad "Occhi di ragazza", canzone scritta da Lucio Dalla per Gianni Morandi, e da costui lanciata e messa tra le canzoni più belle e semplici della musica italiana. La versione presentata in questa occasione, coadiuvata da una base moderna, non da quella originale anni '70, è appassionata, cantata in maniera impeccabile.
Ed eccoci ad un'altra delle mie canzoni preferite di Gianni Morandi, "la fisarmonica". Questa versione, eseguita da Gianni Morandi coadiuvato solo dalla sua chitarra e da accenni di fisarmonica, riesce a rappresentare meravigliosamente l'intimità struggente propria di questo pezzo.
Subito dopo, Morandi accenna "Al bar si muore", brano di protesta da lui inciso alla fine degli anni '60.
Subito dopo c'è un accenno a "Solo chi si ama veramente", che prelude ad una meravigliosa "Scende la pioggia", cantata, metà come sempre, insieme al pubblico.
Ed eccoci a "C'era un ragazzo che come me amava i Beatles e i Rolling Stones", scritta dal cantautore umbro Mauro Lusini e censurata dalla Rai.
Questo brano è uno di quelli che meglio rende in questa veste, chitarra e voce sola, perché in fondo ci è nato, o è facile immaginarcelo.
E' una delle più belle e sentite ballate antimilitariste, nell'ambito della canzone d'autore italiana. E' uno dei pochi brani del cd che vengono eseguiti per intero, prevalentemente in acustico, con un leggero aiuto di base solo nel finalino.
Ed eccoci a "Non son degno di te", uno dei tre "lentoni" insieme a "Se non avessi più te", "Non son degno di te" e "In ginocchio da te". La versione è veramente toccante, anche perché si sente il pubblico che gli va dietro, con un'intonazione veramente invidiabile.
Subito dopo si ritorna al presente di Gianni Morandi con "Il tempo migliore", una delle ballate di gratitudine alla vita con cui il cantante ora spesso ama deliziarci. Infatti, signori, una delle missioni dell'arte vera, è quella difarci capire il valore di questa cosa tanto disprezzata chiamata vita. Anche qui, come in tutte le recenti, dopo una prima metà acustica, Morandi è stato coadiuvato da una base.
Ed eccoci al secondo medley, che si apre con una delle sue primissime canzoni, il twist "Andavo a cento allora", seguito, senza soluzione di continuità, da "Fatti mandare dalla mamma a prendere il latte", canzone che, ormai da quarantasei anni, fa parte, irrimediabilmente, della scaletta dei concerti del Gianni nazionale. Ed eccoci, diminuendo il ritmo, all'ultimo dei "lentoni" di cui abbiamo già parlato, la bellissima "In ginocchio da te" che, come le altre due, ha dato spunto ad un "Musicarello" a cui Morandi ha partecipato.
Ed ecco uno degli inni della carriera di Morandi, la ballata autobiografica "Uno su mille". Anche qui, la seconda parte Morandi la sta eseguendo aiutato da una base, che credo, a parte la tonalità, sia quella originale. Anche questa canzone dà un messaggio importante, che non ci si deve scoraggiare mai.
Ed ecco una versione di "Non ti dimenticherò", brano originariamente cantato insieme ad Alexia, che diventa "Non vi dimenticherò", come inno di gratitudine al pubblico, ente di cui molti artisti si scordano, a cui, invece, Morandi tiene molto, forse perché ha saputo cosa significa perderlo, e credo anche di colpo.
Il cd si chiude con l'unico inedito presente, intitolato "Grazie a tutti", come le ultime tre raccolte pubblicate dal cantante emiliano.
In questo brano, se vogliamo, Morandi si avvicina allo stile di Renato Zero o del Don Backy de "L'artista" ("Vivendo cantando", 1981).
E' una ballad rock, ma molto italiana ed aperta, come serve a Morandi per dare il meglio di sé.
Mi dispiace non aver potuto parlare del dvd, come io avevo ingenuamente e forse superbamente previsto, ma spero di avervi stimolato e, perché no, spero di aver portato un piccolo contributo ad un successo annunciato.
La prima canzone è "Vita", che già rappresenta una tappa importante nella mia formazione, perché la versione originale era contenuta nel cd "Dalla-Morandi", uno dei dischi che mi ha cullato l'infanzia.
La versione live è, come tutto questo concerto, chitarra e voce, così Morandi riesce a rendere pubblica, addirittura con un tour intero, la sua passione per questo strumento.
Subito dopo si va negli anni '60 con "Se perdo anche te", una delle cover più riuscite della musica italiana. Il ritmo è informale, festoso, ma comunque concertistico.
Dopo si ha la possibilità di ascoltare una canzone del repertorio recente di Gianni Morandi intitolata "Dimmi adesso con chi sei". Il brano si divide in due parti distinte, la prima acustica, eseguita quindi completamente live, un'altra con una base, ma non vi preoccupate, la voce di Morandi svetta in tutta la sua limpidezza.
Forse leggermente meno recente è questa "Io sono un treno", una delle più simpatiche canzoni di Morandi, dove si racconta con tenerezza la maturità ormai raggiunta dal "ragazzo di Monghidoro".
Forse, questo brano potrebbe esere dedicato alla figlia del cantante e cantautore, infatti non ha dimenticato che, sin dall'inizio ed in molti casi recentemente, Morandi si occupa personalmente di comporre il suo repertorio.
Ed eccoci a "Tenerezza", un brano che conoscevo, ma non sapevo di conoscere, risalente al primo repertorio. La versione live è molto fedele, anche se è denudata di quelle magiche orchestrazioni così tipiche di quegli anni.
Subito dopo arriva "Chimera", una delle mie canzoni preferite di Morandi, che, eseguita solo con chitarra acustica, acquista un'aura folk interessante. Spesso e volentieri, purtroppo, e "Chimera" non è un'eccezione, molti brani sono eseguiti per metà, ma è un cd che io consiglio caldamente, perché dà la possibilità, forse come pochi altri, di capire, o di convincersi, del fatto che la sua popolarità, Morandi se la merita tutta.
Subito dopo si fa un salto di trent'anni, e si ascolta "La storia mia con te", sigla di "Cento vetrine". La versione è molto bella, acustica, come quasi tutto questo cd.
Subito dopo, completamente accompagnata da una base, si ascolta "Bella signora, un brano risalente alla fine degli anni '80, classico indiscusso della carriera del nostro.
L'interpretazione è forse meno dura in alcuni punti, ma non c'è confidenzialità.
Ora Gianni Morandi, tornando in acustico, interpreta una delle canzoni del periodo di semideclino, quello degli anni '70, quello dove, forse, proprio dato che aveva meno pubblico, ha potuto interpretare non tutte, ma alcune delle sue canzoni più belle, anche se questa è un'opinione relativa e soggettiva.
Ho detto della relatività dell'opinione appena espressa, ed infatti si arriva ad una delle mie canzoni preferite di Morandi, la bellissima "Varietà", scritta per lui da Mario Lavezzi alla fine degli anni '80.
La versione live è, forse, più sofferta, sicuramente più rabbiosa, ma non direi disperata.
Ed eccoci a "Se non avessi più te", uno della grande triade dei "lentoni" morandiani degli anni '60, che, d'altronde, verrà completamente eseguita.
L'interpretazione è, più rabbiosa, meno confidenziale, ma, anche nel Gianni Morandi attuale, c'è nascosto il ricordo di quello anni '60.
Ed ecco la canzone con cui, dopo il periodo buio degli anni '70, Morandi è tornato prepotentemente alla ribalta. Il brano, ovviamente, è "Canzoni stonate". Anche questa è eseguita per metà in acustico, e Morandi lì si prende delle interessanti libertà ritmiche, e per metà coadiuvato dalla base originale del brano.
Il pubblico, alla fine, delira e Morandi continua con "Solo all'ultimo piano", un'altra delle sue canzoni più intime, che viene seguita da "La mia nemica amatissima" che, nonostante il crescendo di ritmo, è accompagnata solo dalla sua chitarra, che Morandi suona con semplicità ma bene.
Ed ecco una delle più famose e carine canzoni di Morandi, la "latinsong" "Banane e lampone", scritta da Franz Campi, cantautore toscano, il cui testo fu però modificato per renderlo cantabile da Morandi.
La versione live è interessante, soprattutto per le improvvisazioni di Morandi durante gli intervalli strumentali,ed è una delizia.
Ed eccoci ad un altro brano tratto da "Dalla-Morandi", quel "Chiedi chi erano i Beatles", scritto da Gaetano Curreri e da lui interpretata con i suoi Stadio.
I semplicissimi, ma ben fatti arpeggi della chitarra di Morandi, riescono a dare un'anima nuova ed intima anche a questo brano.
E subito dopo si va verso gli anni '60, con una ballata meravigliosa intitolata "Ma chi se ne importa". E' uno dei brani che resta più se stesso, pur nella cornice strumentale completamente diversa. Purtroppo anche di questa se ne sente solo metà, ma i brani sono tanti ed il tempo di un cd è quello che è.
Si arriva poi ad un brano recente, intitolato "Stringimi le mani", che io, e qui lo dico, non conoscevo. E' una ballata con quelle melodie che permettono come poche a Morandi di esprimersi in tutta la sua bravura e forza di voce.
Ed eccoci al primo medley dedicato agli anni '60. Il primo brano è "Se vuoi uscire una domenica", che Morandi esegue con una forza ritmica insospettabile, rispettando rigorosamente il tempo di twist. Il brano era stato anche, per chi fosse a caccia di curiosità morandiane, reinterpretato dagli Statuto. Il ritmo poi diminuisce tramite due bellissimi terzinati, intitolati "Si fa sera" e "Notte di ferragosto". Nonostante le parole quasi gridate, si può assolutamente capire, o ricordare, la bellezza e la dolcezza di queste melodie.
Ed eccoci ad "Occhi di ragazza", canzone scritta da Lucio Dalla per Gianni Morandi, e da costui lanciata e messa tra le canzoni più belle e semplici della musica italiana. La versione presentata in questa occasione, coadiuvata da una base moderna, non da quella originale anni '70, è appassionata, cantata in maniera impeccabile.
Ed eccoci ad un'altra delle mie canzoni preferite di Gianni Morandi, "la fisarmonica". Questa versione, eseguita da Gianni Morandi coadiuvato solo dalla sua chitarra e da accenni di fisarmonica, riesce a rappresentare meravigliosamente l'intimità struggente propria di questo pezzo.
Subito dopo, Morandi accenna "Al bar si muore", brano di protesta da lui inciso alla fine degli anni '60.
Subito dopo c'è un accenno a "Solo chi si ama veramente", che prelude ad una meravigliosa "Scende la pioggia", cantata, metà come sempre, insieme al pubblico.
Ed eccoci a "C'era un ragazzo che come me amava i Beatles e i Rolling Stones", scritta dal cantautore umbro Mauro Lusini e censurata dalla Rai.
Questo brano è uno di quelli che meglio rende in questa veste, chitarra e voce sola, perché in fondo ci è nato, o è facile immaginarcelo.
E' una delle più belle e sentite ballate antimilitariste, nell'ambito della canzone d'autore italiana. E' uno dei pochi brani del cd che vengono eseguiti per intero, prevalentemente in acustico, con un leggero aiuto di base solo nel finalino.
Ed eccoci a "Non son degno di te", uno dei tre "lentoni" insieme a "Se non avessi più te", "Non son degno di te" e "In ginocchio da te". La versione è veramente toccante, anche perché si sente il pubblico che gli va dietro, con un'intonazione veramente invidiabile.
Subito dopo si ritorna al presente di Gianni Morandi con "Il tempo migliore", una delle ballate di gratitudine alla vita con cui il cantante ora spesso ama deliziarci. Infatti, signori, una delle missioni dell'arte vera, è quella difarci capire il valore di questa cosa tanto disprezzata chiamata vita. Anche qui, come in tutte le recenti, dopo una prima metà acustica, Morandi è stato coadiuvato da una base.
Ed eccoci al secondo medley, che si apre con una delle sue primissime canzoni, il twist "Andavo a cento allora", seguito, senza soluzione di continuità, da "Fatti mandare dalla mamma a prendere il latte", canzone che, ormai da quarantasei anni, fa parte, irrimediabilmente, della scaletta dei concerti del Gianni nazionale. Ed eccoci, diminuendo il ritmo, all'ultimo dei "lentoni" di cui abbiamo già parlato, la bellissima "In ginocchio da te" che, come le altre due, ha dato spunto ad un "Musicarello" a cui Morandi ha partecipato.
Ed ecco uno degli inni della carriera di Morandi, la ballata autobiografica "Uno su mille". Anche qui, la seconda parte Morandi la sta eseguendo aiutato da una base, che credo, a parte la tonalità, sia quella originale. Anche questa canzone dà un messaggio importante, che non ci si deve scoraggiare mai.
Ed ecco una versione di "Non ti dimenticherò", brano originariamente cantato insieme ad Alexia, che diventa "Non vi dimenticherò", come inno di gratitudine al pubblico, ente di cui molti artisti si scordano, a cui, invece, Morandi tiene molto, forse perché ha saputo cosa significa perderlo, e credo anche di colpo.
Il cd si chiude con l'unico inedito presente, intitolato "Grazie a tutti", come le ultime tre raccolte pubblicate dal cantante emiliano.
In questo brano, se vogliamo, Morandi si avvicina allo stile di Renato Zero o del Don Backy de "L'artista" ("Vivendo cantando", 1981).
E' una ballad rock, ma molto italiana ed aperta, come serve a Morandi per dare il meglio di sé.
Mi dispiace non aver potuto parlare del dvd, come io avevo ingenuamente e forse superbamente previsto, ma spero di avervi stimolato e, perché no, spero di aver portato un piccolo contributo ad un successo annunciato.
Commento alla puntata del 12 settembre di canzonenapoletana@rai.it
Carissimi lettori, continuiamo, andando indietro in verità, il percorso nelle poesie di Beniamino Canetti.
Siamo, credo, negli anni '40.
Si inizia con una bellissima canzone, interpretata dal grandissimo tenore e interprete di giacca e sceneggiata Enzo Romagnoli, che si può scoprire tramite il cd della Phonotype records "Canzona 'mbriaca". Il brano che sentiamo si intitola "Peccato", e ricorda un altro brano, scritto da Francesco Fiore ed Evemero Nardella, intitolato "Scummunicato".
Il brano, purtroppo inficiato da un traballamento di tonalità, che lo fa salire e scendere di mezzo tono in continuazione, è a tempo di habanera, ed è cantato da Romagnoli con una bellissima confidenzialità, che però, ovviamente, come è giusto che sia, non fa scordare l'impostazione di sceneggiata.
Stiamo ora sentendo una bellissima canzone interpretata da Alberto Amato, stupenda voce da riscoprire come Romagnoli. Il brano si dovrebbe intitolare "E dimme" e, come nella precedente canzone, si parla della malvagità della donna. Se ne parla, però, con una tale poeticità e con un rispetto nascosto e magico, che anche questo tema, altrimenti ingiurioso, diventa sopportabile e dolce.
La voce di Alberto Amato, come sempre, è potente, ma la potenza non è tiranna, anzi il colore dominante del timbro è una dolcezza quasi assoluta.
Ed ecco che, dopo due melodie di impronta più o meno riconducibile a Gaetano Lama e ai compagni di Libero Bovio, abbiamo il piacere di ritrovare i giri freschi, etnici e arabi di Gino Campese. Il brano è "In campagna è n'ata cosa", scritta nel 1948 e cantata da Claudio Villa, un "reuccio" giovane e confidenziale, insomma quello che piace a me.
Se io sono un'ammiratrice del "reuccio", lo devo alle mie nonne, che mi ci hanno allevato, e alla perfezione della sua voce, che mi ha soggiogato.
Ed ecco uno dei miei cantanti napoletani preferiti, il tenore Salvatore Sebastiano, in arte Franco Ricci, che ci canta una canzone su un emigrante che, tornato in attesa di ritrovare il suo vecchio amore, si scopre tradito e si lamenta con l'espressione "Che sso' turnato a ffà".
L'emigrante, ovviamente, torna dalla madre, ma il rancore per la donna traditrice è accentuato dal fatto che il protagonista è tornato apposta per sposarsi, mentre non può farlo.
Musicalmente è molto triste, ma ci sono sempre questi giri arabi, così caratteristici di Campese.
Ed ecco il giovane Sergio Bruni, con una di queste melodie, probabilmente sempre di Campese, in tonalità minore per la strofa, con il ritornello in maggiore leggermente swingato, o comunque binario ma lento.
Ma non pensate a quei brani leggeri, dovete stare attenti alle evoluzioni musicali, che richiedono ascolto profondo, profonda comprensione per essere apprezzate.
Il testo è uno dei tanti di Canetti dedicati alle rose, e si intitola "Geluso d'e rrose". E' un po' come "'E rrose parlano" di Gigi Pisano e Giuseppe Cioffi, dove le rose dànno agli innamorati alcune indicazioni su come si debbano amare.
Ed eccoci già alla fine di questo viaggio, che si conclude con "'E rrose vonno ammore", scritta nel 1950 ed interpretata da Franco Ricci. Anche questa canzone può essere paragonata a "'E rrose parlano", ma, forse, musicalmente parlando, all'interno del repertorio dell'autore, può confrontarsi con "Purtatele sti rrose".
Anche qui troviamo questi ritmi liberi, un po' "habanerados", che richiedono grande bravura interpretativa, che d'altronde non mancava a Franco Ricci.
L'altro commento, purtroppo, non si concludeva con il link al sito dell'Archivio Sonoro della Canzone napoletana, ma ve lo do subito: http://www.canzonenapoletana.rai.it/.Lì, dopo aver scaricato realplayer, potrete immergervi in queste bellissime e rarissime canzoni da riscoprire assolutamente.
Siamo, credo, negli anni '40.
Si inizia con una bellissima canzone, interpretata dal grandissimo tenore e interprete di giacca e sceneggiata Enzo Romagnoli, che si può scoprire tramite il cd della Phonotype records "Canzona 'mbriaca". Il brano che sentiamo si intitola "Peccato", e ricorda un altro brano, scritto da Francesco Fiore ed Evemero Nardella, intitolato "Scummunicato".
Il brano, purtroppo inficiato da un traballamento di tonalità, che lo fa salire e scendere di mezzo tono in continuazione, è a tempo di habanera, ed è cantato da Romagnoli con una bellissima confidenzialità, che però, ovviamente, come è giusto che sia, non fa scordare l'impostazione di sceneggiata.
Stiamo ora sentendo una bellissima canzone interpretata da Alberto Amato, stupenda voce da riscoprire come Romagnoli. Il brano si dovrebbe intitolare "E dimme" e, come nella precedente canzone, si parla della malvagità della donna. Se ne parla, però, con una tale poeticità e con un rispetto nascosto e magico, che anche questo tema, altrimenti ingiurioso, diventa sopportabile e dolce.
La voce di Alberto Amato, come sempre, è potente, ma la potenza non è tiranna, anzi il colore dominante del timbro è una dolcezza quasi assoluta.
Ed ecco che, dopo due melodie di impronta più o meno riconducibile a Gaetano Lama e ai compagni di Libero Bovio, abbiamo il piacere di ritrovare i giri freschi, etnici e arabi di Gino Campese. Il brano è "In campagna è n'ata cosa", scritta nel 1948 e cantata da Claudio Villa, un "reuccio" giovane e confidenziale, insomma quello che piace a me.
Se io sono un'ammiratrice del "reuccio", lo devo alle mie nonne, che mi ci hanno allevato, e alla perfezione della sua voce, che mi ha soggiogato.
Ed ecco uno dei miei cantanti napoletani preferiti, il tenore Salvatore Sebastiano, in arte Franco Ricci, che ci canta una canzone su un emigrante che, tornato in attesa di ritrovare il suo vecchio amore, si scopre tradito e si lamenta con l'espressione "Che sso' turnato a ffà".
L'emigrante, ovviamente, torna dalla madre, ma il rancore per la donna traditrice è accentuato dal fatto che il protagonista è tornato apposta per sposarsi, mentre non può farlo.
Musicalmente è molto triste, ma ci sono sempre questi giri arabi, così caratteristici di Campese.
Ed ecco il giovane Sergio Bruni, con una di queste melodie, probabilmente sempre di Campese, in tonalità minore per la strofa, con il ritornello in maggiore leggermente swingato, o comunque binario ma lento.
Ma non pensate a quei brani leggeri, dovete stare attenti alle evoluzioni musicali, che richiedono ascolto profondo, profonda comprensione per essere apprezzate.
Il testo è uno dei tanti di Canetti dedicati alle rose, e si intitola "Geluso d'e rrose". E' un po' come "'E rrose parlano" di Gigi Pisano e Giuseppe Cioffi, dove le rose dànno agli innamorati alcune indicazioni su come si debbano amare.
Ed eccoci già alla fine di questo viaggio, che si conclude con "'E rrose vonno ammore", scritta nel 1950 ed interpretata da Franco Ricci. Anche questa canzone può essere paragonata a "'E rrose parlano", ma, forse, musicalmente parlando, all'interno del repertorio dell'autore, può confrontarsi con "Purtatele sti rrose".
Anche qui troviamo questi ritmi liberi, un po' "habanerados", che richiedono grande bravura interpretativa, che d'altronde non mancava a Franco Ricci.
L'altro commento, purtroppo, non si concludeva con il link al sito dell'Archivio Sonoro della Canzone napoletana, ma ve lo do subito: http://www.canzonenapoletana.rai.it/.Lì, dopo aver scaricato realplayer, potrete immergervi in queste bellissime e rarissime canzoni da riscoprire assolutamente.
giovedì 24 settembre 2009
Commento alla puntata del 19 settembre di "Canzonenapoletana@rai.it
Carissimi lettori, ecco qui un commento ad una puntata della trasmissione "Canzonenapoletana@rai.it". E' presentata da Paquito del bosco, un uomo napoletano dalla voce un po' impastata, ma di quell'impastato affascinante, un po' tenorile, ma senza potenza.
La trasmissione è dedicata alle poesie di Beniamino Canetti.
Siamo nel 1951, e si parte, rigorosamente con materiali antichi in vinile, con "Chiammatela buscia", interpretata da Sergio Bruni. La voce di Bruni qui è giovanile, tenorile e dolce, quindi su di me esercita un fascino minore rispetto a quando lo si sente cantare maturo, in quel modo già faticoso. Il brano, pieno di pause ed altri abbellimenti, è stato musicato da Furio Rendine.
Per il secondo brano la qualità peggiora, quindi purtroppo non è che si può capire molto la bellezza, che comunque è notevole, di questo "O cafunciello", cantato dall'attore Lino Mattera.
Quello che si può dire è che è una tarantella, alla napoletana e quindi lenta, paragonabile a "'O zampugnaro 'nnammurato" di Armando Gill.
Dovrebbe essere una canzone su come l'amore possa mandare in rovina, o comunque sulle sfortune provocate dall'amore (ma si capiva male, lo ripeto!).
Ecco un brano di cui si può parlare precisamente. E' stata scritta nel 1953, musicata da Mario Ruccione ed interpretata da Nino Marletti. La canzone si chiama "Bella 'nnanze a stu specchio". Si parla, come spesso accade nelle canzoni napoletane, del fatto che la bellezza da sola non può causare l'amore di un innamorato, il quale, anzi, non perde occasione di ricordare alla donna la propria nullità.
Oserei dire che l'incisione del brano non è l'originale, perché gli arrangiamenti risentono di sonorità più anni '60, ma questa circostanza ci permette di apprezzare una buona voce tenorile, anche se magari non molto potente, sicuramente non da dimenticare.
Ed ecco un brano dove un innamorato tradito augura il peggio alla scellerata donna (Cunfiette amare"). La melodia messa da Giuseppe Cioffi su questo testo, abbastanza banale anche se bello, sicuramente lo innalza, perché il suo ritmo libero eleva la mente dell'ascoltatore, che è obbligato a seguire profondamente le evoluzioni musicali, aiutato anche dalla semplicità, ancora spontanea e senza mediazioni, anche se come ho detto prima meno affascinante, della voce del giovane Sergio Bruni.
Ed ecco, finalmente, la voce scura di Isa Landi, bella veramente e da riscoprire, con una canzone un po' macchiettistica, anche se Canetti non era esattamente un autore connotabile con questo genere. Il brano si chiama "'A zuccariera", e potrebbe ricordare "'a tazza 'e cafè", scritta nel 1918, ma continuamente cantata per anni e anni da artisti come Roberto Murolo, Aurelio Fierro o Renzo Arbore.
Purtroppo ora, da un vecchissimo 78 giri ridotto più che alla frutta, stiamo ascoltando la bellissima e potentissima voce di Franco Ricci (il purtroppo è legato alle condizioni del disco, non a Franco Ricci!).
Il brano che stiamo ascoltando si chiama "Tramonto a Napoli".
Posso dirvi pochissimo: il maestro campese, autore anche di questa melodia, come spesso fanno i maestri compositori napoletani classici nelle melodie tristi, usa numerose scale arabe, che permettono al cantante, che deve essere bravissimo, di esibire elasticità soprattutto nelle note tenute.
La puntata, veramente bella se non fosse l'inconveniente, d'altronde anche dal presentatore deprecato, dei dischi rovinati, si conclude con "E' bello 'o mare", brano inciso nel 1957 da Mario Abbate.
Il brano è un bolero alla cubana, ritmo che sta benissimo con le sonorità più scure che mai del vero napoletano, quello ben parlato, con tutte le sue vocali che, sotto la loro apertura estrema, nascondono questa anima triste e romantica, che forse è una delle chiavi di lettura del successo universale della canzone napoletana.
Anche questo brano riprende uno dei temi più comuni della storia della canzone napoletana, il potere salvifico del mare dalle pene d'amore.
E così è finito questo speciale napoletano, e da oggi, ve lo prometto, avrete almeno un post alla settimana dedicato alla canzone napoletana, non vissuta al livello a cui posso permettermi di viverla io, ossia da ascoltatore medio, ma vissuta al livello di collezionismo, attraverso la riscoperta di queste rarità, che, tramite il sito dell'Archivio Sonoro della Canzone Napoletana, io andrò a sentire e a commentare per voi: buona lettura e sempre viva Napoli!
La trasmissione è dedicata alle poesie di Beniamino Canetti.
Siamo nel 1951, e si parte, rigorosamente con materiali antichi in vinile, con "Chiammatela buscia", interpretata da Sergio Bruni. La voce di Bruni qui è giovanile, tenorile e dolce, quindi su di me esercita un fascino minore rispetto a quando lo si sente cantare maturo, in quel modo già faticoso. Il brano, pieno di pause ed altri abbellimenti, è stato musicato da Furio Rendine.
Per il secondo brano la qualità peggiora, quindi purtroppo non è che si può capire molto la bellezza, che comunque è notevole, di questo "O cafunciello", cantato dall'attore Lino Mattera.
Quello che si può dire è che è una tarantella, alla napoletana e quindi lenta, paragonabile a "'O zampugnaro 'nnammurato" di Armando Gill.
Dovrebbe essere una canzone su come l'amore possa mandare in rovina, o comunque sulle sfortune provocate dall'amore (ma si capiva male, lo ripeto!).
Ecco un brano di cui si può parlare precisamente. E' stata scritta nel 1953, musicata da Mario Ruccione ed interpretata da Nino Marletti. La canzone si chiama "Bella 'nnanze a stu specchio". Si parla, come spesso accade nelle canzoni napoletane, del fatto che la bellezza da sola non può causare l'amore di un innamorato, il quale, anzi, non perde occasione di ricordare alla donna la propria nullità.
Oserei dire che l'incisione del brano non è l'originale, perché gli arrangiamenti risentono di sonorità più anni '60, ma questa circostanza ci permette di apprezzare una buona voce tenorile, anche se magari non molto potente, sicuramente non da dimenticare.
Ed ecco un brano dove un innamorato tradito augura il peggio alla scellerata donna (Cunfiette amare"). La melodia messa da Giuseppe Cioffi su questo testo, abbastanza banale anche se bello, sicuramente lo innalza, perché il suo ritmo libero eleva la mente dell'ascoltatore, che è obbligato a seguire profondamente le evoluzioni musicali, aiutato anche dalla semplicità, ancora spontanea e senza mediazioni, anche se come ho detto prima meno affascinante, della voce del giovane Sergio Bruni.
Ed ecco, finalmente, la voce scura di Isa Landi, bella veramente e da riscoprire, con una canzone un po' macchiettistica, anche se Canetti non era esattamente un autore connotabile con questo genere. Il brano si chiama "'A zuccariera", e potrebbe ricordare "'a tazza 'e cafè", scritta nel 1918, ma continuamente cantata per anni e anni da artisti come Roberto Murolo, Aurelio Fierro o Renzo Arbore.
Purtroppo ora, da un vecchissimo 78 giri ridotto più che alla frutta, stiamo ascoltando la bellissima e potentissima voce di Franco Ricci (il purtroppo è legato alle condizioni del disco, non a Franco Ricci!).
Il brano che stiamo ascoltando si chiama "Tramonto a Napoli".
Posso dirvi pochissimo: il maestro campese, autore anche di questa melodia, come spesso fanno i maestri compositori napoletani classici nelle melodie tristi, usa numerose scale arabe, che permettono al cantante, che deve essere bravissimo, di esibire elasticità soprattutto nelle note tenute.
La puntata, veramente bella se non fosse l'inconveniente, d'altronde anche dal presentatore deprecato, dei dischi rovinati, si conclude con "E' bello 'o mare", brano inciso nel 1957 da Mario Abbate.
Il brano è un bolero alla cubana, ritmo che sta benissimo con le sonorità più scure che mai del vero napoletano, quello ben parlato, con tutte le sue vocali che, sotto la loro apertura estrema, nascondono questa anima triste e romantica, che forse è una delle chiavi di lettura del successo universale della canzone napoletana.
Anche questo brano riprende uno dei temi più comuni della storia della canzone napoletana, il potere salvifico del mare dalle pene d'amore.
E così è finito questo speciale napoletano, e da oggi, ve lo prometto, avrete almeno un post alla settimana dedicato alla canzone napoletana, non vissuta al livello a cui posso permettermi di viverla io, ossia da ascoltatore medio, ma vissuta al livello di collezionismo, attraverso la riscoperta di queste rarità, che, tramite il sito dell'Archivio Sonoro della Canzone Napoletana, io andrò a sentire e a commentare per voi: buona lettura e sempre viva Napoli!
domenica 20 settembre 2009
Arakne mediterranea ad Assisi
Carissimi lettori, con molto piacere oggi aggiorno questo blog di "parole in libertà" sulla musica, per riferirvi alcune cose, non tutto quanto vorrei ma questa è un'altra storia, sul concerto degli Arakne Mediterranea tenutosi ieri sera ad Assisi all'interno dell'"Endurance lifestyle".
Intanto facciamo suonare qualche nota scordata: il concerto era mal organizzato e al grande gruppo salentino non è stato dato il rilievo che questo meritava, preferendo far precedere e addirittura interrompere il turbinio delle tarantelle, da un'esibizione di un ballerino di "Amici" che, dice, abbia anche ballato con vesti succintissime.
Venendo all'esibizione degli Arakne, è stata caratterizzata da un viaggio storico nella tarantella, che è partito con un paio di tarantelle barocche, di cui una particolarmente bella in sol minore, per poi approdare ad una tarantella ottocentesca, la cosiddetta "Aria romantica", prima di arrivare al repertorio propriamente di origine contadina. Una delle caratteristiche che rendono gli Arakne apprezzabili, infatti, è proprio quella di non accontentarsi del pur sterminato repertorio di matrice contadina, volendo anche ricordare il periodo, piuttosto lungo in verità, in cui tutti i ceti sociali erano al dentro del meccanismo culturale del tarantismo.
Per quanto riguarda questa parte di repertorio, esso è caratterizzato da una maggiore lentezza, il ritmo può essere assimilato a quello della rielaborazione della Tarantella del gargano della Nuova Compagnia di canto popolare, quindi è molto lontano da queste pizziche frenetiche che molti oggi amano pazzamente.
Oltre che dalla già citata tarantella in sol minore, contenuta nel cd "Danzimania", questa sezione è stata costituita dalla "Tarantella del '600", più conosciuta nella versione della Nuova Compagnia di Canto Popolare, da un ottava siciliana, probabilmente di origine propriamente settecentesca, con riferimenti anche al tarantismo d'acqua ancora vivo nella zona di Brindisi, che però secondo molte testimonianze nei secoli passati si estendeva per tutto il Salento, e dalla già citata "Aria romantica".
Per quanto riguarda la "Tarantella del '600", un po' virtuosistici e forse anche troppo pesanti, gli interventi del flauto di Gianni Gelao.
Gli Arakne Mediterranea, fondati nel 1993 dal grande ricercatore Giorgio di Lecce, si sono caratterizzati per aver fatto effettive ricerche sugli ultimi periodi del tarantismo, con testimonianze risalenti a venti o quindici anni fa, pubblicate anche in una parte del libro "La danza della piccola taranta" ("Sensibili alle foglie, Roma, 1994), di cui ci hanno offerto un esempio con il brano "Lu Paulinu meu/ Ah uelì", ricostruzione molto fedele di strofe e "suonate" di una delle tarantate incontrate dal di Lecce.
Una mensione particolare, infine, merita in questa prima parte la particolarissima e lentissima versione de "Lu Santu Paulu", che gli Arakne cantano anche nel cd "Tre tarante" col titolo "Te pizzicau", che dal vivo è stata prevalentemente accompagnata dalle mani degli Arakne, più le nostre anche se quelle del resto del pubblico lavoravano pochissimo, mentre le mie non si tenevano. Nel cd, giusto per dimostrare l'evoluzione positiva avuta dal gruppo in questi ultimi anni, il brano ha una coda importante a pizzica di Cutrofiano, tamburo e voce, anche se la terzina di tamburello non è molto battuta, e un finalino, sulla melodia comunemente intitolata "Fimmene fimmene" a cappella.
Dopo la pausa, su cui sorvoliamo per non essere troppo polemici, si è lasciato spazio ai canti di lavoro e d'amore smettendo di parlare dei "canti di taranta" (definizione data da Imma Giannuzzi, grande voce e coordinatrice del gruppo e del concerto).
La sezione è iniziata con uno dei più indiscussi classici della musica popolare del basso salento, la tarantella "E lu sule calau calau", che gli Arakne eseguono a partire dalla rielaborazione dei "Radici", uno dei gruppi storici della prima generazione della "riproposta" salentina. Le due voci femminili, come spesso accade negli Arakne, si alternano in una sfida, anche se con strofe decise, tra il canto più rurale di Imma Giannuzzi e quello più urbano e dolce dell'altra interprete.
Ed eccoci a "Fimmene fimmene", fatta dagli Arakne con un introduzione di flauto traverso che arrivava ad avere sonorità indiane, seguita da una parte a cappella, dove io e la mia amica ci siamo sfogate a cantare, e poi da una parte, meno efficace e forte secondo me, dove gli strumenti tornavano a farla da padrone con interessanti, ma forse troppo virtuosistici, "volteggi" del tamburello e del flauto, sotto un tappeto di chitarra classica.
C'è stato poi spazio per "Lu rusciu de lu mare", ed anche lì si poteva notare l'influenza di Donatello Pisanello e dei primi Alla Bua, anche se l'arpeggio di chitarra, per quanto riguarda la scansione degli accordi, non era lo stesso. La particolarità degli Arakne su questo pezzo è che la parte mediterranea, paragonabile per certi versi a quella degli Officina Zoè in "Terra", viene cantata con un testo in griko. Purtroppo, come molti di quelli che eseguono questo brano in due o più parti, anche gli Arakne si scordano di quella che per me è la strofa più commovente di tutto il brano, ossia:
E vola, vola, vola palomma vola,
e vola, vola, vola palomma mia
ca ieu lu core meu,
ca ieu lu core meu,
ca ieu lu core meu te l'aggiu dare".
In griko, è stata anche eseguita una pizzica, sulla melodia spesso chiamata "Pizzica di Cutrofiano", intitolata dagli Arakne "Pizzica grika" o "Rirollallà". Trovo l'accostamento di questi elementi, non vorrei dire forzato ma sicuramente poco convincente.
Mi ha toccato moltissimo, invece, una rielaborazione, eseguita chitarra, mandolino e voci, di "Andramupai", canto sull'emigrazione. Purtroppo, ma qui voglio spezzare una lancia a favore del coraggio degli Arakne, quello non era il posto giusto per eseguire un brano con queste atmosfere, il pubblico, per dirla con i portoghesi, "cochicheava", sussurrava, insomma disturbava.
Si è avuta, verso la fine, "kali nifta". La versione degli Arakne, nonostante la velocità che trovo forse un po' esagerata, è riuscita a piacermi per le particolarissime strutture ritmiche della darbouka di Luigi Giannuzzi. Il brano era una specie di Sirtaki, subito abbastanza veloce in verità, ma si riusciva a palpare il romanticismo che c'è in questa serenata.
Si è avuta poi una "Pizzica di Ugento", con un accenno a "Sale", con lo stesso identico inizio di quella degli Officina Zoè in "Sangue vivo", ma non va scordato che va dato a Giorgio di Lecce, più che ad ogni altro, il merito di aver scoperto Pino Zimba e di averne capito le potenzialità.
Il concerto si è poi chiuso con una pizzica tarantata, alla Stifani, dove, contrariamente a quanto avviene nelle versioni in disco degli Arakne, come in "Tre tarante", l'armonica ha avuto una parte assolutamente da leone, relegando il violino a strumento secondario.
Dopo l'esecuzione di questa rielaborazione della tarantata, Gianni Gelao si è lasciato andare a virtuosismi con la zampogna in sol, aiutati da un interessante dialogo tra tamburello salentino e tamburo barocco.
Spero di avervi aperto gli occhi, con questo articolo che purtroppo non può essere più preciso, su una realtà che nel Salento, terra dove i voltafaccia musicali sono all'ordine del giorno, da ormai sedici anni persegue caparbiamente un proprio e preciso obbiettivo.
Per saperne di più sul gruppo degli Arakne, si può andare su http://www.araknemediterranea.com/. Buon ascolto e"attarantatevi!".
Intanto facciamo suonare qualche nota scordata: il concerto era mal organizzato e al grande gruppo salentino non è stato dato il rilievo che questo meritava, preferendo far precedere e addirittura interrompere il turbinio delle tarantelle, da un'esibizione di un ballerino di "Amici" che, dice, abbia anche ballato con vesti succintissime.
Venendo all'esibizione degli Arakne, è stata caratterizzata da un viaggio storico nella tarantella, che è partito con un paio di tarantelle barocche, di cui una particolarmente bella in sol minore, per poi approdare ad una tarantella ottocentesca, la cosiddetta "Aria romantica", prima di arrivare al repertorio propriamente di origine contadina. Una delle caratteristiche che rendono gli Arakne apprezzabili, infatti, è proprio quella di non accontentarsi del pur sterminato repertorio di matrice contadina, volendo anche ricordare il periodo, piuttosto lungo in verità, in cui tutti i ceti sociali erano al dentro del meccanismo culturale del tarantismo.
Per quanto riguarda questa parte di repertorio, esso è caratterizzato da una maggiore lentezza, il ritmo può essere assimilato a quello della rielaborazione della Tarantella del gargano della Nuova Compagnia di canto popolare, quindi è molto lontano da queste pizziche frenetiche che molti oggi amano pazzamente.
Oltre che dalla già citata tarantella in sol minore, contenuta nel cd "Danzimania", questa sezione è stata costituita dalla "Tarantella del '600", più conosciuta nella versione della Nuova Compagnia di Canto Popolare, da un ottava siciliana, probabilmente di origine propriamente settecentesca, con riferimenti anche al tarantismo d'acqua ancora vivo nella zona di Brindisi, che però secondo molte testimonianze nei secoli passati si estendeva per tutto il Salento, e dalla già citata "Aria romantica".
Per quanto riguarda la "Tarantella del '600", un po' virtuosistici e forse anche troppo pesanti, gli interventi del flauto di Gianni Gelao.
Gli Arakne Mediterranea, fondati nel 1993 dal grande ricercatore Giorgio di Lecce, si sono caratterizzati per aver fatto effettive ricerche sugli ultimi periodi del tarantismo, con testimonianze risalenti a venti o quindici anni fa, pubblicate anche in una parte del libro "La danza della piccola taranta" ("Sensibili alle foglie, Roma, 1994), di cui ci hanno offerto un esempio con il brano "Lu Paulinu meu/ Ah uelì", ricostruzione molto fedele di strofe e "suonate" di una delle tarantate incontrate dal di Lecce.
Una mensione particolare, infine, merita in questa prima parte la particolarissima e lentissima versione de "Lu Santu Paulu", che gli Arakne cantano anche nel cd "Tre tarante" col titolo "Te pizzicau", che dal vivo è stata prevalentemente accompagnata dalle mani degli Arakne, più le nostre anche se quelle del resto del pubblico lavoravano pochissimo, mentre le mie non si tenevano. Nel cd, giusto per dimostrare l'evoluzione positiva avuta dal gruppo in questi ultimi anni, il brano ha una coda importante a pizzica di Cutrofiano, tamburo e voce, anche se la terzina di tamburello non è molto battuta, e un finalino, sulla melodia comunemente intitolata "Fimmene fimmene" a cappella.
Dopo la pausa, su cui sorvoliamo per non essere troppo polemici, si è lasciato spazio ai canti di lavoro e d'amore smettendo di parlare dei "canti di taranta" (definizione data da Imma Giannuzzi, grande voce e coordinatrice del gruppo e del concerto).
La sezione è iniziata con uno dei più indiscussi classici della musica popolare del basso salento, la tarantella "E lu sule calau calau", che gli Arakne eseguono a partire dalla rielaborazione dei "Radici", uno dei gruppi storici della prima generazione della "riproposta" salentina. Le due voci femminili, come spesso accade negli Arakne, si alternano in una sfida, anche se con strofe decise, tra il canto più rurale di Imma Giannuzzi e quello più urbano e dolce dell'altra interprete.
Ed eccoci a "Fimmene fimmene", fatta dagli Arakne con un introduzione di flauto traverso che arrivava ad avere sonorità indiane, seguita da una parte a cappella, dove io e la mia amica ci siamo sfogate a cantare, e poi da una parte, meno efficace e forte secondo me, dove gli strumenti tornavano a farla da padrone con interessanti, ma forse troppo virtuosistici, "volteggi" del tamburello e del flauto, sotto un tappeto di chitarra classica.
C'è stato poi spazio per "Lu rusciu de lu mare", ed anche lì si poteva notare l'influenza di Donatello Pisanello e dei primi Alla Bua, anche se l'arpeggio di chitarra, per quanto riguarda la scansione degli accordi, non era lo stesso. La particolarità degli Arakne su questo pezzo è che la parte mediterranea, paragonabile per certi versi a quella degli Officina Zoè in "Terra", viene cantata con un testo in griko. Purtroppo, come molti di quelli che eseguono questo brano in due o più parti, anche gli Arakne si scordano di quella che per me è la strofa più commovente di tutto il brano, ossia:
E vola, vola, vola palomma vola,
e vola, vola, vola palomma mia
ca ieu lu core meu,
ca ieu lu core meu,
ca ieu lu core meu te l'aggiu dare".
In griko, è stata anche eseguita una pizzica, sulla melodia spesso chiamata "Pizzica di Cutrofiano", intitolata dagli Arakne "Pizzica grika" o "Rirollallà". Trovo l'accostamento di questi elementi, non vorrei dire forzato ma sicuramente poco convincente.
Mi ha toccato moltissimo, invece, una rielaborazione, eseguita chitarra, mandolino e voci, di "Andramupai", canto sull'emigrazione. Purtroppo, ma qui voglio spezzare una lancia a favore del coraggio degli Arakne, quello non era il posto giusto per eseguire un brano con queste atmosfere, il pubblico, per dirla con i portoghesi, "cochicheava", sussurrava, insomma disturbava.
Si è avuta, verso la fine, "kali nifta". La versione degli Arakne, nonostante la velocità che trovo forse un po' esagerata, è riuscita a piacermi per le particolarissime strutture ritmiche della darbouka di Luigi Giannuzzi. Il brano era una specie di Sirtaki, subito abbastanza veloce in verità, ma si riusciva a palpare il romanticismo che c'è in questa serenata.
Si è avuta poi una "Pizzica di Ugento", con un accenno a "Sale", con lo stesso identico inizio di quella degli Officina Zoè in "Sangue vivo", ma non va scordato che va dato a Giorgio di Lecce, più che ad ogni altro, il merito di aver scoperto Pino Zimba e di averne capito le potenzialità.
Il concerto si è poi chiuso con una pizzica tarantata, alla Stifani, dove, contrariamente a quanto avviene nelle versioni in disco degli Arakne, come in "Tre tarante", l'armonica ha avuto una parte assolutamente da leone, relegando il violino a strumento secondario.
Dopo l'esecuzione di questa rielaborazione della tarantata, Gianni Gelao si è lasciato andare a virtuosismi con la zampogna in sol, aiutati da un interessante dialogo tra tamburello salentino e tamburo barocco.
Spero di avervi aperto gli occhi, con questo articolo che purtroppo non può essere più preciso, su una realtà che nel Salento, terra dove i voltafaccia musicali sono all'ordine del giorno, da ormai sedici anni persegue caparbiamente un proprio e preciso obbiettivo.
Per saperne di più sul gruppo degli Arakne, si può andare su http://www.araknemediterranea.com/. Buon ascolto e"attarantatevi!".
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venerdì 18 settembre 2009
Al rey de Cuba
Carissimi lettori, oggi voglio tornare a scrivere per pagare un debito nei confronti di un artista che mi ha formato molto, onorandomi, in occasione dell'unica sua visita a Perugia, di un concerto privato con lui.
Mi riferisco a Compay Segundo, grande interprete, pur essendo nel ruolo di seconda voce, di musica cubana, specialmente del son, quel ritmo che proprio dalla sua natale zona orientale, ed in particolare da Santiago, si era poi irradiato in tutta l'isola ed in tutto il mondo.
Come molti di voi, pur essendo già un'appassionata di musica cubana, che avevo scoperto tramite i miei numerosi contatti con le comunità hispanoamericane di Perugia, quando ascoltai Buenavista Social club, mi trovai davanti ad un mondo nuovo. Infatti, e dato il mio proverbiale romanticismo non poteva essere altrimenti, la mia passione per la musica di quelle parti si alimentava con numerosi ascolti di "boleros" cantati da artisti come l'Orquesta aragón, José Antonio Mendez, Alberto Beltrán e, soprattutto, con l'ascolto de Los Panchos, grandissimo gruppo messicano ma di matrice molto vicina.
Tramite Buenavista, che io ebbi ben due anni prima che scoppiasse la mania generale causata dal bellissimo film di Win Wenders, scoprii il son ma soprattutto la caldissima e bassissima voce di Compay Segundo. Chi mi conosce, tra l'altro, sa benissimo la mia proverbiale passione per gli strumenti a corda. Ovviamente, fin dai primi ascolti di quel disco, mi avevano colpito le acrobazie del tres cubano di Barbarito Torres, ma soprattutto la delicatezza dell'armonico, strumento da lui inventato e concepito, suonato da Compay Segundo.
Conobbi personalmente il cantante ed autore cubano, quando questi aveva novantadue anni, in occasione di un concerto al palazzetto dello sport di Perugia.
Ebbi l'onore, veramente indimenticabile, di poter partecipare ad una conferenza stampa, tenutasi prima del concerto, dove potei apprezzare l'infinita umanità del trovatore, il quale, intenerito dalla mia giovane età e dalla mia grande passione per la sua musica, decise di concedermi una "suonata" privata con lui.
Il tutto avvenne, in presenza di suo figlio e di pochi altri intimi, in una casa del centro della città. Lì c'era un pianoforte che venne fatto accordare per l'occasione. Me ne ricordo come di uno strumento caratterizzato da un suono scuro e notturno, mi ricordo anche le mie folli improvvisazioni, aiutate dalla ritmica implacabile e rigorosa dell'armonico di Compay.
Un ricordo che mi è molto caro, anche se ormai è abbastanza sbiadito, è quello della partecipazione del grande cantante cubano ad una puntata di "Fuorigiri", trasmissione dedicata alle musiche "altre" condotta una decina di anni fa da Enzo Gentile su Radio 2.
So che parlare di musica latino-americana è ormai controcorrente perché fingete tutti di essere pizzicati, ma io amo le cose quando sono fuori moda, e anche se le investono le vostre mode fugaci, io non per questo mi perdo d'animo o giungo ad amarle per questo.
Quindi, ai lettori curiosi di scoprire quest'uomo saggio, passato dalle coltivazioni di tabacco alla musica e da un oblio ingiusto ad una fama improvvisa, io consiglio il cd "Lo mejor de la vida" edito dalla CGD. Non è una raccolta, è un album di inediti inciso subito dopo Buenavista, insieme al suo gruppo privato, il quale ancora suona, chiamandosi ancora Compay Segundo y sus muchachos. L'album in questione è uno dei dischi più hbelli ed illuminanti su come una tradizione, pur venendo a contatto con altre realtà, in questo caso specifico spesso con quella spagnola e andalusa, rimane orgogliosamente se stessa: nonostante le collaborazioni della cantante Martirio e del chitarrista Raimundo Amador, questo è un cd di son e boleros e non si scappa.
Non vi racconto la storia di Compay, perché è raccontata da molte parti. Io ho solo voluto raccontarvi un "mio" Compay Segundo, per ricordarvi semplicemente la sua esistenza... buon ascolto!
Mi riferisco a Compay Segundo, grande interprete, pur essendo nel ruolo di seconda voce, di musica cubana, specialmente del son, quel ritmo che proprio dalla sua natale zona orientale, ed in particolare da Santiago, si era poi irradiato in tutta l'isola ed in tutto il mondo.
Come molti di voi, pur essendo già un'appassionata di musica cubana, che avevo scoperto tramite i miei numerosi contatti con le comunità hispanoamericane di Perugia, quando ascoltai Buenavista Social club, mi trovai davanti ad un mondo nuovo. Infatti, e dato il mio proverbiale romanticismo non poteva essere altrimenti, la mia passione per la musica di quelle parti si alimentava con numerosi ascolti di "boleros" cantati da artisti come l'Orquesta aragón, José Antonio Mendez, Alberto Beltrán e, soprattutto, con l'ascolto de Los Panchos, grandissimo gruppo messicano ma di matrice molto vicina.
Tramite Buenavista, che io ebbi ben due anni prima che scoppiasse la mania generale causata dal bellissimo film di Win Wenders, scoprii il son ma soprattutto la caldissima e bassissima voce di Compay Segundo. Chi mi conosce, tra l'altro, sa benissimo la mia proverbiale passione per gli strumenti a corda. Ovviamente, fin dai primi ascolti di quel disco, mi avevano colpito le acrobazie del tres cubano di Barbarito Torres, ma soprattutto la delicatezza dell'armonico, strumento da lui inventato e concepito, suonato da Compay Segundo.
Conobbi personalmente il cantante ed autore cubano, quando questi aveva novantadue anni, in occasione di un concerto al palazzetto dello sport di Perugia.
Ebbi l'onore, veramente indimenticabile, di poter partecipare ad una conferenza stampa, tenutasi prima del concerto, dove potei apprezzare l'infinita umanità del trovatore, il quale, intenerito dalla mia giovane età e dalla mia grande passione per la sua musica, decise di concedermi una "suonata" privata con lui.
Il tutto avvenne, in presenza di suo figlio e di pochi altri intimi, in una casa del centro della città. Lì c'era un pianoforte che venne fatto accordare per l'occasione. Me ne ricordo come di uno strumento caratterizzato da un suono scuro e notturno, mi ricordo anche le mie folli improvvisazioni, aiutate dalla ritmica implacabile e rigorosa dell'armonico di Compay.
Un ricordo che mi è molto caro, anche se ormai è abbastanza sbiadito, è quello della partecipazione del grande cantante cubano ad una puntata di "Fuorigiri", trasmissione dedicata alle musiche "altre" condotta una decina di anni fa da Enzo Gentile su Radio 2.
So che parlare di musica latino-americana è ormai controcorrente perché fingete tutti di essere pizzicati, ma io amo le cose quando sono fuori moda, e anche se le investono le vostre mode fugaci, io non per questo mi perdo d'animo o giungo ad amarle per questo.
Quindi, ai lettori curiosi di scoprire quest'uomo saggio, passato dalle coltivazioni di tabacco alla musica e da un oblio ingiusto ad una fama improvvisa, io consiglio il cd "Lo mejor de la vida" edito dalla CGD. Non è una raccolta, è un album di inediti inciso subito dopo Buenavista, insieme al suo gruppo privato, il quale ancora suona, chiamandosi ancora Compay Segundo y sus muchachos. L'album in questione è uno dei dischi più hbelli ed illuminanti su come una tradizione, pur venendo a contatto con altre realtà, in questo caso specifico spesso con quella spagnola e andalusa, rimane orgogliosamente se stessa: nonostante le collaborazioni della cantante Martirio e del chitarrista Raimundo Amador, questo è un cd di son e boleros e non si scappa.
Non vi racconto la storia di Compay, perché è raccontata da molte parti. Io ho solo voluto raccontarvi un "mio" Compay Segundo, per ricordarvi semplicemente la sua esistenza... buon ascolto!
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