domenica 8 marzo 2009

Officina zoè: "Live in Japan"

,Voglio ora parlare di un cd che un anno fa, mi dette le stesse sensazioni che ora mi ha dato quello della Mannoia: il "Live in Japan" degli Officina Zoè.Sotto questo nome (da interpretare come Officina della vita interiore), va un gruppo salentino che, ben quindici anni fa, iniziò un lavoro di ricerca e rielaborazione serena della musica popolare del Salento leccese. Nelle varie formazioni che il gruppo ha presentato in giro per il mondo, hanno militato alcuni tra i più grandi musicisti di questa scena: da Ruggero Inchingolo (violino, mandolino e oud nel primo cd del gruppo), a Claudio Miggiano, (violino, chitarra e tres cubano nel secondo), a Dario Muci, (suonatore di bouzouki nel terzo e nel quarto). Merita un ricordo a parte il grande e storico tamburellista del gruppo Pino Zimba, scomparso di recente, che con la sua terzina ed il suo carisma, ha marcato in maniera indelebile la carriera e la personalità del gruppo, impedendo a molta parte del loro pubblico di apprezzarne gli ultimi lavori, che per me sono i migliori. Il "Live in Japan" arriva nella storia dell'Officina Zoè dopo una delle traiettorie più complete e più profondamente votate ad un'effettiva "rifunzionalizzazione" della scena della tradizione salentina. Non vanno dimenticate infatti le fondamentali colonne sonore dei film del regista anglo-salentino Edoardo Winspeare, "Sangue vivo" e "Il miracolo", che hanno permesso al gruppo di situarsi tra i primi e più prolifici "rinnovatori" della tradizione leccese, non solo e non tanto tramite l'utilizzo di sonorità inusitate o esotiche, ma attraverso una pregnante sensibilità moderna che prende avvio e fa perno sulla tradizione millenaria del capo di Leuca. Entrando concretamente all'interno del cd "Live in Japan", esso è un compendio dei primi dieci anni di storia dell'Officina Zoè, eseguito da una formazione dove, ai tre fondatori del gruppo, si affiancano giovani suonatori, la cui diversa sensibilità, pur se arriva alle orecchie di un ascoltatore attento, non fa che arricchire e personalizzare sempre più lo stile del gruppo che, non volendo competere con gli altri sul terreno della contaminazione per forza, si è voluto rendere inconfondibile tramite una ricerca profonda sui vincoli tra presente e passato, e sulle possibilità che i due elementi hanno di sconfinare l'uno nell'altro.Il cd, sunto di due dei tre concerti tenuti dall'Officina Zoè in Giappone tra l'8 e il 10 giugno 2007, ci presenta un'istantanea di un'"Officina" diversa da quella che siamo abituati a vedere in Italia, più vicina ad un certo "addolcimento" (legato concretamente al canto e alle tecniche di esecuzione del tamburello), delle parti più telluriche e forse aspre della tradizione salentina. Questa evenienza, però, permette a noi italiani di scoprire una profondità e una ritualità nascosta, che non è poi forse lontana da quella che si riscontra ne "La terra del rimorso" di Ernesto de Martino, fatte salve ovviamente le differenze di contesto. Il pubblico, forse inebriato da questo senso etereo e rituale, non viene colto in queste scene di pseudoisterismo vergognoso che in Italia accompagna un qualsiasi raduno di "pizzicati" (insopportabile denominazione degli appassionati di pizzica: un vero pizzicato soffriva, noi la sentiamo provando un piacere estetico, ricordatevelo!).Il cd si apre con una piccola (e misteriosa per chi non sa la lingua del Paese del sol levante come me) presentazione del gruppo, che cede il passo ad una belllissima e leggera Santu Paulu I (per chi conosce l'album "Terra" si tratta del Santu Paulu II, a cui è stata tagliata la parte iniziale a cappella). Nei concerti italiani il gruppo, dopo aver fatto entrare tutta la compagine strumentale in crescendo, esegue completamente il brano. Qui ne troviamo un'irripetibile versione tronca, che arriva fino al primo ritornello. Molto interessante è l'assolo di organetto che fa da ponte tra strofa e strofa, con le sue note intervallate per seconde, intervallo non temperato, a cui le nostre orecchie di ascoltatori di musica classica o leggera sono molto poco abituate. Dopo si arriva subito ad un brano a cui io sono particolarmente legata, perché si può dire che la passione viscerale che ho per l'Officina Zoè sia nata da lì: "La carrozza". E' un impegnativo brano a cappella che, sotto una struttura molto semplice, nasconde difficoltà ed enigmaticità d'interpretazione notevoli. E' un brano d'amore che, riportando alcune delle simbologie del tarantismo (il pizzico sulla pianta della mano dell'ultima strofa), introduce benissimo la "Pizzica tarantata" strumentale che, spogliata delle nacchere e del mandolino e vestita con una formazione molto vicina alla tradizione dell'orchestrina del musicoterapeuta Luigi Stifani, acquista veramente un'aria da "brano di cura". Dopodiché L'Officina ci fa scoprire una "segreta" anima "romanesca" con una bellissima musica di Cinzia Marzo (cantante storica del gruppo), cucita su un bellissimo e adattissimo testo del poeta ottocentesco salentino Giuseppe de Dominicis, intitolata "Ulia Bessu", "Vorrei essere". Il brano, interpretato senza una minima sfumatura arrabbiata, è uno dei più bei brani di corteggiamento mai scritti dove, il corteggiatore, amareggiato per non poter trasformarsi in niente che sia degno di rappresentare la grandezza del suo amore per la donna da lui amata, finisce con un molto salentino e quasi ironico "sempre pensandu a tie Linda Mia beddacore e cirvieddu m'aggiu cunsumatu" (ovvero: "sempre pensando a te, Linda mia bella,cuore e cervello mi son consumato").Si arriva poi a due brani scritti completamente dal gruppo. Il primo, "Don pizzica", è prevalentemente strumentale, con una linea di canto che, pur uscendo profondamente dalla struttura dell'assolo di organetto che ne è alla base, riesce ad armonizzarvisi benissimo. Il testo, come tutti quelli scritti da Cinzia Marzo, è un po' enigmatico: semplificando, si potrebbe dire che è un invito a riscoprire una vita secondo natura. Subito dopo arriva "Ijentu", pizzica tra le più tradizionali e travolgenti scritte negli ultimi anni (è del 2000 ed è tratta da "Sangue vivo"). Dopo un attacco a cappella, che dal vivo vede la copartecipazione della voce di Lamberto Probo, storico tamburellista del gruppo, si parte a pizzica, non proprio freneticamente, ma forse per questo viene raggiunta una catarsi maggiore. Il testo, scritto ancora una volta da Cinzia Marzo come la musica, è enigmatico e formato da strofe sciolte. E' un invito a riscoprire una certa ritualità, che forse questa eccessiva spettacolarizzazione e semplificazione della pizzica sta un po' facendo perdere per strada. Musicalmente, questo brano con gli anni ha forse un po' perso lo smalto: paradossalmente, l'aggiunta del cupacupa che dovrebbe servire a rafforzare il potere evocativo del brano, lo porta verso un'esagerata ruralità che non gli si addice più di tanto, nonostante quanto detto sopra, proprio perché nel lavoro del gruppo il presente sconfina nel passato e viceversa, quindi questo strumento causa quasi una "sopraffazione" del passato nei confronti del presente. Oltretutto, la ritualità a cui questo pezzo è legato, quasi bacchica, si dovrebbe esprimere semplicemente tramite i tamburelli, l'armonica e le castagnette (che qui sono state soppresse). Va però fatta menzione dell'impagabile tecnica armonicistica di Luigi Panico (attuale armonicista e chitarrista dell'Officina), che fa veramente ricordare le inimitabili corse del grande Umberto Panico nella versione di "Sangue vivo" (l'originale).Si torna poi ad un momento lento e raccolto, con un capolavoro dell'arte popolare salentina, il brano "T'amai", riproposto a partire dalla versione raccolta da Ernesto de Martino. Il gruppo, pur rimanendo fedele sia come armonia che come testo al documento di partenza, ne lima quegli stilemi che ne rendono abbastanza difficile l'ascolto, creando così una perfetta armonia tra musica e testo che, sebbene non propria della tradizione, secondo me sta tra i doveri di un buon ripropositore.A questo punto Zoè ci propone una scoppiettante versione della "Kaly nifta", brano griko che, a tempo di Sirtaki, torna quasi alle sue radici più segrete. Quando si esegue questo pezzo, di solito nel Salento si tende a pensare più al coinvolgimento del pubblico che al testo che si sta cantando. Va detto che l'Officina riesce sempre a tenere ben equilibrate le due cose.Si passa poi ad un altro brano tratto da "Sangue vivo": "Sale". Anche qui salta subito agli occhi la dolcezza con cui il brano viene suonato, pur in una versione accorciata, che non tiene conto delle strofe che venivano cantate da Pino Zimba. L'arrangiamento rimane, forse, un po' pretenzioso e pesante, anche per la presenza di un unico accordo durante il brano, cosa che rafforza la già di per sé pregnante ossessività del ritmo. Va detto però che questa versione è infinitamente più piacevole, soprattutto per l'assenza del tres cubano che, con il suo suono tirato, dà un senso quasi di sguaiataggine, che è stato sicuramente diminuito da un ben più italiano e adatto mandolino. Va anche segnalata, nella prima parte del brano, una strofa in più, sempre impregnata di quella saggezza popolare che sta alla base di tutto il pezzo. Senza soluzione di continuità arriva poi "Lu rusciu de lu mare", brano che Zoè ha sempre eseguito in minore, prima in tre ora in due parti. Il brano, nell'album "Terra", partiva con una parte lenta, per poi continuare con una lentissima e finire con un travolgente ritmo mediterraneo. Qui, ma anche nei concerti italiani, non vi è traccia di tellurico, il brano anzi è quasi mistico, come se tendesse ad un'altra dimensione. Qui la formazione è basata sulle corde ed i plettri, suoni che caratterizzavano fortemente i primi Zoè, quelli di "Terra". Questo ritorno a certe sonorità, rende questo brano un po' anomalo all'interno di un qualsiasi concerto del gruppo, anche se forse lo fa rimanere più impresso negli ascoltatori. Di seguito, questo tendere ad un'altra dimensione, si materializza con quello che io considero il capolavoro assoluto del gruppo: "Menevò". Il brano è stato composto per la colonna sonora del film "Il miracolo", ed è un brano in bilico tra vita e morte (non si sa se la protagonista, che ha intenzione di morire, poi lo faccia o no). La versione dal vivo, quasi sempre, purtroppo è talmente veloce che, i simbolismi fondamentali per capire le lezioni di vita che dà il brano, nonostante il dialetto spesso non comprensibile, sono nulli. La canzone, essendo a tempo di pizzica lenta, andrebbe sempre eseguita così, perché come già accennato sopra, Zoè (e Cinzia Marzo, autrice del brano in particolare), sono maestri di quell'alchimia tra i vari elementi della canzone, che può renderla unica e perfetta. Gli ultimi due brani del cd sono due perle ripescate dal primo repertorio dell'Officina. Il primo è un canto in griko, dal titolo "Nia, nia, nia", nel quale una madre si augura che i suoi figli abbiano un destino migliore di quello che le toccò. L'interpretazione in concerto, per quanto riguarda il canto, ha acquistato una dolcezza che le fa sicuramente giustizia. Al contrario, con l'aggiunta dell'organetto in sostituzione del violino, musicalmente acquista una specie di "allegria" che non le si confà. A chiudere il cd c'è una scoppiettante "Santu Paulu II" (equivalente al "Santu Paulu I" di "Terra"), che non è altro che una sapientissima divulgazione del percorso concreto della tarantata nel processo di malattia e guarigione. Anche questo brano, come quasi tutti quelli del cd, acquista con questa formazione sfoltita, in nome di quel misto di urbanità e ruralità, presente e passato, così tipico del lavoro del gruppo. Va infatti notato che, nonostante le numerose somiglianze che in questo articolo si sono trovate con la ritualità tradizionale, è sicuramente un disco caldamente sconsigliato a tutti coloro che nella riproposta cercano un'imitazione pedissequa e stereotipa dei giri e delle tecniche di Stifani o di altri informatori.
Officina zoè: Live in Japan (Polosud 2007)

Fiorella mannoia "Il movimento del dare"

Quest'anno la grande Fiorella Mannoia è tornata all'incisione di brani inediti, dopo averci comunque deliziato con due gioielli come "Concerti" e il cd brasiliano "Onda tropical", tramite un cd intitolato, direi emblematicamente, "Il movimento del dare". E' un disco dove la Mannoia torna a fare ciò che le viene meglio: interpretare le varie sfumature di un'italianità fatta da grandi autori. I brani sono stati scritti da Ligabue ("Io posso dire la mia sugli uomini), Ivano Fossati ("La bella strada"), Franco Battiato, con il suo inseparabile paroliere Mallio Sgalambro, (Il movimento del dare) ecc. Come sempre ultimamente, l'arrangiatore del disco, pedina fondamentale nel gioco della musica leggera, è stato Piero Fabrizi, autore anche di tre brani del cd (che per me sono i "meno" belli), che comunque ha saputo rispettare molto profondamente il sound di ogni singolo autore. Posso infatti testimoniare che, al primo ascolto, fatto come sempre in modo rituale nella mia cameretta senza nessuno vicino, ho potuto istintivamente riconoscere la paternità di ogni singola canzone (o quasi). Negli ultimi anni, purtroppo, devo dire che Fiorella Mannoia, anche a causa della critica che le fa chi non la conosce, di essere statica, si sta facendo prendere da una certa "sindrome del diverso da sé", cioè è portata a sperimentare ritmi che non le si confanno (dalla musica brasiliana in "Onda tropical", al reggae di "Cuore di pace" nel nuovo disco). Secondo me, ammiratrice della cantante dai "Capelli rossi" sin dagli anni di "Di terra e di vento" (fine anni Ottanta), la Mannoia da il massimo quando interpreta i cantautori, non importa quanto sia presente l'elemento rock, comunque caratterizzati da un certo attaccamento ad una tradizione italiana che si può far cominciare con De Andrè e Guccini (vedasi ad esempio il caso di Ligabue, che ha addirittura collaborato più di una volta col grande pavanese). Tornando all'ultimo cd della Mannoia, va segnalata la già citata "Capelli rossi" scritta da un ritrovato Pino Daniele che, ripensando al romanticismo di "Senza 'e te", d'altronde interpretata egregiamente dalla Mannoia in "Concerti", scrive una ballata che, per me antiquata ed appassionata di musica popolare (mi dispiace ma non dirò mai di ascoltare musica etnica, non sono razzista!), ci ricorda le antiche serenate. Anche il canto della Mannoia qui è in bilico tra la potenza della sua voce ed una dolcezza che, essendo forse poco comune nello stile normale della cantante romana, la porta ad avere un pizzichino di ruvidezza, dettata forse più da una specie di "vergogna" che da necessità interpretative. Non mi convincono i brani di Franco Battiato e Jovanotti, in quanto sono troppo profondamente legati ai loro autori (che fra l'altro io non amo). Fior fiore di cantautori, insistono sempre sul fatto che, quando si scrive per un interprete diverso da noi, si debba sempre dare il proprio conio al brano, pensando però anche alla "filosofia" interpretativa dell'interprete per cui si sceglie di scrivere. Questi due autori, sicuramente grandi (preferisco Battiato), non sono riusciti ad entrare nel mondo della Mannoia.E' comunque un cd da consigliare caldamente, perché mi ha fatto ritrovare una felicità d'ascolto profondissima, che non provavo almeno dai tempi de "Il dono" di Renato Zero.

Fausto amodei: "Per fortuna c'è il cavaliere"

Questa volta, in questa rubrica che faccio letteralmente con il cuore aperto, voglio parlarvi di uno dei dischi più semplici, geniali, curiosi e inaspettati che si possano pensare. Mi riferisco a "Per fortuna c'è il cavaliere" dell'architetto-cantautore torinese Fausto Amodei.Per rinfrescare la memoria a qualche ascoltatore sprovveduto, ricorderò che Amodei è l'autore di quel capolavoro politico che è "Per i morti di Reggio Emilia", canzone scritta nel 1960, dedicata ai cinque morti nelle dimostrazioni contro il governo Tambroni. Questo brano risale al primo periodo di Amodei, quello con il progetto "Cantacronache", nel quale si erano uniti valenti musicisti e letterati gravitanti attorno all'orbita torinese, come Italo Calvino, che scrisse il testo della bellissima "Dove vola l'avvoltoio", su musica di Sergio Liberovici, musicista dalla forte impronta mitteleuropea. Amodei, invece, si è sempre riconosciuto in una linea riconducibile a vari cantautori francesi come Brassens e Vian, dei quali ha mirabilmente tradotto alcuni pezzi in italiano ed in dialetto piemontese. La discografia di Amodei è divisa in tre periodi: quello dei cantacronache (1958-1960), quello con il Nuovo Canzoniere italiano (1963-1975) e l'ultimo, costituito solo dall'album "Per fortuna c'è il cavaliere", avutosi grazie all'interessamento del discografico udinese Walter Colle, direttore artistico e fondatore dell'etichetta Nota. Il cd si compone di quattordici tracce, quattro storiche, le altre inedite. Il cantautore, con questa scelta di brani, ha voluto tracciare un ritratto caustico della società in cui viviamo che, per quanto riguarda soprattutto gli aspetti negativi, non è cambiata quasi per niente da quella di cinquant'anni fa, anzi, le sue caratteristiche si sono esasperate.L'album è suonato semplicemente con due chitarre e un contrabbasso (ricorda molto Brassens, oltre ad certo De Andrè prima maniera). Il nostro viaggio comincia dalla fine.Il cd si chiude con un brillante valzerino parlato, sul modello della canzone "I crauti", che era già stata ripresa da Guccini, nella parodia "I fichi". Questa coincidenza si può interpretare come un omaggio al contrario tra i due, in quanto Guccini ha sempre dichiarato di aver sentito sempre Amodei come maestro insuperabile e fondamentale, e sinceramente si sente. Questo pezzo, addirittura con numeri, ripete ciò che si sa anche troppo bene: quanto Berlusconi corrompa le menti, inclusi gli ex del Partito Comunista. Le critiche che Berlusconi riceve da Amodei, sono poi le stesse che trentacinque anni fa il cantautore maestro delle rime, rifilava senza pietà ad Almirante e ai suoi discepoli, d'altronde lo stesso Berlusconi viene paragonato ad un Mussolini che minaccia la democrazia.Il nostro viaggio continuerà andando a salti, all'interno di questo piccolo gioiellino. Il prossimo brano di cui voglio parlarvi si chiama "I persuasori occulti", satira pungentissima su quanto noi siamo dipendenti dalla pubblicità che ci obbliga pure a riti stupidi, nonché a rovinarci l'economia e la salute. Infatti, il protagonista di questa surreale canzone, a tempo di swing, addirittura per ottenere la virilità si dà ad un prodotto specifico. Secondo Amodei, e non solo, la pubblicità rende schiavi, e ti ammazza, sicuramente a livello interiore, se le vai troppo dietro, magari anche letteralmente. Ovviamente, magari questo brano è un po' esagerato, forse anche un pochino surreale, ma quanti sono vicini a questa esagerazione!Un altro brano notevole è "I tre porcellini", satira sulla combutta tra Berlusconi, Bossi e Fini (che recentemente si è un pochino staccato solo perché fa il presidente della Camera). E' un brano a ritmo di valzer, tra accordi maggiori e minori, dove si racconta con sagace ironia la evidente, o più spesso nascosta, corruzione mentale e politica di questo governo. Naturalmente, si batte molto il tamburo sugli sfregi fatti alla Costituzione italiana che, per una persona che ha la Resistenza molto vicina alla sua gioventù, sono forse particolarmente oltraggiosi.E' notevole inoltre "Inno del Cda del Mmb" (leggasi Consiglio d'amministrazione del monopolio mondiale del benessere), descrizione sagace ed impietosa, anche date le conseguenze che oggi ne stiamo vivendo, di questa fretta che si ebbe durante quarant'anni, di creare aziende multinazionali. Il brano si divide in parti semiswing, alternate ad un uso geniale di alcuni brani ed inni politici che, secondo Amodei, potevano essere perfettamente integrati in un sistema di integrazione assoluta.In questo cd, però, non vi sono solo brani politici, vi sono anche notevoli brani d'amore, caratterizzati però, sempre da questa ironia, di cui già si è parlato. Esempio ne è "L'amore è un brutto vizio", brano diviso in parti quasi a marcetta, per poi svilupparsi a beguine ed a valzer. Non aspettatevi canzoni d'amore smielate, ricordatevi che Amodei è un cantautore, nel senso più vero e storico della parola, cioè rappresenta colui che riesce a parlare di tutto, non infarcendo i brani di retorica e luoghi comuni sfruttati e risfruttati.Troviamo poi un affondo meraviglioso contro la "musica facile", intitolato "Le canzoni in scatola", che potrebbe anche essere dedicato alla musica dominante ai tempi in cui Amodei aveva incominciato a cantare. Infatti, va ricordato, anche se il brano è recente, che Amodei, pur non facendo più parte di quel grande progetto che fu "Cantacronache", è rimasto sempre fedele a quella filosofia dell' "Evadere dall'evasione". Abbiamo poi un fortissimo affondo contro la politica del rubare come reato non condannabile, in nome di quell' "Educazione civica" che vuole tanto riscoprire la Gelmini. Non saprei descrivere musicalmente questo brano, ma è una complicata poliritmia, che passa tra accordi minori, maggiori e diminuiti, con la solita scioltezza di Amodei, che, nonostante faccia canzone politica, non scrive quei brani da falò che si debbono ascoltare ignorando la musica. E' un album sincero, forte, con cui o si è d'accordo, magari non su tutto, oppure non si è d'accordo, momento in cui credo che sia difficilissimo ascoltarlo.Ovviamente un disco così, non poteva non contenere un affondo contro il Paese che storicamente ha seminato nel mondo più ingiustizie: gli Stati Uniti. A questo è dedicata la ballata all'americana "Lettera di Robert Bowman", tratta da una lettera di questo vescovo cattolico ex combattente in Vietnam. La struttura di composizione del brano ricorda molto la bellissima traduzione in musica del Proclama di Camilo Torres, presente in "Se non li conoscete", album di Amodei del 1972, ristampato di recente dalla casa discografica Ala bianca, all'interno del progetto di ristampa dei migliori lp dei Dischi del sole. C'è spazio anche per alcuni affreschi di "politica privata". Innanzitutto "Mia bella signora", un swing brillante anche se un po' intristito dagli accordi minori che fanno spesso capolino. E' una denuncia della maleducazione imperante e del poco rispetto che si ha per l'arte e l'"artigianato" che si nasconde dietro una chitarra che suona da sola o con pochi strumenti d'aiuto. Di inni antimilitaristi se ne sono sentiti molti in giro, anche belli come "La guerra di Piero" dell'insuperabile De Andrè, altri brutti e pieni di retorica, addirittura il tema dell'antimilitarismo è sfruttato dalla musica leggera e di consumo. Credo però che nessuno, o quasi, abbia mai pensato a fare una ballata, particolarmente brassensiana, dove Dio parla, tramite una e-mail che Amodei immagina di ricevere appunto dall'indirizzo padreterno@aldilà.com. Il dio che parla in questo pezzo non è sicuramente quello di cui parla la Bibbia quando minaccia o compie cattiverie: è il dio umanizzato della "Buona novella" di De Andrè, con la differenza che non si parla di una religione in particolare, ma è un Dio panareligioso e "veramente cattolico" (nel senso di universale). Naturalmente, il dio in questione, si arrabbia "e manda a farsi friggerechi si proclama unto dal signore", ossia si adira con Berlusconi.Questo viaggio si conclude con la ballata che dà il titolo al cd, che è un racconto di come con l'età si cambi e ci si addolcisca, anche se, ve lo giuro, nel caso di Amodei, significa solo aver interrotto la carriera musicale attiva per circa trentun anni, non è che questo cd manchi di mordente. Il brano è sull'effetto che fanno a persone con la morale ancora salda, gli atteggiamenti del nostro capo del governo che, a quanto pare, a molti italiani, piace e non importa anche se si arrabbiano in finte piazze. Per ogni strofa si parla di situazioni concrete che, normalmente, con l'età si vivono diversamente, ma, che per Amodei, come si è già detto, grazie a Berlusconi, sono fortunatamente tornate ad essere pretesto per ballate favolose. Parlando di questo brano, dal punto di vista musicale, va detto che è una poliritmia tra un due quarti a velocità media e un altro veloce, intervallati da un'introduzione strumentale di cui, per la mia ignoranza tecnica, non riesco a codificare il ritmo. Comunque questo è un cd "di parte", che non porta sicuramente verso questo clima di unità stupida, da fare in nome dell'omologazione sulle posizioni dell'élite governativa. Se questo articolo ferisce un pochino perché troppo politico, dico subito che sono un'orgogliosa persona di sinistra, la cui opinione non cambierà sicuramente con gli strali che mi si possano tirare.
Fausto Amodei.Per fortuna c'è il cavaliere (Nota, 2005)

sfogo sul concertone di Melpignano (generico)

Carissimi salentini,volete dirmi dove è questo rispetto per la musica popolare che secondo molti di voi caratterizzerebbe la erroneamente nominata Notte della taranta?Se per voi basta prendere dei pezzi popolari per fare musica popolare, beh, preferisco il liscio romagnolo, per lo meno è un po… “pepato”! Diventiamo seri!Chi sono gli organizzatori della N. D. T.?Purtroppo è l’istituto Diego Carpitella di Melpignano che, insieme all’Associazione dei comuni della Grecìa Salentina, organizza questo scempio. Per quanto mi ricordo che de Martino difendesse la necessità di unire questa musica con altre espressioni altrettanto autentiche per scongiurarne la morte (grazie a voi sicuramente imminente!), non mi pare che dicesse di portarla verso la cadente ed ipocrita civiltà globalizzata che di vero non ha quasi niente.E’ vero: la vostra iniziativa contiene anche eventi di qualità indubbia che purtroppo a noi che stiamo fuori regione non vengono divulgati, ma io parlo per ciò che conosco meglio e che quindi posso criticare.Il concertone davanti al convento degli Agostiniani a Melpignano è stato sempre una vergogna: sono una deandreiana drogata ma non mi venite a dire che basta essere l’arrangiatore di de Andrè per fare cose eccelse in musica popolare. De Andrè prendeva la musica popolare per ciò che poteva interessare un cantautore (divino!) ma pur sempre limitato a quegli aspetti musical-linguistici che potevano essere “digeriti” da un “sistema” né migliore né peggiore, ma sicuramente diverso. Sinceramente critico aspramente la versione che Faber ha dato dell’Avemaria sarda (n.d.t. antelitteram), dove la musica popolare viene spogliata delle sue infinite e peculiari storie e dei suoi incomprensibili e misteriosi silenzi. E’ proprio questo che da nove anni si fa nel concertone finale della presunta Notte della Taranta, diventato ormai unico veicolo per quella cultura “pizzicata” che concepisce la musica salentina come qualcosa solamente da ballare e cantare incoscientemente, ed ha imposto le sue leggi quasi dappertutto. Io sto a Ottocento chilometri da voi e me ne potrei largamente infischiare dei vostri problemi e di come voi per primi stiate rovinando la vostra cultura; siccome però l’arte viene dall’anima e sono convinta che le anime non sappiano di frontiere e tantomeno della nostra stupida geografia, non solo me ne importa ma mi dispiace vedere come la maggioranza non si accorga dello scempio che è fatto ogni anno della tradizione. Si badi bene che non sono contro le contaminazioni (sono pianista e faccio pizzica!), ma una contaminazione, per essere vera, deve avvenire dalle due parti: da un lato il genere “matrice” viene arricchito dall’elemento aggiunto; dall’altro però questo si deve piegare a qualche consuetudine della matrice. E’ lodevolissimo a questo proposito il lavoro d’inserimento dell’Oud nella musica salentina portato avanti una decina d‘anni fa da quei rivoluzionari tradizionali che si chiamano Zoè: Ruggiero Inchingolo in alcuni momenti utilizzava schemi fortemente arabi (comunque presenti nella vera tradizione salentina), per poi piegare lo strumento all’esecuzione di note corte o poco melismatiche, tipiche di certo canto popolare più modernizzante. A me invece non solo pare che nel concertone della N. D. T. si tenti solo un approccio massificato alla pizzica, oltretutto suonata con batteria e basso, ma credo anche che le contaminazioni siano fatte solo per arricchire/ impoverire una tradizione, non mi sembra che nessuno la concepisca come radice: la si vuole semplicemente abbattere. Credo che se tornassimo a raccontare le infinite sofferenze e gli insondabili silenzi che si nascondono dietro questa musica, verrebbe anche naturale raccontare con quegli schemi la modernità.Siccome non mi va di fare semplicemente la distruttiva ma voglio anche proporre, ecco una serie di idee che secondo me porterebbero vantaggi alla N.D.T.Perché non facciamo dirigere l’orchestra popolare ad un salentino che abbia in sé un profondo legame con la tradizione? Che bisogno c’è di chiamare un direttore solo perché fa più odiens per quei canali che trasmettono l’evento in mondovisione? Io come direttori potrei proporre:1) Ruggiero Inchingolo (per le ragioni citate sopra);2) Antonio Castrignanò (perché oltre ad essere un grandissimo tamburellista potrebbe fare un lavoro serio sulle voci che sono una parte importante del passato e quindi anche del futuro della vera musica salentina)3) Gigi Chiriatti (grande ricercatore, tamburellista e cantante)4) Franco Teodoro Tommasi (cantante del “Canzoniere terra d’Otranto” , possessore di una delle voci più salentine che io abbia mai sentito)5) Umberto Panico (la più grande armonica del Salento, con cui si potrebbe improntare una ricerca sulll’armonica a bocca tra modernità e tradizione).Vorrei anche che si facesse a meno degli ospiti “extrapizzica” perché, come Cinzia Marzo (la più bella voce femminile del Salento) probabilmente farebbe una figura minore se provasse a fare musica leggera, così i vari Battiato, Dalla, Nannini, Pelù, non sanno neanche dove sta la pizzica di casa.Io posso raccontare per esperienza e per necessità interpretativa sempre sentita, che ogni genere musicale è un sistema a parte e l’artista è come un animale che quando si acclimata in uno, solo molto difficilmente può cambiare; il cambiamento deve tra l’altro avvenire tra sistemi affini, sennò si tocca la tanto venerata incoerenza. L’altra grande proposta sarebbe quella di istaurare un effettivo dialogo tra gli anziani e questa riproposta che sarebbe loro molto congeniale in quanto, come chiarito qualche riga più su, deve essere depurata dagli inutili eccessi della modernità. Il concertone quindi diventerebbe una festa identitaria salentina, amata sia da coloro che attualmente vanno stupidamente pazzi per la N.D.T così come è, sia da noi che ora le storciamo il naso e piangiamo tutte le volte perché un po’ di Salento se ne muore. La perugina pizzicata

riflessioni sullaparte iniziale del concertone della Notte della taranta 2008

Voglio iniziare con il chiarire che questo scritto dovrebbe intitolarsi "Riflessioni sulla parte che ho potuto vedere della parte iniziale del concertone della notte della taranta". Infatti nessuno dei tre canali che lo mandava in diretta lo ha emesso rispettando i minimi standard di sopportabilità: direi di più, nessun canale ha saputo dimostrare di aver capito l'importanza che questo evento ha per la promozione della (pensate un po'...) musica salentina! Tutti infatti (Telerama, Puglia channel, salentoweb.tv), per un motivo o per un altro, sono fuggiti da qualche regola che bisognerebbe seguire per poter chiamare diretta una diretta.Innanzitutto (questo va al di là di ciò che vedrete più avanti ed è la cosa più indecente), il concertone, da parte delle tv terrestri e satellitari, è stato trasmesso a partire dalle 20.00, mentre tutti noi eravamo informati dell'inizio delle trasmissioni alle 21.00. Non parlerò qui di Salentoweb.tv, perché è una televisione appena nata e si capisce che possa avere dei problemi (anche se questi mi hanno costretto a vedere il concertone con un sacco di problemi negli altri canali suddetti).Non so che cosa mi sono persa esattamente, ma, andando già nel campo a me più proprio, dirò che ho sentito parte della "pizzica paccia" (secondo la nomenclatura degli Zoè nel cd "Crita"), interpretata (credo) da Giovanni Avantaggiato. Dopo di lui è salito sul palco Uccio Aloisi, che ha eseguito vari pezzi, dei quali ci siamo potuti godere in relativa pace, ossia disturbati solo da un leggero brusio di un pubblico comunque irrispettoso ed incivile, solamente "Quannu te llai la faccia la matina", "La barca di Roma", "La fontanella", "Vorrei volare" (insopportabile serie di stornelli in italiano di una lentezza da far venire sonno). Va da sé che la bellissima (lo suppongo dalle poche note che me ne arrivavano in sottofondo ad insulse interviste) pizzica in fa maggiore dove Antonio Calzolaro mandolinista dell'Uccio Aloisi gruppu si metteva in mostra e gli stupendi stornelli alla moda de lu Ucciu, non ce li abbiano fatti godere in nome della voglia paradossale che hanno i presentatori, e penso anche molti ascoltatori, di vedere facce che vedono tutti i giorni, solo perché carpite nel Backstage del concertone.Dopo Uccio Aloisi, sono arrivati gli insuperabili Zoè (complimenti, sempre complimenti!). Hanno iniziato con una scoppiettante "Don pizzica" (ma com'è che più fate cose grosse e più vi caricate?). Questa sarebbe la domanda che farei a Cinzia e compagni, se li incontrassi a breve (credo che non succederà, mannaja lu munnu!). Anche questa goduria (per usare un termine pronunciato da Benigni nella sua presentazione e lettura di "Pierino e il lupo"), è stata interrotta da varie interviste (fra cui una a Nando Popu dei S.S.S., leggasi Sud Sound System), le quali ci hanno inficiato anche l'ascolto del secondo brano, un'altrettanto scoppiettante versione di "Ijentu". Vi posso giurare che in tre anni che seguo l'Officina, non li ho mai visti così carichi, contenti e decisi a giocare con le voci e con gli strumenti (durante "Don pizzica" Giorgio Doveri, il "toscanaccio", violinista e mandolinista, sembrava davvero posseduto: quel re centrale (secondo le posizioni della tastiera del pianoforte) non lo lasciava mai, facendo sembrare che il violino fosse un terzo tamburello). Il godimento pieno è iniziato quando l'Officina, ligia alla sua filosofia di non fare concessioni a chi vuole solo pizzica, ha interpretato, in una versione che al primo ascolto sinceramente non mi ha convinto, anche se ha creato una grande atmosfera, "Mamma la luna" brano "minore" di "Sangue vivo". Questo pezzo, se lo divido nelle sue singole parti, mi convince profondamente, in quanto, il mandolinista, era riuscito a ricreare con una mandola italiana, ciò che il grande Inchingolo faceva con l'oud arabo. Paradossalmente, però, forse, ciò che non mi convince sono quelle stesse scale di mandola, troppo blues per essere immesse in un brano dalla struttura assolutamente salentina. Di seguito l'Officina ha eseguito "Sale", in una versione da brivido, come sempre ultimamente, anche se stringata. Fortunatamente, però, il taglio non ha riguardato l'ultima parte ("Menai le razze e lu cielu tuccai..."), che secondo me è la più filosofica, forte e profonda del brano, perché ci ricorda l'esistenza di un atteggiamento che non amiamo più (uno dei tanti da dover includere in un'ipotetica lista): quello dell'umile. L'Officina poi ha fatto un regalo a tutta la gente lì presente e a noi che li seguivamo (siete sicuri di non aver regalato una perla a qualche ignorante di troppo?), eseguendo la "Pizzica de santu Sebastianu", brano che farà parte del prossimo cd di Zoè, che, secondo affermazioni di Lamberto Probo, dovrebbe uscire ad aprile 2009. Per quanto riguarda il brano è una tipica pizzica in minore (re minore) alla Donatello Pisanello, tipo "Don Pizzica" di cui in parte riprende il giro arricchendolo di un interessante passaggio in fa. Il suo testo dovrebbe essere tradizionale, perché è troppo semplice per venire fuori in quest'epoca di cose mastodontiche partorite a sproposito, nonché per l'assenza di metafore o doppie letture, così tipiche di certi testi di Cinzia Marzo ("Menevò", "Ijentu"). Le affermazioni che ho fatto per quanto riguarda il testo, sono desunte da quel pochino che ne ho capito (Cinzia marzo, persona di solito così simpatica, ha molta poca pietà di noi poveracci non salentini, e canta interpretando molto bene ma mangiandosi tutto quello che si può mangiare!).Dopo l'Officinata (termine di conio personale per indicare l'ascolto breve o lungo di Zoè) è stato proiettato il documentario, purtroppo solo un cortometraggio, girato dal grande Edoardo Winspeare, in ricordo di Pino Zimba. Anche questo è stato inficiato dalle mostruosità del backstage. Per quello che se ne è potuto intuire era un assemblaggio di spezzoni di "pizzicata" e "Sangue vivo", "condito" da interviste a persone che, in vari ruoli, sono state vicine a Zimba. C'è stata ad esempio un'intervista di Raffaella Aprile che, come si vede, non era forse mai entrata nella vera filosofia della pizzica come cura, quindi come qualcosa di lungo. Mi dispiace dover interrompere qui queste riflessioni, ma nelle condizioni in cui l'ho vista, questo era veramente il massimo che si potesse dire della parte iniziale del concertone di Melpignano 2008.

le memorie della terra (recensione concerto

Ieri sera (30 agosto 2008) a Perugia è sbarcato un altro salento, quello che non balla mai la pizzica, o meglio non la balla con l'incoscienza con cui la ballano molti ora. Mi riferisco allo spettacolo "Le memorie della terra", andato in scena nella bellissima piazzetta di Palazzo Penna. Incominciamo dagli interpreti: Anna Cinzia Villani, voce recitante e cantante, nonché abilissima organettista; Enrico Noviello, voce e chitarra battente; Daniele Girasoli, voce, tamburello, cucchiai, armonica; Maria Mazzotta, voce; Vincenzo Santoro, voce recitante. Tutti questi musicisti sono caratterizzati da una grossa coscienza dell'importanza del passato nella valutazione e riesecuzione del canto popolare, anche se poi alcuni di loro si muovono anche in ensemble molto moderni, come la Mazzotta che fa parte degli Adria (gruppo di musica popolare moderna) o del Canzoniere Grecanico Salentino (nuova formazione). Lo spettacolo si è diviso in due parti: la prima riguardava il tabacco ed il lavoro in genere, la seconda ha riguardato le lotte che anche nel salento segnarono la fine della seconda guerra mondiale ed il dopoguerra. Oltre ai due classici indiscussi del canto di lotta salentino, "Fimmene fimmene" e "E lu sule calau calau", si sono sentiti canti che, con una pungente ironia e senza mai cadere nel topos sinistroide dell'"affossate il sistema", rivendicavano, molto più semplicemente una vita migliore.Solo adesso mi sono decisa a finire queste riflessioni, purtroppo forse un po' tardi per poter almanaccare giustamente tutte le sensazioni che ebbi quel giorno. Dei brani che non conoscevo mi ha colpito "La cupacupa", che ho poi comunque ritrovato nel cd di Anna Cinzia Villani "Ninnamorella", anche se in una versione un po' diversa e forse deludente. La versione in quartetto (quintetto se ci aggiungiamo le mani del pubblico che non smettevano di battere trainate dalle mie) dà un'aria un po' napoletana al pezzo che, al posto della cupacupa citata all'interno della canzone, è stata accompagnata percussivamente dal tamburello che andava quasi a tammurriata. Durante tutto il concerto non si è mai sentita una chitarra classica (figuratevi il canto "Arneo", di provenienza alpina, sull'aria di "Monte Canino" accomp'agnato con una battente!). Mi è piaciuta particolarmente anche una canzone di cui non so il titolo, sull'aria del canto alla Madonna di Montevergine, che inneggiava a comunisti e socialisti. Con questo spettacolo si capiscono due cose: innanzitutto non si deve essere retorici o violenti quando si fa una canzone politica, anzi la si può fare anche con un'ironia immensa; poi non è obbligatorio fare tutto un concerto di pizzica per essere graditi dal pubblico (da un certo pubblico ovviamente). Comunque il gruppo una pizzica ce l'ha regalata, ed io ho ballato da seduta (veramente!)

l'altra pizzica

Oggi la musica, come molti altri prodotti, è qualcosa che si consuma: la si sceglie (o si fa finta di sceglierla), la si divora e la si dimentica. Per fortuna in questo calderone di poca qualità c’è gente che con la propria bravura obbliga ancora l’ascoltatore a fare ciò che non è più di moda: “digerire”, pensare e sentire profondamente il proprio genere di musica. E’ questo il caso di tre gruppi di pizzica: “Malicanti”, “Ballati tutti quanti” e “doi te mazze” Tutti e tre hanno inciso i rispettivi cd (addirittura i “Ballati tutti quanti” ne hanno fatti due!), ma naturalmente, essendo tutto materiale autoprodotto perché poco commerciale, ad eccezione dei “Malicanti” che godono del placet dell’Egea e quindi si reperiscono miracolosamente anche a Perugia, si deve comperare in bancarelle o in negozi specializzati “’ntra lu Salentu”. I “Malicanti” difatti della terna è il gruppo che conosco meglio, appunto per le ragioni citate sopra. E’ un ensemble popolare purissimo (addirittura hanno imparato direttamente dai depositari ed usano le loro tecniche di canto oltre a strumenti come le battenti con scordino!), formato da quattro musicisti pugliesi, sia salentini che della provincia del Gargano, e da un suonatore di strumenti a mantice proveniente da Roma. Sono un gruppo che io stessa giudico troppo puro, poiché non dà ai canti un’interpretazione moderna né compatibile con molte sensibilità attuali, ma sinceramente, rispetto alla scuola del “tutto lecito” incarnata anche da gente che si dice ricercatore come Daniele Durante o Giovanna Marini, preferisco una riproposizione fedele sin nei suoi minimi particolari. L’unico grande limite che forse si può imputare a questo tipo di approccio, è quello di non portare verso una creatività rispettosa: quando si crea si ha troppa voglia di stravolgere in modo spesso gratuito, canti che magari sarebbero molto più belli eseguiti filologicamente. Difatti l’unico pezzo che mi convince molto poco (per non dire per niente) del cd “Canti tradizionali delle Puglie” è una versione quasi a pizzica della bellissima “Ieri sira”, della quale purtroppo devo dire di non conoscere la versione dell’inimitabile Niceta Petrachi (“Simpatichina”), da cui tutti dicono di averla imparata. Ciò non toglie che l’album dei “malicanti” abbia un grande valore sia musicale che di testimonianza, in quanto riporta tre voci autentiche (su Uccio Aloisi ho i miei dubbi) della tradizione alla giusta ribalta. Mi riferisco ad Andrea Sacco (anima dei cantori di Carpino), Gigi Stifani (mesciu de lu tarantismu) e appunto Uccio Aloisi il quale, denudato dell’apparato di ripropposta che gli è stato cucito addosso, acquista un’autenticità che me lo fa rispettare sicuramente, anche se rimango dell’opinione che non è nemmeno paragonabile ad altre voci popolari come la già citata “Simpatichina”. Il bello di “Canti tradizionali delle Puglie” è che oltre allo sfruttatissimo repertorio leccese-carpinese (quest’ultimo eseguito con testi meno comuni) riporta alla ribalta un piccolo gioiello della tradizione brindisina: la pizzica di San Vito dei Normanni. Per quanto riguarda i “Ballati tutti quanti” si tratta già di riproposta propriamente detta: oltre alla tradizione vi è anche la creatività soprattutto da parte di Luca Rizzello (violinista), il quale rinuncia alle sonorità irlandesi che avevano caratterizzato l’ultima fase della sua collaborazione con gli Alla Bua, (si pensi al bellissimo “Limamo”), in favore di un suono sicuramente più salentino, che lascia però sempre spazio alle sue inconfondibili improvvisazioni. Anche in questo gruppo gli anziani hanno una grande importanza, in quanto esso ruota attorno alla figura di nonna Pippina Guida, componente anche dei cantori dei “Menamenamò”, la quale ha conservato migliaia di canti di tradizione che arricchiscono alcuni tra i più importanti archivi di musica popolare salentina. Questo gruppo tra l’altro ha la particolarità di essere completamente su base familiare.I “Doi te mazze” sono nati all’interno dell’Officina Zoè, come progetto parallelo di Giorgio Doveri e Donatello Pisanello (violino e mandolino il primo ed organetti e chitarra il secondo), per ricreare quella semplicità che spesso si trovava nei balli d’intrattenimento, cioè non propedeutici al tarantismo. Nonostante questo rifarsi a Stifani e Cecere, musicisti del tarantismo storico, il duo non disdegna di riproporre pezzi in arrangiamenti molto personali (sempre fidedigni con la tradizione). Questo esempio dimostra oltretutto l’inutilità di molte delle “leggi” non scritte della riproposta: se sentite la loro “Inviolinata”, pizzica tarantata eseguita solo con organetto e violino, scommetto che a nessuno mancherà il beneamato “tamburieddu”. Da questo piccolo excursus nelle mie ultime scoperte, si può capire come, nonostante la tv ci voglia far pensare alla musica salentina come qualcosa di limitato e massificato, in terra di Puglia ci sia ancora chi testardamente la vuole raccontare bisbigliando ma pretendendo di essere ascoltato con coscienza.La perugina pizzicata