mercoledì 28 novembre 2012
Francesco Guccini: L'ultima Thule
Carissimi lettori, ieri 27 novembre è uscito l'ultimo (è veramente l'ultimo o così sembra) album di Francesco Guccini.
Sinceramente, da subito, grido al capolavoro. Il cd ha quella tenerezza poetica e folgorante a cui Guccini ci ha sempre abituato, ma che, nonostante questo, resta sempre miracolosamente nuova.
La prima traccia, "Canzone di notte n. 4", è la definitiva sulle sue esperienze notturne, dedicata prevalentemente alle notti pavanesi, sia rivissute teneramente e crepuscolarmente dell'infanzia, sia quelle attuali.
Si inizia con la riproduzione del rito dell'interruzione della lettura notturna, abitudine che il bambino Guccini portava avanti quasi con caparbietà.
Se dovessi descrivere il brano musicalmente lo definirei una rivisitazione di "Canzone delle osterie di fuori porta", ma il parallelismo è per una parte minima.
La voce di Guccini è profonda, forse non perfetta ma penetrante come scure.
Qui c'è un tempo che oscilla tra il passato e il futuro, quello che una nuova politica miope avrebbe voluto o vorrebbe farci dimenticare.
I testi hanno sempre quella tensione tra il semplice ed il letterario, tra il colto ed il popolare, insomma è tornato il Guccini migliore.
La stessa tenerezza crepuscolare, forse anche più accentuata, la si ritrova in "L'ultima volta", dialogo con una persona che non si vede ma si immagina lì vicina.
Anche qui i "valichi dell'Appennino" sono i protagonisti, ricordando e aggiornando un classico gucciniano come "Incontro" (in fondo, riducendone molto lo spessore e la complessità potremmo affermare che questo cd ricorda molto il mitico "Radici" del 1972, disco che quest'anno compie quarant'anni).
"L'ultima volta" è uno di quei brani "fra la Via Emilia e il West", dove quel limite tra realtà e fantasia si sfiora, ma stavolta lo si fa tramite la musica, caratterizzata la fortissimi richiami al bob Dylan folk, anche grazie all'armonica a bocca. Particolare, alla fine del penultimo giro melodico, sentire il rumore del Limentra, fiume che scorre al Mulino dei Guccini, dove il cd è stato registrato (particolare che lo lega ancora una volta alle "Radici" del cantautore.
A proposito di "Radici" Guccini ha una grande passione per tutto ciò che è tradizionale appenninico, incluso il dialetto, da cui ha tradotto la terza traccia di questo cd, la commovente "Su in collina", narrazione di un incontro tra partigiani che si trasforma in lutto e funerale improvvisato.
La musica, di juan Carlos "flaco" Biondini, è una ballata che, almeno a me, ha fatto venire una lacrima agli occhi.
Si sente il cammino nel ghiaccio sulla collina, la batteria e tutta la ritmica simula quei passi, forse con una canzone così uno potrebbe riavere rispetto per la Resistenza (cosa che ci hanno fatto dimenticare in questi vent'anni bui).
Il brano ha due particolarità puramente musicali che ne caratterizzano l'inizio e la fine: all'inizio si sente una ghironda, che porta una melodia che potrebbe ricordare certe ballate celtiche, mentre il finale rimanda alla "Primavera di Praga" in "Quasi come Dumas" (1989).
La quarta traccia continua il discorso, raccontando, tra tenerezza e allegria, il 25 aprile 1945, dove un padre ritorna finalmente a casa, anche se la sua vita non è più la stessa. In questo 24 aprile, ritorna una gran parte del XX secolo, dalla carezza di Giovanni XIII allo sbarco sulla luna.
La quinta traccia è una tarantelluccia circense dal titolo "Il testamento di un pagliaccio", che in molti casi ricorda Berlusconi.
Il brano l'avevamo già sentito negli ultimi anni ai concerti, cosa che vale anche per la bellissima "Su in collina".
"Il testamento di un pagliaccio" è un miscuglio tra l'Apocalisse che diventa paradosso e una descrizione impietosa di questi vent'anni che credo siano stati fortemente traumatici per chi abbia vissuto invece quelli della forte creatività del boom economico.
Non so se pensare che il pagliaccio è Berlusconi oppure qualcuno che abbia lottato contro di lui.
Subito dopo si torna alla tenerezza e si torna a cantare la notte.
Su un giro di accordi in maggiore che non disdegna passaggi in minore che fanno da ponte, si raccontano le notti vissute in vario modo, ma rispetto all'iniziale "Canzone di notte n. 4" è meno personale.
L'accompagnamento è cantautorale, diventa leggermente pop solo in una parte intermedia a metà brano, anche laddove è moderno sgorga sempre quell'odore di ballata americana così tipico a Guccini, che gli permette di far defluire il suo fiume di parole godute, quello che manca a questo rap che, se da una parte riporta una socializzazione della musica, dall'altra distrugge l'italiano e la sua poesia.
Particolare è l'esperienza di sentire una chitarra elettrica leggermente "effettata", ma l'atmosfera prevalentemente è quella di un pop che si impregna di jazz e folk, due mondi che, insieme all'America Latina, forse costituiscono i perni della musicalità del "maestrone".
Con un pianoforte accompagnato da leggeri canti d'uccello (o qualcosa che sembra un canto d'uccello) inizia un ritratto ironico e tenerissimo degli artisti, tra cui Guccini, forse per civetteria, non si conta definendosi "umile artigiano" (dopo essersi definito "piccolo baccelliere" in "Addio", brano che chiudeva "Stagioni" cd del 2000).
Il brano "Artisti" è un valzer al limite tra argentina e Francia, ed è caratterizzato da una chitarra classica quasi magica nonché dal bandoneón
Dubito che noi, ammiratori di Guccini, possiamo condividere l'ultima parte del testo, ma ognuno sente la propria arte come vuole (dovete ascoltare per capire se darmi ragione o no).
L'ultima traccia de "L'ultima thule" (questo è il titolo del cd di cui abbiamo parlato) è, musicalmente, un miscuglio tra "Cristoforo Colombo" (2004, "Ritratti") e "Bisanzio" ("Metropolis", 1981).
Il protagonista è un navigatore disincantato, che non ha più interesse nel presente, che forse è l'incarnazione metaforica del Guccini che con questo cd saluta la musica come arte a cui dedicarsi costantemente, ma forse saluta anche altro (e non è la mania alla Vasco Rossi per stare sempre sotto i riflettori).
C'è comunque la speranza che il protagonista faccia qualcosa, ma è come se si tendesse verso l'intimo ed il privato.
Credo sia raro avere la sensazione che in un cd tu non avresti cambiato niente, a me questo l'ha data. Guccini ci saluta in maniera sublime, da godere e da tenere da conto per quando ci vorremo ubriacare di un'essenza che probabilmente non odoreremo più.
lunedì 26 novembre 2012
Qualche parola sulle primarie del centrosinistra
Carissimi lettori, oggi voglio aggiornare il blog, anche se non si parla di musica.
Mi va di parlare un po' di ciò che emerge dalle primarie del centrosinistra.
Avevamo la possibilità di cambiare la maniera di fare e di respirare la politica, votando Nichi Vendola, non l'abbiamo fatto per il nostro atavico senso del conservatorismo.
Abbiamo preferito votare per un Bersani "crozziano", e dare uno spazio ad un pervertito come Matteo Renzi, che fa paura e che oltretutto non ha niente di sinistra.
Renzi è colui che dà questa politica di stretto respiro che abbiamo avuto per decenni tramite Berlusconi. Se quest'ultimo usava il linguaggio del calcio, il fiorentino utilizza quello delle macchine, come se le persone fossero cose ssenza valore, quando ogni persona porta in sé una storia ed una cultura, che è ciò che ci ha fatto diversi dalla destra.
Quello che Vendola ridà alla politica, che ad un paese così pieno di pregiudizi fa paura, è il sogno, è il guardare oltre, è l'utilizzare la propria cultura ed il proprio passato come mezzo per riavere un nuovo respiro nel futuro.
Questo concetto fondamentale ci è stato negato, ormai chi ci lo vuole ridare ci fa paura.
Vogliamo rottamare tutto, come se non capissimo che noi, quelle poche volte che contiamo, lo facciamo ancora guardando, rispettando ed utilizzando il nostro passato.
Auguri a Bersani, che sosterrò, ma che mi deve convincere, smettendola di parlare come un automa televisivo.
Mi va di parlare un po' di ciò che emerge dalle primarie del centrosinistra.
Avevamo la possibilità di cambiare la maniera di fare e di respirare la politica, votando Nichi Vendola, non l'abbiamo fatto per il nostro atavico senso del conservatorismo.
Abbiamo preferito votare per un Bersani "crozziano", e dare uno spazio ad un pervertito come Matteo Renzi, che fa paura e che oltretutto non ha niente di sinistra.
Renzi è colui che dà questa politica di stretto respiro che abbiamo avuto per decenni tramite Berlusconi. Se quest'ultimo usava il linguaggio del calcio, il fiorentino utilizza quello delle macchine, come se le persone fossero cose ssenza valore, quando ogni persona porta in sé una storia ed una cultura, che è ciò che ci ha fatto diversi dalla destra.
Quello che Vendola ridà alla politica, che ad un paese così pieno di pregiudizi fa paura, è il sogno, è il guardare oltre, è l'utilizzare la propria cultura ed il proprio passato come mezzo per riavere un nuovo respiro nel futuro.
Questo concetto fondamentale ci è stato negato, ormai chi ci lo vuole ridare ci fa paura.
Vogliamo rottamare tutto, come se non capissimo che noi, quelle poche volte che contiamo, lo facciamo ancora guardando, rispettando ed utilizzando il nostro passato.
Auguri a Bersani, che sosterrò, ma che mi deve convincere, smettendola di parlare come un automa televisivo.
lunedì 5 novembre 2012
Parlando ancora di "Pizzica e dintorni".
Carissimi lettori, avevo pensato che non sarebbe stato utile tornarci, mentre vedo che ancora non si è capito, quindi ci torno.
Voglio tentare di spiegare ancora meglio il perché della scelta del nome della mia ultima "creatura", il sito e (soprattutto) la web radio monotematica "Pizzica e dintorni".
La pizzica, ballo e genere musicale di tradizione contadina della Puglia centromeridionale (diffuso anche in Lucania), è oggi il ballo e genere musicale contadino con maggiore diffusione e notorietà (basta con la definizione di "moda", il suo perpetuarsi ed il suo espandersi dovrebbe far riflettere sul fatto che forse dietro a tutto ciò c'è qualcosa di più).
Non starò qui a spiegare come la penso su come debba essere divulgata, anche perché questi sono discorsi stantii che spesso denotano purismo velleitario e simile alla morte.
Il mio canale è monotematico su repertorio popolare (in verità più di una volta vado nel colto, con dischi come "Pace e non più guerra" di Riccardo Marasco), comunque tutto è visto da un'ottica popolare, per quanto moderna.
Il progetto iniziale aveva altre dimensioni, che si sono dovute rimpicciolire anche per colpa di leggi ed attori miopi.
Comunque, con l'enfatizzare la "pizzica" nel nome, si è solo voluto riconoscere al Salento (e alla Puglia tutta) la sua mole di investimento culturale, che ha fatto sì che questa musica fosse reperibile e conosciuta da un numero di persone notevole (ripeto che qui non è il caso di discutere su certe divulgazioni poco accettabili, ognuno in fondo è libero di fare ciò che vuole).
Se avessi chiamato il mio progetto "Tarantella e dintorni", sicuramente avrei potuto generare più equivoci, perché non si può prescindere nella storia della tarantella dai contributi colti (come Rossini) o semicolti (come la grande canzone napoletana dell'Ottocento).
Essendo che il mio canale, orgogliosamente trasmette solo repertorio contadino (o comunque interpretato da ricercatori di repertorio contadino) mi è sembrato giusto dare risalto a quello che, lo si voglia o no, lo si voglia condividere o no, è il ballo contadino più famoso oggi.
Con la definizione di "ballo contadino" non sto ovviamente dicendo che la pizzica sia rimasta ciò che era, sto solo dando risalto alle sue radici.
Perché non ho voluto inserire il "folk leccese".
Innanzitutto non ho voluto inserire niente che ricordasse il cosiddetto "nuovo liscio", quello che va da Casadei in poi, che nel Salento è rappresentato da gente come i Petrachi (Enzo e Bruno), Ginone, Gino Ingrosso, Gigetto da Noa, Cesare Monte. Sinceramente ciò che andava divulgato era il folklore suonato con strumenti contadini che, paradossalmente, pur essendo quello che riempie le piazze e che si sta conquistando uno spazio crescente nel circuito della "world music" (termine odioso, ambiguo e per me di significato nullo), non ha uno spazio di divulgazione nei media, nel web c'era solo qualcosina fra l'altro abbastanza superficiale.
Per il liscio, come è giusto che sia, invece vi sono fiumi di canali, di vario spessore ma devo dire, nella maggioranza dei casi, di grandissima qualità.
Perché non metto gruppi che rileggono la musica popolare in altra chiave. Quello che mi interessava era (ed è, lo sarà sempre) dare voce a chi non ce l'ha, a chi si fa un saccodiconcerti in giro per il mondo ma non è considerato dai media.
Credendo di aver dato una spiegazione abbastanza buona della scelta della parola "pizzica" nel nome (non c'è la "taranta" da nessuna parte perché sono contro questa visione limitante dell'uso della parola "pizzica" solo legata al tarantismo), andiamo a spiegare cosa vuol dire il "dintorni".
Nei "dintorni" della "pizzica" ci si situano un sacco di generi, alcuni dei quali (purtroppo non tutti, ma questo non interessa nessuno) sono stati rivitalizzati insieme a quest'ultima e possono suonare. Si pensi agli altri ballabili o brani con ritmiche veloci che spesso risuonano da queste parti, dagli stornelli alle tarantelle, passando per i valzer ed i brani in ritmo binario (polkettine e dintorni). Nei "dintorni" del Salento ci si situano altri territori con un folklore altrettanto degno di essere divulgato, e piano piano arriveremo, superando la miopia di moltissima gente, a divulgarne più possibile.
Perché ho scelto solo produzioni indipendenti? Non volevo cappi e, sinceramente, non mi pento per niente, credo che il trasmettere solo brani tradizionali dia una leggerezza che i brani d'autore non darebbero mai!
Se volete sapere se mi manca qualcosa, assolutamente sì, molti dei miei dischi preferiti non li posso suonare, ma dati gli ascolti non mi lamento.
Dopo questa difesa accorata del mio progetto, che non deve piacere a tutti, figuratevi, grido una cosa su cui spero concordiate: viva la musica popolare!
Per chi ancora non conosce il sito in questione, do il link: http://www.pizzicaedintorni.it.
domenica 4 novembre 2012
Qualche parola sui social network che frequento
Carissimi lettori, è da diverso tempo che non scrivo su questo blog, mia prima ed indimenticata creatura virtuale.
Vorrei oggi parlare di Facebook e Twitter, due mondi che ho conosciuto grazie al fatto che li uso per pubblicizzare "Radio pizzica e dintorni".
Nessuno dei due mi soddisfa completamente, per quanto so che la perfezione è un miraggio fortunatamente irraggiungibile.
Facebook ha di bello che è utilizzato dai principali operatori culturali che si dedicano alla musica popolare, ma è inaccessibile.
Immaginatevi di leggere qualcosa che sparisce sotto i vostri occhi, immaginate di essere sballottati da un posto all'altro senza avere possibilità di tornare dove volevate trovarvi.
Twitter ha di bello che è accessibilissimo, ma di musica popolare se ne parla praticamente pochissimo.
Solo Enza Pagliara, la Irma records e gli Alla Bua hanno un canale Twitter, ma solo questi ultimi lo utilizzano in maniera abbastanza copiosa.
Ottimo, di Twitter, è il fatto che sia utilizzato da molti giornali, ma disdicevolissimo è che nei giornali si parli di musica popolare solo per la Notte Della Taranta, che ormai è diventata il "Sanremo dei proletari".
Sarebbe segno di civiltà da parte dei media mostrare l'offerta culturale italiana in tutta la sua complessità.
Adesso dice che Facebook cambierà la bacheca, vediamo quando e come.
lunedì 10 settembre 2012
Un paio di riflessioni
Carissimi lettori, oggi mi va di fare una riflessione su quanto i nomi possano sfogare i nostri più profondi preconcetti, che nemmeno un'esperienza diretta delle cose che portano quei nomi può far regredire.
Mi è capitato di divulgare la mia iniziativa legata al folk con una e-mail ad un'associazione di salentini dai quali mi sono sentita rispondere che loro vogliono divulgare il passato e la pizzica nel passato aveva un ruolo secondario mentre, secondo loro, nel mio canale avrebbe un ruolo primario.
Voglio quindi tentare di chiarire una volta per tutte, spero di non doverci più tornare né qui né in qualsivoglia altra sede, il perché della scelta del nome "Pizzica e dintorni".
La pizzica, lo si voglia o no, è il ballo più rappresentativo di tutta la tradizione centromeridionale italiana, tra quelli di origine propriamente contadina.
Questo nome quindi non poteva che far capire (avevo pensato io e tutt'ora lo penso) che il mio canale caparbiamente avrebbe emesso solo brani di tradizione contadina suonati del tutto o in prevalenza con strumenti contadini.
Avevo pensato che si potesse capire un concetto così semplice, sarebbe poi ora che coloro che tutelano i patrimoni tradizionali non si dedicassero solo a tutelarli in contesto tradizionale, ma ne tutelassero la riproposta rispettosa, evitando magari eventi come Melpignano, che sinceramente con la musica popolare c'entra pochissimo.
Difatti la Notte Della Taranta mi sembra diventata un "Sanremo dei proletari", dove chi è già famoso per altri motivi, magari anche nobili e di qualità, viene a farsi una passerella prendendo però in mano qualcosa che non gli appartiene.
Io sinceramente non mi dedico ai puristi, ma nemmeno al pubblico della Notte (ma poi siamo sicuri che questa gente ami così tanto ed abbia così bisogno di questa musica contaminata?). aIo mi dedico a tutti coloro che si vanno a vedere i numerosi concerti che portano la musica popolare in giro per l'Italia e per il mondo, a tutti coloro che si vogliono divertire al suono degli strumenti tradizionali, con consapevolezza ma senza chiusure.
Il mio canale quindi è per la non musealizzazione del folklore e per far capire a qualcuno che, forse, non tutto quello che si fa adesso è da condannare od esecrare, come non tutto quello che si faceva una volta è da ritenere buono solo perché antico.
Scusate lo sfogo e se potete andate su www.pizzicaedintorni.it/radio.html e fatevi il viaggio.
domenica 9 settembre 2012
Canto remolino
Carissimi lettori, già torno perché ho il cuore dolcemente aperto da un acquisto fatto ieri sera a quella fantastica rimpatriata con gli Inti di cui ho parlato nel post precedente.
Mi va di parlare del cd "Canto remolino" che José Seves pubblicò nel 2002, due anni prima di rimettersi con Salinas e riprendere l'avventura degli Inti.
La prima canzone ha un testo ed una musica perfettamente equilibrate, entrambi quasi surreali. Nonostante ciò la realtà c'è tutta anche nella sua cruda tragicità.
Sono curiosi, qui e in molti altri brani, i numerosi canti staccati così tipici di quella cultura africana che ha influenzato tanto la cultura afroamericana che è entrata così profondamente nell'anima di Seves.
La seconda traccia è una dolcissima ma durissima dichiarazione di intenti, un manifesto di Seves da solista, ma che in molti casi ricorda le battaglie che gli Inti hanno portato e portano ancora avanti.
Musicalmente il brano è uno dei più semplici e cantabili del disco, niente politonalità, un semplicissimo si minore, una melodia festosa ma che lascia trasparire il raccoglimento del testo.
Ma la politonalità torna, molto meno presente, in "El eco de ayer", bel ritmo tradizionale dove si canta di speranza e di nostalgia sempre con questo tocco immaginificotipico della penna di Seves (che spero che a questo punto si esprima di più anche negli Inti, magari creando qualcosa musicato dal grande Salinas).
E questa forte anima afro di José Seves si sfoga forse in maniera radicale in "Saber mapudungún", brano che è dedicato dal musicista alla gente d'etnia "mapuche" (indigeni cileni).
La canzone è in mi maggiore, con bassi ostinati soprattutto nella ripetizione osessiva di "Mapudungún".
Molto bel brano, la voce di José è sempre stupenda, poi accompagnata da strumenti che diventano percussioni si staglia in tutta la sua forza espressiva.
La traccia successiva, intitolata 2Llover", con moltissimi verbi all'infinito come questo del titolo, è una ballata con una bellissima fisarmonica (penserei perfino ad un bandoneón ma non sono sicura).
Il canto di Seves si esprime con quegli staccati che come ho detto prima caratterizzano molti momenti diquesto cd, molto bello, trasognato, raccolto, come però forse oggi non si accettano più.
Andando avanti si arriva a "Será la sombra", semplice ritmo popolare in tonalità minore, che ritmicamente ricorda "La charagua" di Víctor Jara", che gli Inti suonaronocon maestria nel 1970, quando fu eletto Salvador Allende.
La canzone è tutta incentrata sul tentativo di identificare un'ombra inidentificabile.
Il brano successivo è "Velório de un negro criollo", che tramite una secca cronaca di una veglia per un negro creolo, denuncia la condizione d'emarginazione sociale da cui i neri sono usciti ancora in troppo poche occasioni.
Il brano è caratterizzato da una bella voce femminile che compensa perfettamente la potenza dolce di quella di Seves.
Il finale di questa cronaca amara ed ironica degli atteggiamenti umani nei confronti della morte, è caratterizzato da frasi semplici di fiati che traducono con i suoni ciò a cui si allude nel testo.
Altra gemma del cd è un brano intitolato "Cantantes invisibles", nel quale José Seves fa un omaggio a quei cantori che improvvisano i loro testi.
Forse simbolicamente si sceglie un ritmo cubano per accompagnare questo inno al canto concepito come grido di libertà, difatti Cuba è una delle zone più attive da questo punto di vista. Senza andare troppo lotnano da ciò che si sente abitualmente per radio, si potrebbe pensare alla parte finale di ogni buon brano di salsa.
Però il canto di Seves ricorda coloro che in queste forme metriche libere lanciano anche messaggi politici, sociali.
Andando avanti si va verso un classico venezuelano di cui José Seves dà un'interpretazione molto lontana da quelle che conosco io, ma non sono particolarmente affidabile.
La voce del nostro, in questa "Tonada de luna llena", è solo è accompagnata solo da una percussione e da un cuatro, strumento tipico del paese d'origine del brano.
Molto bella la voce di Seves che si libra in volo tra i suoi atti, a volte in pianissimo altre volte fortissimi, ed i suoi toni gravi, che in pochissimi conoscono se non lo sentono parlare (perché la sua parlata è politonale, espressiva e quasi cantata).
Il brano seguente è un altro momento di intimità, difatti la voce del nostro è accompagnata da chitarre che solo molto raramente lasciano l'arpeggio per poi diventare ritmiche. Il brano a cui mi riferisco è "Valdivia en la niebla", in cui si direbbe che la voce ama andare verseo il recitato.
Il testo è in quel limite fra realtà e sogno in cui mi sembra trovarsi quasi tutto il cd.
E quest'anima africana che aleggia come una guida segreta all'interno del disco torna a farsi respiro evidente in questa "Esperanza y yo".
Come brano è in gran parte un son cubano, che racconta, così come la già trovata title track "Canto remolino", la sua autobiografia, ci si ritrovano riferimenti all'esilio e alla tristezza che questa esperienza porta inevitabilmente con sé.
Questa traccia, però, sviluppa come nessuna il fatto che nella sua vita c'era sempre la speranza come una bussola.
Il brano successivo, "He preguntado por él", sembra dedicato a Augusto Pinochet, difatti vi si racconta con poesia e dolcezza della resistenza clandestina.
Il brano
L'ultimo brano è un tocco di poesia e ritmiche quasi brasiliane (un po' una "Líneas para un retrato" ante litteram). Il brano è un canto alle radici geografiche di Seves, un sud del Cile tra vissuto e sognato, in quel confine in cui si muove tutta l'opera.
Bel cd, caldamente consigliato a chi abbia la fortuna di trovarlo.
Inti-Illimani Histórico alla Stazione Birra
Carissimi lettori, oggi ho l'onore di recensire il bellissimo concerto che gli Inti-Illimani Histórico hanno tenuto alla Stazione Birra di Ciampino (data l'ora tarda non l'ho sentito tutto...)
L'inizio è stato folgorante con la bellissima "Danza" che gli Inti riprendono da quel gioiello supremo chiamato "Palimpsesto" del 1981. La versione se possibile è ancora più struggente dell'originale, grazie all'utilizzo della quena, flauto il cui suono sembra riecheggiare in sé tutto il lamento di un popolo.
Interessanti le timbriche della fisarmonica che sostituivano il violino, la mano di Salinas qui era perfetta, mentre nel concerto a "Cooperativa en vivo" si erano sentite delle imperfezioni.
Quando si inizia a cantare si interpreta "Polo Doliente", brano estratto da un altro dei miei dischi preferiti degli Inti, quel "Canción para matar una culebra" che per me segna la definitiva maturazione del gruppo. In questo brano José Seves, con cui tra l'altro prima del concerto ho avuto una lunga e bella chiacchierata in castigliano dopo averne fatte di brevi con Durán e Eduardo Carrasco muralista amico degli Inti ed autore di "Inti-Illimani storia e mito", ha dimostrato di non avere assolutamente difficoltà nel padroneggiare il suo fantastico timbro in cui potenza e dolcezza si equilibrano in modo magico.
Fa strano sentire la parte d'arpa (affidata a Jorge Coulon) nelle mani del prode Camilo Salinas al piano. Non sta male, anzi, nei ritmi centroamericani dal Venezuela a Cuba passando per la Colombia il piano ci sta benissimo.
Il terzo brano è stato una commovente "Papel de plata", dove si è potuta apprezzare la bellissima e ruvida voce di Horacio Salinas, che ha conservato il suo inconfondibile timbro arricchendolo con una leggera sfumatura rauca. Molto bello l'uso della batteria ad imitare il pandero andino, molto rispettoso pur nella contaminazione.
Continuando il tuffo negli anni '70 si ascolta "La exiliada del sur", brano di Violeta Parra che gli Inti avevano inciso ne "La nueva canción chilena" (1974). La versione è molto fedele all'originale, le parti di Jorge sono state cantate da un'altra voce molto più potente (non la distinguo...), molto bello sentire le profondità del basso allearsi con la percussività grave della parte centrale del bombo.
Tornando agli strumentali si è avuto poi il piacere di riscoprire una delle più belle composizioni di "Salinas", quella "Araucarias" che impreziosiva ulteriormente il già di per sé bellissimo "Andadas" (1992).
Faceva strano sentire il brano abbassato di un tono (da la minore a sol minore), faceva un effetto molto classicheggiante sentire il pianoforte che eseguiva battute bartockiane sulle gravi.
La parte finale, quella che nel cd era eseguita da Renato Freyggang col sassofono, è stata eseguita da Camilo Salinas (figlio dell'autore del brano e direttore degli Históricos) con la sua magica fisarmonica.
Poi si è fatto un salto di vent'anni (indietro) con "Ya parte el galgo terrible".
Le strofe se le rimpallavano Salinas e Seves, molto bello, stupende anche le altre coloriture sia musicali che vocali.
Insieme a Massimiliano Stefanelli, direttore d'orchestra appassionato di strumenti latinoamericani che suona con abilità, il gruppo ha poi eseguito una bellissima versione di "Takakoma" da "Lejanía", disco che non è mai arrivato ai negozi di dischi italiani.
Interessante, rispetto a questa versione in studio, unica da me conosciuta perché non possiedo "Esencial" che pure contiene il brano, degli assoli di quena leggere varianti della melodia. Stefanelli in questo brano suonava il charango insieme a Durán, bello.
Da "Hacia la libertad" del 1975 viene "El arado" di Víctor Jara, che qui è stata cantata nelle parti soliste da un bravo e forse un po' emozionato Horacio Salinas. La voce del nostro si rompeva leggermente sempre sul sol prima dell'esecuzione dell'ultimo verso di ogni parte solista.
Molto bel brano, belli anche gli impasti vocali, anche se forse mancava in parte minima la perfezione degli originali.
Il brano successivo ci ha permesso di andare verso quel gioiellino che è "Travesura", cd di canzoni per bambini inciso dagli Históricos due anni fa. Il brano è stato interpretato con maestria, anche io ho contribuito cantandolo a squarciagola, difatti è la mia traccia preferita del disco. Belli gli impasti vocali, non c'è niente da fare ma per me gli Inti si ottengono con voci dolci e potenti equilibrate, non con timbri dello stesso tipo.
Dopo due brani de "Los bipolares", gruppo da cui provengono Danilo Donoso (batteria e percussioni), Fernando Julio (basso) e Camilo Salinas (pianoforte e fisarmonica), quando gli Inti sono saliti di nuovo sul palco si è ascoltata un'applauditissima "Alturas".
In questo brano c'è stata qualche leggerissima e non fastidiosa smagliatura nella parte di sicus, il resto è stato impagabile come sempre (bombo, charango, chitarra e sicus sono sempre una magia grandiosa).
E andando avanti si arriva ad "Arróz con cocolón", brano inciso in "Esencial" del 2006, pezzo dalle forti sonorità afroperuviane, evidenziate dall'abilità di Danilo Donoso al cajón. Molto efficace comunque l'insieme del gruppo, fantastico Camilo Salinas al pianoforte, che veramente nella musica latinoamericana scopre la sua anima percussiva che in Europa è così negletta.
Dopo c'è stato spazio per quel divertissement durissimo da suonare dal titolo "La marusa", che Horacio Salinas ha interpretato con Massimiliano Stefanelli al cuatro venezuelano.
Veramente bravissimi entrambi, anche qui c'è forse stata qualche leggera smagliatura ma niente di fastidioso.
Si è andato avanti poi con "Vuelvo", un inno del ritorno dei cileni dall'esilio, scritto da Salinas e Manns nel 1979 quando ancora mancavano dieci anni alla fine della dittatura.
Bellissima l'interpretazione di Seves, che forse aggiungeva alla rabbia dell'esiliato quella dello scontento per come sono poi andate le cose in Cile. Faceva strano, ma non dava per niente fastidio, sentire le parti di tiple affidate al pianoforte di Salinas jr. Qui si potevano ammirare i favolosi impasti vocali unisoni che hanno fatto la fortuna e l'inconfondibilità dello stile Inti (se ascoltate altri gruppi forse difatti la vocalità è più generalizzata, nel senso che le voci si scorporano e si fanno controcanti, pensate al livello di arte a cui i Quilapayún hanno sviluppato questa arte anche grazie a Víctor Jara).
Tornando al repertorio più noto in Italia si ha il piacere di ascoltare "Lo que más quiero", testo della cantautrice cilena Violeta Parra egregiamente musicato da sua figlia Isabel. L'interpretazione degli Inti conservava le sue caratteristiche base, cambiava solo la distribuzione delle strofe tra le varie voci.
Molto bello il vocalizzo a canone che inizia e conclude il brano.
Un altro momento esplosivo, anche per gli assoli di Camilo al piano e Danilo alla batteria, è stato "Mulata", brano a ritmo di salsa che sfrutta una poesia molto bella del poeta cubano Nicollás Guillén. Mancava solo il flauto ottavino, che in questi repertori fa sempre la sua inconfondibile figura, ma comunque è stata un bellissimo pezzo (peccato che il pubblico non ballasse!).
Da brividi è stato anche il canto antirazzista "Samba landó", che il gruppo riprende da quel gioiello, già qui pluricitato, dal titolo "Canción para matar una culebra".
Le strofe se le rimpallavano Seves e Salinas, dando ognuno il proprio conio, che veramente sapeva dell'autentica storia del gruppo.
Anche noi nel ritornello contribuivamo con il coro su "Samba landó, que tienes tú que no tenga yo". Io ero emozionatissima, sinceramente questi sono i miei inti!
Gli ultimi tre brani che abbiamo sentito sono stati tre superclassiconi del periodo '70 inizi '80.
Il primo è stato "El pueblo unido", che gli Inti ci hanno invitato a cantare, devo dire che molta gente se la ricordava, poi comunque si esplodeva sempre nel ritornello.
Il secondo è stata una "Fiesta de San Benito", dove, ancora una volta, la batteria ha fatto le veci del pandero. Io questo brano l'ho ascoltato in piedi ed ho dato anche qualche accenno di danza (per quanto possa permettermelo io!). Comunque cantavo e me la godevo anche se ero mezza afona a forza di commuovermi ed impazzire.
L'ultimo brano da me sentito integralmente è stato "El mercado de Testaccio", uno di quei gioielli di gratitudine che i gruppi cileni composero nel periodo del loro esilio europeo ("Vals de Colombes" per i Quilapayún o, tornando agli Inti tra le altre "Una finestra aperta").
Mentre andavo via ho sentito le prime inconfondibili note di "Simón Bolívar", e così gli Inti mi hanno salutata.
Fantastico concerto, il consiglio spassionato è di andare a vedere gli Históricos quando passano dalle vostre parti!
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