Carissimi lettori, finalmente, "Spattannu" e con tanti "sospiri" di mezzo, mi è arrivato "Maledetti guai" l'ultimo disco, per me un capolavoro, degli Officina Zoè.
E' un cd che, forse, si ascolta meglio se si scorda tutto ciò che si sa dell'"Officina" anche se magari non è adatto ai non conoscitori, perché sono cambiati molto tutti (soprattutto Cinzia).
Innanzitutto, generalizzando, direi che è un cd dove le influenze di vari paesi, dal Mediooriente al Giappone, al Mali, "condiscono" con un "tempero" specialissimo tutto. Non pensate che il Salento si sia perso, va solo un po' cercato, va solo un po' meditato, più che esserci tirannicamente è un'eco fortissima ma spesso silenziosa.
Credo che di preliminari ne ho già fatti troppi, allora eccoci alle nove magiche tracce che lo compongono.
Della prima, "A mammata", vi ho già parlato in un articolo precedente, perché è uno dei "miracoli" bellissimi compiuti da Berlusconi con la sua proverbiale stupidità.
La versione da studio è ancora più pungente, per alcuni particolari che possono colpire solo se ascoltati e non descrivibili, proprio perché è "strascicata", e della pizzica non resta che un eco.
L'"officina", secondo me, magari non volendolo, ha omaggiato un grandissimo musicista salentino, il tricasino Aldo Nichil, uno dei "colpevoli" per la strepitosa colonna sonora del bellissimo "Pizzicata" di Edoardo Winspeare.
In questo brano, a livello di canto, si viene credo subito colpiti da certe vocali di "naso" che non erano molto tipiche del precedente stile di Cinzia Marzo.
Subito dopo eccoci a quella che io ho definito "tarantella africanata", ossia a "Maledetti guai". Sono evidenti le influenze non di un'Africa sognata ed indefinita, ma di quel Mali che ha tanto tenuto compagnia all'"Officina" ultimamente, grazie alla tournée con Baba Sissoko.
Nella versione "ufficiale", più lunga di quella presente nel myspace dell'officina www.myspace.com/officinazoe, si sentono molti rimandi al jazz, che nell'altra versione si potevano solo "sospettare".
Se vogliamo fare un paragone "officiniano", questa, e quasi tutto questo cd, rimandano a quel capolavoro assoluto, purtroppo non capito, intitolato "Il miracolo".
Lì gli strumenti "tellurici" della nostra tradizione erano meno presenti piuttosto che qui, ma qui vengono sfidati a trovare un'anima "eterea" che li rende quasi irriconoscibili (si pensi alla lira calabrese suonata da Cinzia, che emette delle dissonanze contemporanee insospettabili).
Il testo dei primi due brani è in lingua italiana, e questo permette alla voce di Cinzia di essere portata da venti nuovi, che noi ammiratori degli Zoè di sempre, dobbiamo scoprire se vogliamo tentare di capire questa nuova opera.
Questa tarantella sguscia via, senza quasi averti dato la possibilità di fare quella festa così inebriante a cui porterebbe questo ritmo in condizioni "naturali".
La stessa sensazione si ha, se possibile ancora più forte, nella terza traccia, una "Pizzica mistica" che è molto più "mistica" che "pizzica".
Il suo inizio è lentissimo ed è completamente strumentale, affidato a chitarra, violino e mandolino.
La seconda fase, ancora non a pizzica, neanche lenta, è caratterizzata dall'aggiunta di una tammorra, che viene sfidata a terzinare completamente, anzi a fare anche degli accenti in più, creando, sia prima che durante il canto griko di Cinzia, un miscuglio enigmatico tra i ritmi di certe regioni del Portogallo, altre suggestioni mediterranee, nonché altre variazioni moderne sulla pizzica stessa.
Ad un certo punto, finalmente, la pizzica si materializza, ancora "muta" grazie alla tammorra, ma finalmente alla sua velocità normale.
La parte più a pizzica, che comunque porta molto più a meditare che a ballare, inizia durante un lunghissimo "la" di Cinzia, in cui la tammorra si quieta per fare spazio ai due indiavolati, ma comunque meditabondi, tamburelli di Lamberto e Danilo.
A questo punto del brano l'ensemble dell'"officina" arriva alla sua conformazione più normale: tamburelli, chitarra, organetto e violino. Non credete di trovarvi davanti ad una pausa nelle sperimentazioni perché, soprattutto nell'ultima parte, il violino esegue note dissonanti (che capisco poco).
Ed ecco la pizzica più "sospirata" dell'"Officina". E' sospirata sia perché si chiama "Cu lli suspiri", che, soprattutto, perché io ho aspettato un anno intero prima di poterla avere, dopo averla sentita al Concertone di Melpignano dell'anno scorso. (Vi ricordate della "pizzica de Santu Sebastianu"? Eccola!).
E' un tipico brano pisanelliano, di quelli in tonalità minore dove gli strumenti contano molto più delle voci, anche se Cinzia, con il suo notevole fiuto per i bei testi, ci ha messo delle parole tradizionali che, oltre a starci benissimo, obbligano l'ascoltatore a farci più di un pensierino.
La parte cantata, composta qui da almeno quattro parti, è tradizionale quindi accompagnata con un bellissimo giro in tonica e dominante (re minore-la), intervallato da un bellissimo giro di organetto che, per fare un altro paragone officiniano, ricorda "Don pizzica".
In mezzo al brano c'è un bellissimo dialogo tra organetto e violino che riesce ad unire la sensualità del tango argentino con la forza della pizzica, ma l'unione viene bene perché niente sopraffà (imparate contaminatori da strapazzo!). Prima di concludersi, questa "Cu lli suspiri", ci presenta un'"Officina" che gioca con le percussioni e le sue voci dorate, in maniera del tutto indescrivibile, come è ogni vero gioco quando è vero e spontaneo.
Ed eccoci ad un altro capolavoro nel capolavoro, la milonga argentina, scritta da Pisanello, "Spattannu", dove Cinzia, facendosi i controcanti da sola, canta una bellissima poesia vernacolare intitolata, come il brano stesso, "Spattannu".
Interessante è il dialogo tra due mandole, una che suona all'italiana, con note tremolate, e una che esegue gorgheggi mediterranei ed aperti come un oud arabo (forse c'è l'influenza del grande Ruggero Inchingolo, suonatore di liuto arabo in "Terra", primo ed indimenticato lavoro dell'"Officina").
L'organetto, che si sente pochissimo, scopre un'anima segreta di sé, credo causata da qualche accorgimento tecnico che, per la mia proverbiale ignoranza, non so rilevare.
Il testo è struggentissimo, è il racconto, dolcemente dettagliato, dell'annullamento di antiche aspettative d'amore, rappresentate da una canzone che non viene mai cantata.
La voce di Cinzia, dopo aver cantato in maniera dolcissima il testo, dialoga con se stessa, tramite le sovrincisioni, con terze e quinte interessantissime. Così il brano si chiude lasciando spazio ad un'altra perla: "Liknon".
E' un brano che, in dialetto salentino, traccia un ritratto di ciò che sentono gli immigrati che arrivano qui, che poi era quello che sentivamo noi quando ce ne andavamo dalla nostra Italia "china 'i fami e china 'i guai" (la citazione è di Otello Profazio, da "Mannaja all'ingegneri").
Scordatevi però il racconto lineare, preparatevi a quei viaggi allucinati e criptici così tipici di Cinzia Marzo, immaginate di sentire "Fracidde", magari un po' meno mistica, ma "lu ientu" che soffia è quello.
Il brano è in tono minore, ma la tristezza è "tiepida" e non si può combattere, ci si può solo lasciare avvolgere da lei come da un incantesimo improcrastinabile.
Il contrabbasso, che suonato con l'archetto spesso acquista toni apocalittici e scuri, qui arriva ad una cantabilità quasi umana, ed arriva ad usare in maniera modernissima i tipici "quarti di tono" della più pura musica popolare.
Questo assolo, è poi seguito da quello della magica mandola mediterranea che, come ho già detto in "Spattannu", fa risoffiare quel vento bellissimo e a me particolarmente grato dell'oud di Inchingolo.
Queste stesse atmosfere, forse con meno effetti mediterranei ma con altrettanta efficacia, sono poi ripresi dalla chitarra acustica di Luigi Panico, che porta il brano verso lidi più anglosassoni, ma l'effetto si interrompe subito, perché riprende, finalmente, il canto di Cinzia e Rachele, che si fa ora un dialogo tra la durezza di Cinzia, che comunque è diventata solo uno dei tanti colori che sa usare, e la dolcezza mistica di Rachele. Interessantissimo, nel canto di Cinzia, il contrasto tra il significato della parola "uraganu" e il modo con cui viene pronunciata. Il brano ora ci sta illudendo di voler finire, ma sta solo prendendo un altro ritmo, tramite un interessantissimo dialogo tra le terze tipiche salentine delle voci e i virtuosismi moderni del contrabbasso. Il ritmo, secondo me, è una tammurriata campana, che, forse, viene velocizzata un po'. Il testo che si canta in questa parte di brano è molto ripetitivo ma è pieno di caratteristiche pienamente "tradotte" dal canto (non posso dirvi niente delle parole perché sbaglierei qualcosa). Poi, sinceramente, credo che questo cd ognuno debba scoprirlo e farselo penetrare dentro molto istintivamente, quindi queste righe vogliono solo essere un invito ed un piccolo racconto di ciò che ci vedo io, non una decriptazione di nessun segreto.
Ed eccoci ad un momento balcanico, completamente strumentale quindi scritto da Donatello Pisanello, intitolato "Ciao rom". E' una congiunzione ideale tra una quasi accennata terzina di pizzica, che non viene mai eseguita per intero, e influenze balcaniche, per omaggiare i Rom, questo popolo con cui i salentini, da ormai molti anni, hanno legami indissolubili.
Ed eccoci a "Pizzicannella", pizzica interiore, la cui introduzione potrebbe ricordare il finalino di "Macaria", brano contenuto in "Sangue vivo", album di cui questo disco sviluppa e migliora molte idee.
Abbiamo percussioni e flauti che dialogano in maniera molto meditabonda, ma di una meditazione che porta alla ricerca di un equilibrio interiore, ricerca a cui Cinzia, autrice del pezzo, ha sempre puntato nella sua musica e nei suoi testi (si pensi a quella parte di "Menevò" che dice:
E' na parte de munnu
ca è puru piccinna
ca de tutta la terra
cu vai cerchi na linia.
E' na linia suttile ca passa de lu core
ca è comu nu specchiu
addù lassu lu core).
Qui, forse, si ritrova una maggiore rabbia, anche se la si interpreta perché ormai, quando arriva questa "Pizzicannella", si è entrati in pieno in questa atmosfera allucinata e criptica, di cui Zoè ci vuole ubriacare.
E il canto si interrompe per lasciare spazio alla magia dei flauti, che non dialogano più solo con i tamburi ma anche con le corde, che velocemente rispondono con un mirabile assolo di mandola, la cui dissonanza non disturba, il cui finale ricorda un pezzettino di una "guitarrada" del grande suonatore di chitarra portoghese Jaime Santos" precisamente il pezzettino più virtuosistico delle "Variações em re".
Il cd si chiude con un commovente canto griko, sempre di matrice popolare, che Cinzia riprende dal libro dell'attore e ricercatore brizio montinaro "Canti di pianto e d'amore dell'antico Salento".
Qui il canto delle "prefiche" scompare per dare spazio ad una dolcezza quasi desolata, profonda.
Spero di avervi fatto venire un po' di curiosità, ora tocca a voi immergervi in un mare di bellissimi ma "Maledetti guai".
martedì 4 agosto 2009
domenica 2 agosto 2009
Malicanti a Trevi
Carissimi lettori, è con molto piacere che torno a scrivere questa mattina. Vi parlerò, andando un po' a zig zag, del bellissimo concerto dei Malicanti, gruppo di cui si è già parlato ma che conviene ricordare.
Il concerto si è svolto a Trevi nel giardino d'una villa costruita tra XVII e XVIII secolo, all'interno del World music festival.
La piazza era quasi piena, eravamo poco più di centottanta persone ma c'è stato un clima da vera festa popolare.
Il gruppo, che contrariamente a molti ensemble popolari attuali è didattico e insegna a distinguere le varianti senza annoiare, per ogni brano raccontava una storia con cui ti permetteva di capire o parti del testo, o da dove provenivano certi stili contadini che poi venivano usati, o, comunque, le atmosfere tipiche delle zone della Puglia da cui i suoi componenti provengono.
Va ricordato infatti che il gruppo tiene molto a precisare d'aver imparato tutto ciò che sa dagli anziani, e chiaramente si limita ai repertori delle zone di provenienza concreta dei suoi componenti (non essendoci nessuno della Grecìa, ad esempio, ogni riferimento al griko è mancato).
Il concerto si è aperto con una "Oi rosa", solo apparentemente simile a quella incisa nel cd "Canti tradizionali delle Puglie", unico disco inciso dal gruppo. Nei due casi, e in generale per tutto il concerto, si è avuto un uso massiccio della chitarra battente, ma le strofe che si cantavano erano spesso e volentieri diverse (d'altronde sono anche passati quattro anni dall'incisione in questione). Il brano, essendo di provenienza brindisina, è stato interpretato magistralmente da Daniele Girasoli, nato in provincia di Brindisi a San Pancrazio salentino.
Subito dopo si è potuta apprezzare la bravura di Anna Invidia, grande nuova voce della musica popolare salentina, in uno dei classici indiscussi di questa tradizione, la bellissima "Pizzicarella". Se dovessi paragonare questa versione a qualcosa di pubblicato, citerei la stupenda rielaborazione del brano presente nel cd "Opillopillopì" degli Aramirè. L'interpretazione, come tutte quelle del gruppo, è basata su stilemi contadini, rispettati profondamente ma anche un pochino "ripuliti" (non edulcorati).
Subito dopo si è fatta la prima capatina nel Gargano, terra di cui i Malicanti subiscono molto profondamente il fascino, anche perché varie persone che ruotano intorno a questa compagine musicale provengono da quella zona.
Quando si pensa a quelle tarantelle, inevitabilmente il ricordo vola ai Cantori di Carpino, il cui maggiore leader e fondatore, il grande chitarrista Andrea Sacco, è stato maestro diretto di Enrico Noviello, colui che coordinava tutto il concerto con una semplicità ed una tenerezza disarmanti.
Il primo esempio carpinese offertoci è stata una "Montanara", quel giro d'accordi che ormai tutti credono legato ad un testo solo, quel bellissimo "E comme je ja fà pe' amà sta donni" reso famoso trent'anni fa dalla Nuova Compagnia di Canto Popolare.
I Malicanti, nell'interpretazione del repertorio garganico hanno due voci ben distinte. Oltre ad Enrico Noviello, anche esimio battentista, chi era a Trevi ha potuto scoprire Adriano (scusate se non so il cognome, loro l'hanno sempre presentato così). Se lo stile di Noviello pur nella sua profonda ruralità è pulito e personale, lo stile del secondo cantore ricordava quello quasi gridato dell'appena deceduto Antonio Maccarone.
Del Gargano il gruppo ci ha poi offerto anche una "rodianella", presentata come il ritmo preferito da Andrea Sacco per la sua giovialità, ed una "viestesana" basata su interessanti "calate" di quarti di tono, a cui oggi non siamo abituati ma che erano l'essenza del vero canto contadino.
I testi dei "sonetti" carpinesi sono, e non poteva essere altrimenti, in moltissimi casi di tematica romantica, perché a Carpino, ed in parte succede ancora oggi, la serenata era talmente importante che era il solo mezzo, o il più convincente, che un amante aveva per far capire alla propria amata quanto fosse grande il suo amore.
Da quelle terre viene anche una "Sangiuvannara", tarantella di San Giovanni rotondo, di tematica più piccantina e meno romantica, caratterizzata anche dall'uso dell'organetto (che in teoria nel folklore carpinese sarebbe assente, anche se i Malicanti hanno fatto uso dello strumento durante la "viestesana").
Dedichiamoci ora, sempre a zig zag ma con maggiore dovizia di particolari, al repertorio di zona brindisino-leccese, portato prevalentemente da Daniele Girasoli e Anna Invidia.
Sono rimasta piacevolmente colpita, mentre me la cantavo a squarciagola come ho fatto con tutto quel repertorio, dalla presenza in scaletta di "Mieru". Questo brano, a me prevalentemente noto nelle versioni di cantanti che fanno "liscio alla salentina" come Bruno Petrachi, sia in questa versione che in quella di Uccio Aloisi in "Mara l'acqua", acquista un fascino ed un'autenticità disarmanti. Il brano, valzerino spassoso, è un inno al vino e al suo potere di far scordare le fatiche (sicuramente è meglio delle droghe sintetiche con cui in molti, oltre a scordarsi ciò che li circonda, si ammazzano!).
Passando alla zona brindisina, notevole è l'interpretazione della "Pizzica di San Vito", imparata dai Malicanti direttamente da "mesciu" Vincenzino Vita, barbiere che suonava sia violino che mandolino.
Interessante è stato il quarto di tono del violino durante la parte meno terzinata del suo intervento, positiva è stata, finalmente, l'introduzione del terzo accordo d'accompagnamento che nell'incisione su cd manca, provocandomi un senso di profonda insoddisfazione.
La versione dei Malicanti è partita lenta, per poi arrivare al ritmo medio d'una pizzica, quello che molti gruppi, purtroppo anche Zoè, ogni tanto ritengono troppo lento.
Presentato da Enrico Noviello con moltissima tenerezza, è arrivato anche il momento del ricordo di "Zimba". Il brano che ci ha permesso di ricordarlo è stata un'"Aria caddrhipulina" interpretata da Anna Invidia con maestria e sentimento. Nel ritornello, sintomatico della personalità sofferta ma gioviale dell'aradeino, io mi sono divertita a cantare, per la verità l'ho cantata tutta. Il brano, contenuto nel primo cd degli Zimbaria, è diviso in parti lente (strofe) e in un ritornello a tarantella (non a pizzica pizzica), dove questo ritmo si vive in maniera festosa.
Notevole, io la avevo sentita solo in versioni deludenti, la "Pizzica di Torchiarolo", che ha avuto in Anna Invidia un'interprete meravigliosa. Il ritornello, basato su vocalizzi, era semplicissimo da seguire, difatti, dato che riprendeva la melodia della strofa, io l'ho subito cantato.
Meravigliosi anche gli stornelli "salentini", secondo la denominazione di Uccio, interpretati dall'Invidia alla maniera di Anna Cinzia Villani, anche se in modo meno marcatamente rurale.
Interessantissima, perché costituiva un esempio di pizzica parte in minore e parte in maggiore, la "disputa" tra la "Pizzica di Carovigno", interpretata da Girasoli, e una delle varianti leccesi (che non riesco a ricordare) interpretata dall'Invidia.
Per tutto il concerto l'organetto di Valerio Rodelli ha dimostrato il suo virtuosismo, semplice ed accattivante, virtù ormai abbastanza persa dai signori dell'organetto da "conservatorio".
Enrico Noviello, grande interprete garganico, ci ha dato, alla fine, la buonanotte alla Andrea Sacco, riprendendo il giro di montanara in mi minore, interpretando il "sonetto" noto come "Chi nun capisce l'amore nun capisce nente".
Subito dopo, dato che noi scalpitavamo perché avevamo amato molto tutta la serata, si è avuta una bellissima "Pizzica tarantata", brano che il gruppo, al contrario di Zoè, esegue cantando le strofe proprie di Luigi Stifani, il musicoterapeuta che utilizzava questo nome per definire la sua pizzica.
Citazione a parte, merita il momento dedicato ai "canti alla stisa", quelli che veramente accompagnavano il lavoro dei contadini. I Malicanti ce ne hanno offerto un commovente esempio con "La rucita di mare", versione specifica di San Pancrazio salentino de "Lu rusciu de lu mare". Purtroppo non ve la posso descrivere, posso solo dirvi che è molto bella.
Altrettanto a parte, forse perché mi ha commosso particolarmente, cito "E malidettu lu cinquanta", canto che veniva direttamente da "Le memorie della terra". Il brano è costituito da un documento inciso da Alan Lomax nel 1953 a tempo di tarantella, alle cui strofe sono intervallate altre eseguite lentamente. Non è forse un brano sspudoratamente politico, ma ci ricorda che questa gente, dato che soffriva, con la sua musica ci cantava anche le sue sofferenze. Se noi amiamo il folklore come cosa viva, dobbiamo tornarlo a fare.
Non pretendo di avervi dato neanche lo zero per cento di quello che vi siete persi se non c'eravate, spero solo di farvi venire la voglia di vedere i malicanti quando passano dalle parti vostre: vale davvero la pena!
Il concerto si è svolto a Trevi nel giardino d'una villa costruita tra XVII e XVIII secolo, all'interno del World music festival.
La piazza era quasi piena, eravamo poco più di centottanta persone ma c'è stato un clima da vera festa popolare.
Il gruppo, che contrariamente a molti ensemble popolari attuali è didattico e insegna a distinguere le varianti senza annoiare, per ogni brano raccontava una storia con cui ti permetteva di capire o parti del testo, o da dove provenivano certi stili contadini che poi venivano usati, o, comunque, le atmosfere tipiche delle zone della Puglia da cui i suoi componenti provengono.
Va ricordato infatti che il gruppo tiene molto a precisare d'aver imparato tutto ciò che sa dagli anziani, e chiaramente si limita ai repertori delle zone di provenienza concreta dei suoi componenti (non essendoci nessuno della Grecìa, ad esempio, ogni riferimento al griko è mancato).
Il concerto si è aperto con una "Oi rosa", solo apparentemente simile a quella incisa nel cd "Canti tradizionali delle Puglie", unico disco inciso dal gruppo. Nei due casi, e in generale per tutto il concerto, si è avuto un uso massiccio della chitarra battente, ma le strofe che si cantavano erano spesso e volentieri diverse (d'altronde sono anche passati quattro anni dall'incisione in questione). Il brano, essendo di provenienza brindisina, è stato interpretato magistralmente da Daniele Girasoli, nato in provincia di Brindisi a San Pancrazio salentino.
Subito dopo si è potuta apprezzare la bravura di Anna Invidia, grande nuova voce della musica popolare salentina, in uno dei classici indiscussi di questa tradizione, la bellissima "Pizzicarella". Se dovessi paragonare questa versione a qualcosa di pubblicato, citerei la stupenda rielaborazione del brano presente nel cd "Opillopillopì" degli Aramirè. L'interpretazione, come tutte quelle del gruppo, è basata su stilemi contadini, rispettati profondamente ma anche un pochino "ripuliti" (non edulcorati).
Subito dopo si è fatta la prima capatina nel Gargano, terra di cui i Malicanti subiscono molto profondamente il fascino, anche perché varie persone che ruotano intorno a questa compagine musicale provengono da quella zona.
Quando si pensa a quelle tarantelle, inevitabilmente il ricordo vola ai Cantori di Carpino, il cui maggiore leader e fondatore, il grande chitarrista Andrea Sacco, è stato maestro diretto di Enrico Noviello, colui che coordinava tutto il concerto con una semplicità ed una tenerezza disarmanti.
Il primo esempio carpinese offertoci è stata una "Montanara", quel giro d'accordi che ormai tutti credono legato ad un testo solo, quel bellissimo "E comme je ja fà pe' amà sta donni" reso famoso trent'anni fa dalla Nuova Compagnia di Canto Popolare.
I Malicanti, nell'interpretazione del repertorio garganico hanno due voci ben distinte. Oltre ad Enrico Noviello, anche esimio battentista, chi era a Trevi ha potuto scoprire Adriano (scusate se non so il cognome, loro l'hanno sempre presentato così). Se lo stile di Noviello pur nella sua profonda ruralità è pulito e personale, lo stile del secondo cantore ricordava quello quasi gridato dell'appena deceduto Antonio Maccarone.
Del Gargano il gruppo ci ha poi offerto anche una "rodianella", presentata come il ritmo preferito da Andrea Sacco per la sua giovialità, ed una "viestesana" basata su interessanti "calate" di quarti di tono, a cui oggi non siamo abituati ma che erano l'essenza del vero canto contadino.
I testi dei "sonetti" carpinesi sono, e non poteva essere altrimenti, in moltissimi casi di tematica romantica, perché a Carpino, ed in parte succede ancora oggi, la serenata era talmente importante che era il solo mezzo, o il più convincente, che un amante aveva per far capire alla propria amata quanto fosse grande il suo amore.
Da quelle terre viene anche una "Sangiuvannara", tarantella di San Giovanni rotondo, di tematica più piccantina e meno romantica, caratterizzata anche dall'uso dell'organetto (che in teoria nel folklore carpinese sarebbe assente, anche se i Malicanti hanno fatto uso dello strumento durante la "viestesana").
Dedichiamoci ora, sempre a zig zag ma con maggiore dovizia di particolari, al repertorio di zona brindisino-leccese, portato prevalentemente da Daniele Girasoli e Anna Invidia.
Sono rimasta piacevolmente colpita, mentre me la cantavo a squarciagola come ho fatto con tutto quel repertorio, dalla presenza in scaletta di "Mieru". Questo brano, a me prevalentemente noto nelle versioni di cantanti che fanno "liscio alla salentina" come Bruno Petrachi, sia in questa versione che in quella di Uccio Aloisi in "Mara l'acqua", acquista un fascino ed un'autenticità disarmanti. Il brano, valzerino spassoso, è un inno al vino e al suo potere di far scordare le fatiche (sicuramente è meglio delle droghe sintetiche con cui in molti, oltre a scordarsi ciò che li circonda, si ammazzano!).
Passando alla zona brindisina, notevole è l'interpretazione della "Pizzica di San Vito", imparata dai Malicanti direttamente da "mesciu" Vincenzino Vita, barbiere che suonava sia violino che mandolino.
Interessante è stato il quarto di tono del violino durante la parte meno terzinata del suo intervento, positiva è stata, finalmente, l'introduzione del terzo accordo d'accompagnamento che nell'incisione su cd manca, provocandomi un senso di profonda insoddisfazione.
La versione dei Malicanti è partita lenta, per poi arrivare al ritmo medio d'una pizzica, quello che molti gruppi, purtroppo anche Zoè, ogni tanto ritengono troppo lento.
Presentato da Enrico Noviello con moltissima tenerezza, è arrivato anche il momento del ricordo di "Zimba". Il brano che ci ha permesso di ricordarlo è stata un'"Aria caddrhipulina" interpretata da Anna Invidia con maestria e sentimento. Nel ritornello, sintomatico della personalità sofferta ma gioviale dell'aradeino, io mi sono divertita a cantare, per la verità l'ho cantata tutta. Il brano, contenuto nel primo cd degli Zimbaria, è diviso in parti lente (strofe) e in un ritornello a tarantella (non a pizzica pizzica), dove questo ritmo si vive in maniera festosa.
Notevole, io la avevo sentita solo in versioni deludenti, la "Pizzica di Torchiarolo", che ha avuto in Anna Invidia un'interprete meravigliosa. Il ritornello, basato su vocalizzi, era semplicissimo da seguire, difatti, dato che riprendeva la melodia della strofa, io l'ho subito cantato.
Meravigliosi anche gli stornelli "salentini", secondo la denominazione di Uccio, interpretati dall'Invidia alla maniera di Anna Cinzia Villani, anche se in modo meno marcatamente rurale.
Interessantissima, perché costituiva un esempio di pizzica parte in minore e parte in maggiore, la "disputa" tra la "Pizzica di Carovigno", interpretata da Girasoli, e una delle varianti leccesi (che non riesco a ricordare) interpretata dall'Invidia.
Per tutto il concerto l'organetto di Valerio Rodelli ha dimostrato il suo virtuosismo, semplice ed accattivante, virtù ormai abbastanza persa dai signori dell'organetto da "conservatorio".
Enrico Noviello, grande interprete garganico, ci ha dato, alla fine, la buonanotte alla Andrea Sacco, riprendendo il giro di montanara in mi minore, interpretando il "sonetto" noto come "Chi nun capisce l'amore nun capisce nente".
Subito dopo, dato che noi scalpitavamo perché avevamo amato molto tutta la serata, si è avuta una bellissima "Pizzica tarantata", brano che il gruppo, al contrario di Zoè, esegue cantando le strofe proprie di Luigi Stifani, il musicoterapeuta che utilizzava questo nome per definire la sua pizzica.
Citazione a parte, merita il momento dedicato ai "canti alla stisa", quelli che veramente accompagnavano il lavoro dei contadini. I Malicanti ce ne hanno offerto un commovente esempio con "La rucita di mare", versione specifica di San Pancrazio salentino de "Lu rusciu de lu mare". Purtroppo non ve la posso descrivere, posso solo dirvi che è molto bella.
Altrettanto a parte, forse perché mi ha commosso particolarmente, cito "E malidettu lu cinquanta", canto che veniva direttamente da "Le memorie della terra". Il brano è costituito da un documento inciso da Alan Lomax nel 1953 a tempo di tarantella, alle cui strofe sono intervallate altre eseguite lentamente. Non è forse un brano sspudoratamente politico, ma ci ricorda che questa gente, dato che soffriva, con la sua musica ci cantava anche le sue sofferenze. Se noi amiamo il folklore come cosa viva, dobbiamo tornarlo a fare.
Non pretendo di avervi dato neanche lo zero per cento di quello che vi siete persi se non c'eravate, spero solo di farvi venire la voglia di vedere i malicanti quando passano dalle parti vostre: vale davvero la pena!
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venerdì 31 luglio 2009
Miracoli berlusconiani
Carissimi lettori, oggi scrivo letteralmente a ruota libera.
Voglio parlare di Berlusconi e dei miracoli musicali che la sua grandissima stupidità, nonché la rabbia che essa causa in chiunque abbia la testa un minimo salda, hanno provocato.
Il primo caso di disco completamente antiberlusconiano, credo che si debba far risalire a quando Franco Trincale, grande cantastorie siciliano già intervistato in questo blog e reperibile su http://www.trincale.com/, ha pubblicato, completamente in sistema di autoproduzione, il "Berluschino". Questo caso è talmente importante che, per un breve periodo, perfino i telegiornali italiani, così restii a dare spazio ai nostri grandi rappresentanti culturali, di qualsiasi tipo di cultura si tratti, ne hanno parlato. Purtroppo, però, ovviamente questo è dovuto non alla bravura artistica del nostro, che non è stata nemmeno riconosciuta, ma al fatto che il "gran stratega" (poi vi dico di chi è la citazione e da dove viene), abbia citato le "prospettazioni" di Trincale, sia cartacee che discografiche, come giustificazione per il trasferimento di un processo fuori Milano, perché lui vuole di base scappare alla giustizia. (tanto "lui non avrebbe colpa..." continua ancora il mistero sulla citazione).
Il cd purtroppo a me manca quindi non ve ne posso parlare, infatti va detto che, a parte il cd "Franco Trincale: l'ultimo cantastorie", prodotto dalla Warner, del siciliano non si reperisce niente con facilità (discograficamente parlando).
Qualche anno dopo, con altrettanto mordente ma forse con maggiore ricchezza armonica, dal nord Italia è arrivata una bellissima "Mazzata pesante", scritta e concepita da Fausto Amodei, altro storico della canzone politica italiana.
Del suo "Per fortuna c'è il cavaliere" ne abbiamo già parlato in un articolo specifico, qui vale solo la pena di ricordarvi la sua esistenza e di stimolarvi al suo acquisto (questa è la gente che va aiutata, non il Michael Jackson di turno!).
Mi va di segnalare, con molto piacere, in questa rassegna dedicata ai canti ispirati dalle decisioni di questo o del precedente governo Berlusconi, la molto carina ma credo inedita "Qua si campa" del calabrese Otello Profazio. E' un brano contro il famigerato, e ancora una volta minacciato, spero che la mafia o l'Unione Europea fermi colui che "si sacrifica per noi" (ancora misteriose citazioni....!), ponte sullo stretto. Da quello che me ne ricordo, sono passati almeno cinque anni dal primo ed unico ascolto che ne feci, è una ballata simile alla mitica "Qua si campa d'aria", di cui, oltre che il giro d'accordi, riprende anche una particina del titolo. ("E dicu a chiddi chi vonnu lu pontu: 'Qua si campa ed è già tantu'"). Conferma la teoria, a cui crede chiunque abbia un minimo di cervello, che il ponte sullo Stretto non serve o, quantomeno, è una delle ultime cose da fare.
Alcune citazioni berlusconiane le troviamo poi in "Mazzate pesanti", ultimo album degli Aramirè, gruppo salentino già citato spessissimo su queste pagine.
Intanto possiamo trovare dei riferimenti, comunque sempre più blandi sia di quelli per ora citati, sia di quello che citerò alla fine e che ha motivato l'articolo, in un brano come "Scusati signori".
Si parla dell'imbarbarimento culturale causato dalla tv nonché dall'uso "narcotizzante" della pizzica e musica popolare salentina, che questo gruppo difendeva nella sua forma più pura, forse un po' utopisticamente, ma con una "signora" coerenza.
Si tratta anche l'argomento "euro" e quello "riforme", soprattutto per quanto riguarda la circolazione di persone. Non è sicuramente un brano predominantemente ironico, né ha la forza musicale che ci si aspetterebbe da qualcuno che, pur volendo mandare messaggi politici volesse tenere all'arte come dimensione autonoma.
Un altro caso di brano tradizionale a cui sono state apposte strofe, è "O pillo pillo pì", sempre presente nel su citato cd di Aramirè. Va detto subito, però, che la sua migliore versione, con lo stesso testo ma cantata e suonata molto meglio, è contenuta in "Vent'anni e più di..." del Circolo Gianni Bosio.
Se il brano precedente era l'"aggiornamento" di un brano di protesta inciso dall'etnomusicologo Alan Lomax nel 1953, questo è il frutto di un lavoro collettivo di trent'anni.
Su una melodia tradizionale cantata da Luigi Stifani e pubblicata proprio dalle Edizioni Aramirè nel libro "Io al santo ci credo: diario di un musicoterapeuta delle tarantate", sin dagli anni '70 si è iniziato ad apporre strofe politiche. Così, con questo brano, si può fare una cronistoria di alcuni dei fatti e misfatti avvenuti in vari paesi del mondo. All'inizio si parla di Cile, appena entrato in dittatura, di Portogallo, che ne sarebbe uscito di lì a poco, o di Vietnam, la cui terribile guerra era ancora in atto.
Nelle strofe aggiunte attualmente, condite con una certa ironia, si parla dell'emigrazione che diventa emigrazione, dello sfascio a cui già allora era giunta questa poveretta della Sinistra (niente in confronto allo schifo attuale, ma già non ci trattavamo male, e di come la tanto odiata Democrazia Cristiana fosse diventata "l'unto dal Signore".
Il riferimento al "cavaliere" è alla fine: "E quindi pe' finire jeu tocca cu vu dicu,aggiu giratu 'u munnu, quarche cosa aggiu capitu.Aggiu giratu 'u munnu, n'aggiu visti fiacchi e boni:lu chiu pesciu de tutti è lu Silviu Berlusconi".
Tornando al molto irreperibile, infatti il brano precedente è stato anche pubblicato da Vincenzo Santoro nel cd allegato al suo bellissimo libro "Il ritorno della taranta, già qui recensito, va segnalata una ballata del cantastorie siciliano Fortunato Sindoni, scritta nel nobilissimo idioma della Trinacria, costruita come un dialogo tra Berlusconi e il fortunatamente ex inquilino della Casa Bianca George W Bush. E' una tarantella dove Berlusconi non si nomina mai (ci stiamo avvicinando al clou dell'articolo intanto con questo particolare strutturale che accomuna i due brani), dove il nostro premier deve rinunciare per un po' a fare lo schiavettino obbediente, perché noi, che poco dopo avremmo fatto finta di vincere le elezioni, effettivamente gli facevamo paura. E' geniale ed è pubblicata nell'ultimo cd di Mauro Geraci e Fortunato Sindoni, ordinabile dal sito di Geraci http://www.geracicantastorie.com/.
Si è già parlato di musica salentina in questo excursus, ma ora dobbiamo tornare a farlo, forse con il gruppo che più coerentemente persegue un vero stile personale non alienandosi però mai dalla tradizione. Mi riferisco, come non poteva essere altrimenti, a... Zoè.
Il loro repertorio era già stato toccato da qualche venatura politica, ma erano cose che potevano sentirsi o non sentirsi secondo la propria sensibilità (secondo me, ad esempio, sia "Macaria" che "Menevò", tratte rispettivamente da "Sangue vivo" e dal "Miracolo", sono canzoni politiche perché la prima ci invita all'onestà e la seconda ci ammonisce sull'inalienabilità della vita).
Nel nuovo cd degli Zoè, intitolato sintomaticamente "Maledetti guai", oltre a scoprire un sacco di nuove influenze nel lavoro del gruppo, tutte desunte dalla sua recente storia perché loro odiano contaminarsi con qualcosa solo perché è di moda, si scoprono almeno due brani inappellabilmente politici.
Quello più simile allo stile Zoè già descritto, mi riferisco alla struttura testuale, è "Maledetti guai", dove c'è spazio anche per ventate di poesia criptica come "voci tristi e disperate sotto l'ombra di un bambino". Per chi non volesse ancora avventurarsi nell'acquisto di questo cd, che dovrebbe essere molto particolare, il brano, specie di tarantella "africanata", è ascoltabile nel myspace dell'officina all'indirizzo www.myspace.com/officinazoe. La cosa che rende particolare il brano, oltre al miscuglio magico tra influenze salentine e maliane, è la presenza dell'italiano che, in una voce piena di "salentinità segreta" come quella di Cinzia Marzo, acquista una cantabilità strana e nuova.
Sempre in italiano è l'altro brano, questo spudoratamente dedicato a Berlusconi, intitolato "A mammata". (Ecco da dove erano tratte le citazioni misteriose di prima!).
Non posso dirvi molto sulla sua musica, perché io conosco una versione non pubblicata, e sono un po' gelosa del mio segreto. Va detto che potrei forviare anche un buon ascolto della versione "ufficiale". Voglio solo dire che ci ho trovato una durezza che, con il mio stupido schematismo da persona troppo colta e razionale, credevo più propria degli Aramirè di "Mazzate pesanti". Non è un brano poetico, ed anche le metafore o le allitterazioni servono solo per rafforzare i concetti che si cantano (o più spesso si gridano con veemenza moderna e contadina insieme). La frase che trovo più bella è: "...in vece dell'anima lui ha un saccopieno di nulla mischiato col niente...".
Spero d'aver fatto capire con questo articolo a certi signori di sinistra, che oggi la canzone politica è anche appannaggio di gente che con l'arte ci sa fare e coltiva i generi che storicamente hanno rappresentato il cardine del canto di protesta italiano.
Voglio parlare di Berlusconi e dei miracoli musicali che la sua grandissima stupidità, nonché la rabbia che essa causa in chiunque abbia la testa un minimo salda, hanno provocato.
Il primo caso di disco completamente antiberlusconiano, credo che si debba far risalire a quando Franco Trincale, grande cantastorie siciliano già intervistato in questo blog e reperibile su http://www.trincale.com/, ha pubblicato, completamente in sistema di autoproduzione, il "Berluschino". Questo caso è talmente importante che, per un breve periodo, perfino i telegiornali italiani, così restii a dare spazio ai nostri grandi rappresentanti culturali, di qualsiasi tipo di cultura si tratti, ne hanno parlato. Purtroppo, però, ovviamente questo è dovuto non alla bravura artistica del nostro, che non è stata nemmeno riconosciuta, ma al fatto che il "gran stratega" (poi vi dico di chi è la citazione e da dove viene), abbia citato le "prospettazioni" di Trincale, sia cartacee che discografiche, come giustificazione per il trasferimento di un processo fuori Milano, perché lui vuole di base scappare alla giustizia. (tanto "lui non avrebbe colpa..." continua ancora il mistero sulla citazione).
Il cd purtroppo a me manca quindi non ve ne posso parlare, infatti va detto che, a parte il cd "Franco Trincale: l'ultimo cantastorie", prodotto dalla Warner, del siciliano non si reperisce niente con facilità (discograficamente parlando).
Qualche anno dopo, con altrettanto mordente ma forse con maggiore ricchezza armonica, dal nord Italia è arrivata una bellissima "Mazzata pesante", scritta e concepita da Fausto Amodei, altro storico della canzone politica italiana.
Del suo "Per fortuna c'è il cavaliere" ne abbiamo già parlato in un articolo specifico, qui vale solo la pena di ricordarvi la sua esistenza e di stimolarvi al suo acquisto (questa è la gente che va aiutata, non il Michael Jackson di turno!).
Mi va di segnalare, con molto piacere, in questa rassegna dedicata ai canti ispirati dalle decisioni di questo o del precedente governo Berlusconi, la molto carina ma credo inedita "Qua si campa" del calabrese Otello Profazio. E' un brano contro il famigerato, e ancora una volta minacciato, spero che la mafia o l'Unione Europea fermi colui che "si sacrifica per noi" (ancora misteriose citazioni....!), ponte sullo stretto. Da quello che me ne ricordo, sono passati almeno cinque anni dal primo ed unico ascolto che ne feci, è una ballata simile alla mitica "Qua si campa d'aria", di cui, oltre che il giro d'accordi, riprende anche una particina del titolo. ("E dicu a chiddi chi vonnu lu pontu: 'Qua si campa ed è già tantu'"). Conferma la teoria, a cui crede chiunque abbia un minimo di cervello, che il ponte sullo Stretto non serve o, quantomeno, è una delle ultime cose da fare.
Alcune citazioni berlusconiane le troviamo poi in "Mazzate pesanti", ultimo album degli Aramirè, gruppo salentino già citato spessissimo su queste pagine.
Intanto possiamo trovare dei riferimenti, comunque sempre più blandi sia di quelli per ora citati, sia di quello che citerò alla fine e che ha motivato l'articolo, in un brano come "Scusati signori".
Si parla dell'imbarbarimento culturale causato dalla tv nonché dall'uso "narcotizzante" della pizzica e musica popolare salentina, che questo gruppo difendeva nella sua forma più pura, forse un po' utopisticamente, ma con una "signora" coerenza.
Si tratta anche l'argomento "euro" e quello "riforme", soprattutto per quanto riguarda la circolazione di persone. Non è sicuramente un brano predominantemente ironico, né ha la forza musicale che ci si aspetterebbe da qualcuno che, pur volendo mandare messaggi politici volesse tenere all'arte come dimensione autonoma.
Un altro caso di brano tradizionale a cui sono state apposte strofe, è "O pillo pillo pì", sempre presente nel su citato cd di Aramirè. Va detto subito, però, che la sua migliore versione, con lo stesso testo ma cantata e suonata molto meglio, è contenuta in "Vent'anni e più di..." del Circolo Gianni Bosio.
Se il brano precedente era l'"aggiornamento" di un brano di protesta inciso dall'etnomusicologo Alan Lomax nel 1953, questo è il frutto di un lavoro collettivo di trent'anni.
Su una melodia tradizionale cantata da Luigi Stifani e pubblicata proprio dalle Edizioni Aramirè nel libro "Io al santo ci credo: diario di un musicoterapeuta delle tarantate", sin dagli anni '70 si è iniziato ad apporre strofe politiche. Così, con questo brano, si può fare una cronistoria di alcuni dei fatti e misfatti avvenuti in vari paesi del mondo. All'inizio si parla di Cile, appena entrato in dittatura, di Portogallo, che ne sarebbe uscito di lì a poco, o di Vietnam, la cui terribile guerra era ancora in atto.
Nelle strofe aggiunte attualmente, condite con una certa ironia, si parla dell'emigrazione che diventa emigrazione, dello sfascio a cui già allora era giunta questa poveretta della Sinistra (niente in confronto allo schifo attuale, ma già non ci trattavamo male, e di come la tanto odiata Democrazia Cristiana fosse diventata "l'unto dal Signore".
Il riferimento al "cavaliere" è alla fine: "E quindi pe' finire jeu tocca cu vu dicu,aggiu giratu 'u munnu, quarche cosa aggiu capitu.Aggiu giratu 'u munnu, n'aggiu visti fiacchi e boni:lu chiu pesciu de tutti è lu Silviu Berlusconi".
Tornando al molto irreperibile, infatti il brano precedente è stato anche pubblicato da Vincenzo Santoro nel cd allegato al suo bellissimo libro "Il ritorno della taranta, già qui recensito, va segnalata una ballata del cantastorie siciliano Fortunato Sindoni, scritta nel nobilissimo idioma della Trinacria, costruita come un dialogo tra Berlusconi e il fortunatamente ex inquilino della Casa Bianca George W Bush. E' una tarantella dove Berlusconi non si nomina mai (ci stiamo avvicinando al clou dell'articolo intanto con questo particolare strutturale che accomuna i due brani), dove il nostro premier deve rinunciare per un po' a fare lo schiavettino obbediente, perché noi, che poco dopo avremmo fatto finta di vincere le elezioni, effettivamente gli facevamo paura. E' geniale ed è pubblicata nell'ultimo cd di Mauro Geraci e Fortunato Sindoni, ordinabile dal sito di Geraci http://www.geracicantastorie.com/.
Si è già parlato di musica salentina in questo excursus, ma ora dobbiamo tornare a farlo, forse con il gruppo che più coerentemente persegue un vero stile personale non alienandosi però mai dalla tradizione. Mi riferisco, come non poteva essere altrimenti, a... Zoè.
Il loro repertorio era già stato toccato da qualche venatura politica, ma erano cose che potevano sentirsi o non sentirsi secondo la propria sensibilità (secondo me, ad esempio, sia "Macaria" che "Menevò", tratte rispettivamente da "Sangue vivo" e dal "Miracolo", sono canzoni politiche perché la prima ci invita all'onestà e la seconda ci ammonisce sull'inalienabilità della vita).
Nel nuovo cd degli Zoè, intitolato sintomaticamente "Maledetti guai", oltre a scoprire un sacco di nuove influenze nel lavoro del gruppo, tutte desunte dalla sua recente storia perché loro odiano contaminarsi con qualcosa solo perché è di moda, si scoprono almeno due brani inappellabilmente politici.
Quello più simile allo stile Zoè già descritto, mi riferisco alla struttura testuale, è "Maledetti guai", dove c'è spazio anche per ventate di poesia criptica come "voci tristi e disperate sotto l'ombra di un bambino". Per chi non volesse ancora avventurarsi nell'acquisto di questo cd, che dovrebbe essere molto particolare, il brano, specie di tarantella "africanata", è ascoltabile nel myspace dell'officina all'indirizzo www.myspace.com/officinazoe. La cosa che rende particolare il brano, oltre al miscuglio magico tra influenze salentine e maliane, è la presenza dell'italiano che, in una voce piena di "salentinità segreta" come quella di Cinzia Marzo, acquista una cantabilità strana e nuova.
Sempre in italiano è l'altro brano, questo spudoratamente dedicato a Berlusconi, intitolato "A mammata". (Ecco da dove erano tratte le citazioni misteriose di prima!).
Non posso dirvi molto sulla sua musica, perché io conosco una versione non pubblicata, e sono un po' gelosa del mio segreto. Va detto che potrei forviare anche un buon ascolto della versione "ufficiale". Voglio solo dire che ci ho trovato una durezza che, con il mio stupido schematismo da persona troppo colta e razionale, credevo più propria degli Aramirè di "Mazzate pesanti". Non è un brano poetico, ed anche le metafore o le allitterazioni servono solo per rafforzare i concetti che si cantano (o più spesso si gridano con veemenza moderna e contadina insieme). La frase che trovo più bella è: "...in vece dell'anima lui ha un saccopieno di nulla mischiato col niente...".
Spero d'aver fatto capire con questo articolo a certi signori di sinistra, che oggi la canzone politica è anche appannaggio di gente che con l'arte ci sa fare e coltiva i generi che storicamente hanno rappresentato il cardine del canto di protesta italiano.
sabato 11 luglio 2009
Paolo Conte a Perugia
Carissimi lettori, ieri sera ho avuto il piacere di assistere alla serata inaugurale di Umbria jazz 2009, affidata alla bellissima ed inconfondibile voce di Paolo Conte, accompagnata sempre da raffinatissime sonorità.
Se dovessi descrivere il gruppo di Paolo Conte, direi che è una big band anni Trenta, d'altronde l'avvocato astigiano non ha mai negato di venerare la prima metà del secolo XX ed in particolare il primo trentennio, impreziosita da tocchi colti rappresentati da strumenti come oboe e fagotto, nonché dal tiepido e magico calore del bandoneón argentino.
Ieri nella nostra città faceva molto freddo, e la circostanza ha disturbato molto la fluidità del canto di Conte, che si è fatto spesso e volentieri arrabbiato, creando dei controtempi meravigliosi, che però, ad orecchie avvedute, facevano subito pensare ad una grande stanchezza.
Il concerto, prevalentemente dedicato a brani della storia del cantautore, si è aperto con la canzone che ha lanciato "Psiche", suo ultimo disco. Se dovessi descrivere il brano, intitolato "Il quadrato e il cerchio", direi che è in bilico tra suggestioni rock ed elettronica, con prevalenza, in disco, delle sonorità allucinate di quest'ultima, che costringono il ritmo, altrimenti abbastanza festoso, a diventare molto meditabondo. Dal vivo, e questo ha fatto perdere molto del suo fascino al pezzo, autoritratto dell'arte musicale di Paolo Conte, si è data troppa importanza al ritmo, annullando queste continue richieste di riposo di cui è praticamente formato il testo ("Ah, fatemi svanire!") eccetera.
Subito dopo, cantata in maniera molto meno sorniona e forse con troppa rabbia, è arrivata "Sotto le stelle del jazz", "matinata" che Conte dedica a questo suo antico ed eterno amore. L'arrangiamento, contrastando con l'interpretazione canora sopra descritta, aiutava ed accentuava l'anima di jazz ballad che sta alla base del brano, anche grazie alle spazzole usate dalla batteria. Si potrebbe dire che questa versione sia stata un aggiornamento, soprattutto propiziato dalla presenza di una corposissima sezione di fiati, dell'insuperabile interpretazione contenuta nel già qui recensito "Concerti". E', invece, molto lontana dalla versione contenuta in "Paolo Conte", che stemperava troppo, in tappeti esageratamente pop, la struttura ritmica del brano, inequivocabilmente jazz. Bellissima la parte in sibemolle a metà brano dove, al posto del vibrafono o dell'assolo in scat di Paolo Conte, si è stagliata la sezione di fiati, portandoci miracolosamente in qualche bettola malfamata della New York inizio 900.
Se in Italia Paolo Conte è conosciuto come l'autore di "Azzurro", scritta insieme a Vito Pallavicini, all'estero è altrettanto conosciuto, ma come l'autore di "Come di". Il brano, uno di quelli che più inebriano l'ascoltatore di suggestioni swing anni '20, è stato interpretato da Conte con la rabbia e la "Silenziosa velocità" che ha contraddistinto tutto il concerto. Addirittura, la parte in "scat", ossia basata su vocalizzi, che di solito il cantautore esegue con così tanta parsimonia, era appena accennata con due o tre do centrali a giro, per poi lasciare eseguire quello che restava agli strumenti. L'introduzione del brano è stata un po' deludente, perché io sono troppo legata alla "picchiata" alternata di do minore e sol maggiore così caratteristica di "Concerti". Questa parte è stata affidata ad una chitarra elettrica che, almeno secondo me, di swing aveva molto poco. Meravigliose, invece, le improvvisazioni alla Béchet del sax soprano.
Subito dopo, Paolo Conte è stato "Alle prese con una verde milonga", creando un'atmosfera mista tra le due sponde del Río de la Plata (il brano infatti è troppo lento per essere una milonga uruguayana e troppo veloce per essere una tradizionale milonga argentina), e meravigliose suggestioni nordafricane con la darbouka, che, a partire dal concerto "Live Arena di Verona", ultimo live del cantautore inciso su disco, ha affiancato la batteria, la quale ben presto aveva sostituito il filologicissimo bombo argentino che accompagnava la versione di "Paris Milonga". D'altronde il brano, giustamente rispetto al testo, che potremmo definire un "autoritratto" della stessa struttura musicale, ha subito un tale rallentamento e rilassamento a cui, molto difficilmente, il bombo, con le sue sonorità troppo cupe, potrebbe rendere giustizia. Anche qui, in contrasto con la pacatezza degli orchestrali, il canto di Conte voleva che le parole sgusciassero via e che il brano finisse prima possibile, comunque ciò non ha impedito che questo fosse uno dei momenti più inebrianti del concerto.
Subito dopo c'è stata una particolarissima versione di "Bartali", fatta prevalentemente di dialoghi tra sintetizzatori e xilofono, nonché di una lentezza tutta nuova e di altrettanto inusitati giri in minore. Tutto ciò è continuato per più di metà brano, ed anche lo "scat" allegrissimo del ritornello, veniva eseguito da Conte con una rabbia tellurica e strana.
Gli accordi minori non sono mai spariti, ma da "E' tutto un complesso di cose..." in poi, per lo meno si è avuto il ritmo standard, anzi, pur con profondissime differenze, si potrebbe dire che si è respirata l'aria della versione originale da studio, quella risalente agli anni '70. Infatti, se dovessi descrivere l'accompagnamento, era molto pop e, scusate la sincerità, a me non ha convinto (sono troppo legata alla versione di "Concerti" piano e voce).
Subito dopo il cantautore astigiano ci ha regalato un brano da "psiche" durante il quale non ha suonato il pianoforte, che eseguiva molte note dolcissime che non sono nel suo stile tipico, infatti, in lui, anche la dolcezza più profonda, minaccia spesso di sparire sotto l'effetto d'una irrevocabile tempesta.
Il brano, come molti di quelli di Conte, è dedicato alla donna, con quell'amore non raccontato e tantomeno smielato, che ha conquistato così tanta gente. Il pezzo è un valzerino, il cui tempo è battuto da un sintetizzatore, quindi automaticamente diluisce quella forza francese che Conte tante altre volte ci ha mirabilmente mostrato. Potrei definire il brano, intitolato "Bella di giorno", come una serenata antica, portata alla finestra d'una donna moderna.
Un'altra area geografica che ha sempre affascinato Paolo Conte è l'America Latina, che tocca con maestria con la sua voce "sporca" ma anche segretamente e fortemente limpida. Il brano è un pezzo in minore su un ritmo centroamericano, sul tentativo di far sbocciare un amore, tematica che Conte affronta quasi solo con queste ritmiche più dolci e latine. Io, quantomeno, non riesco a capire se da questo "Gioco d'azzardo" poi nasca qualcosa, quello che so è che tutti i presenti alla fine dell'esecuzione hanno applaudito inebriati.
Ed ecco un altra canzone con molte venature pop, per quanto raffinatissime, la molto conosciuta "Impermeabili". La leggerezza della struttura ritmica tipicamente pop, è stata messa in discussione tramite dei controtempi interessantissimi della batteria, che contribuiva a dare un'anima più "modern jazz" al brano. Strabilianti gli interventi del sassofono, che purtroppo sostituivano quelli che nella versione da studio eseguiva il kazzoo, culminati con un assolo dalle venature un po' troppo rabbiose per il tenore del brano.
Subito dopo è arrivato uno dei brani che io amo di più in assoluto di tutta la carriera di Paolo Conte: "Lo zio". La versione potrebbe essere definita come una ripresa delle suggestioni più pop presenti in quella da studio, con una loro radicalizzazione completamente a discapito di quelle più jazz. Si potrebbe dire che, addirittura, la frase "Sciuscia ti meriti un dollaro", gridata, abbia suonato con una napoletanità segreta. Il kazoo finalmente ha avuto la parte del leone, suonato con quella rabbia che si è potuta già ampiamente costatare. Il ritornello del brano, intercalato da numerosi "sì", diventava una corsa ad ostacoli, forse per non far notare la semplificazione del finale che, invece del brevissimo ma strabiliante assolo di chitarra elettrica presente nella versione di "Concerti", si è limitato a quattro note eseguite furtivamente da tutta l'orchestra.
Ed eccoci alla perla più lucente dell'ultimo cd del cantautore astigiano, il bolero-swing "L'amore che". Il brano, già in "Psiche" suonato completamente acustico, è una descrizione di ciò che è "l'amore", con il ritmo più romantico che l'America Latina abbia mai dato all'umanità: il bolero cubano. Conte, che in fondo resta un jazzista purissimo per quanto si voglia e sappia inebriare di altre suggestioni, per portare questo ritmo verso di sé, ci mette le spazzole che suonano con una tenebrosità dolce e rilassante. Insuperabili sono stati i dialoghi tra il pianoforte di Conte ed il violino, che spesso e volentieri dava a questo brano venature di tango anni '50.
Ed eccoci, continuando sempre con sonorità latine e con i brani di "Psiche" ma velocizzando decisamente il ritmo, a quella che è stata la sigla del "Giro d'Italia" in una delle sue ultime edizioni. Il brano, intitolato "Silenziosa velocità", lo si potrebbe definire come un pezzo di collegamento tra le "avanguardie storiche" che Conte ama tanto, e quelle che attualmente stanno mettendo in discussione le fondamenta stesse della nostra concezione musicale.
Ed ecco un brano ripreso da "Paris milonga", che mi proverei a definire un po' proustiano. Infatti, come al protagonista della "Récherche" torna tutto in mente tramite la "maddalenina", anche in questo brano i ricordi d'amore del protagonista sembrano turbinare tutti sotto l'effetto del nome femminile "Madeleine", appunto "Maddalena". E' un brano che ormai da diversi anni fa parte di quelli che Conte ama riproporre dal vivo. Le venature esageratamente pop della versione del 1981, si sono dileguate in nome di un maggior romanticismo e della scoperta di un'anima francolatina di questa ballata. Il ritmo di "bolero" che indugia fra la variante spagnola e quella cubana, viene sporcato ma abbellito dal bandoneón che scopre una segreta, insospettata ma bellissima anima francese.
Ed eccoci ad uno dei brani che ha cullato di più la mia infanzia, perché presente nell'album "Paolo Conte live" del 1988, la bellissima "Dancing". Anche qui la leggerezza del brano pop è stata diminuita in favore di interessantissimi controtempi di batteria che scoprono il ritmo di rumba proprio di questa canzone. Il giro strumentale, che nella versione citata sopra era affidato a dei sintetizzatori, veniva eseguito dalla sezione di fiati e dal romanticissimo violino che, pur contrastando con il suo pianto segreto la gaiezza del brano, non la riusciva ad inficiare.
Ecco qui un altro "bolero" alla cubana, dove le venature pop sono state sempre inequivocabilmente presenti. Mi riferisco alla bellissima "Chiamami adesso" rispolverata dal cd "Novecento". E' un brano in minore dove anche gli strumenti di origine etnica e colta, vengono sfidati ad andare verso la semplicità del pop, seppure è una sua variante molto più raffinata, anche piena di risorse classiche. Il giro, infatti, costituito da una decina d'accordi, è sicuramente molto lontano dal concetto di "pop da strapazzo" che oggi si sottintende con questa parola. Il brano è stato tra i più dolci di tutto il concerto, finalmente la rabbia tellurica si era dissolta.
Ed eccoci al classico incontrastato della discografia contiana, la celeberrima, e da qualcuno per questo mal sopportata, "Via con me". Da ormai diversi anni, la modifica più vistosa, è l'aver inserito il bandoneón che, in corrispondenza dell'assolo di xilofono, esegue delle terzine molto interessanti. Il brano, da ormai ventiquattro anni, dall'insuperabile versione di "Concerti", ha acquistato un'anima swing che all'inizio Conte, forse per pudore, aveva nascosto sotto ben più rassicuranti abiti pop.
Ecco uno dei primi inni alla musica e agli strumenti scritti da Paolo Conte, ossia una delle prime canzoni dove la parola, sino ad allora preponderante o comunque con pari dignità rispetto alla musica, ha ufficialmente lasciato molto spazio ai suoni. Il brano, tra i più belli dell'astigiano, è "Max". Il compito di reggere ritmicamente il brano, storicamente affidato alla batteria, è stato invece appannaggio dei sintetizzatori, che hanno portato il brano a finire in diminuendo fino a sfumare, cosiccome era già stato per "Alle prese con una verde milonga". Ricordo una versione di "Max" eseguita al Cinemateatro "Esperia" di Bastia poco più di dieci anni fa, nella quale oltre ad un assolo di chitarra elettrica distorta, Paolo Conte si prodigava in un fa diesis centrale con la voce, ad aiutare il colpo liberatorio della batteria.
Siamo arrivati forse al momento più bello del concerto, una stupenda versione di "Diavolo rosso". Rispetto alla versione di "Appunti di viaggio" e a quella di "Concerti, si assiste ad una messa in secondo piano dell'anima jazz del brano, in favore di quella etnica. La batteria, pur suonata con le bacchette, tocca con una tale raffinatezza che può essere confusa con delle percussioni popolari. Meraviglioso l'assolo di clarino, tipicamente mediorientale, basato su delle iterazioni di scale arabe e su "temperamenti" della nota altrettanto etnici. Anche il violino, subito dopo, ha continuato su questa atmosfera, con interessantissimi passaggi con re di bordone, ma forse ha fatto un effetto meno inebriante di altri suoi interventi.
Un altro esempio di suggestioni classiche "portate" da Paolo Conte verso il suo insostituibile swing, è "Eden". Terzinato di struttura anni '60, ma in fondo anche di matrice Bethoveniana, veniva reso più notturno e meno pop dalle spazzole della batteria. Qui è tornata la rabbia, tradotta però non più come stanchezza per la situazione, ma come voglia di cercare il riposo interiore. Essendo un brano di lode al sassofono, questo strumento, nel suo modello "alto", ha avuto la parte del leone. I soffi rimandavano a certa sensualità tipica di sassofonisti come Lester Young.
Il primo bis, venuto dal fatto che noi non smettessimo di sbattere i piedi dannatamente, è stato "Cuanta pasión", brano che ormai da diversi anni fa da sigla ad una nota rubrica televisiva. Il brano ha perso completamente la sua anima flamenca, che era data dalla presenza di uno dei chitarristi dei Gipsy Kings, per acqwuistarne una più romantica e sudamericana. Durante il brano siamo andati tutti sotto il palco ed abbiamo cantato il ritornello dividendolo con Paolo Conte.... bella atmosfera!
Più deludente è stata la ripresa di "Via con me", che potremmo anche ribattezzare "Corri con me", di cui il cantautore ci ha fatto cantare tutti i ritornelli.
Spero di avervi reso un po' di quel che vi siete persi o avete sentito, ma il consiglio che vi do è di andare a vedere Conte se passa dalle vostre parti!
Se dovessi descrivere il gruppo di Paolo Conte, direi che è una big band anni Trenta, d'altronde l'avvocato astigiano non ha mai negato di venerare la prima metà del secolo XX ed in particolare il primo trentennio, impreziosita da tocchi colti rappresentati da strumenti come oboe e fagotto, nonché dal tiepido e magico calore del bandoneón argentino.
Ieri nella nostra città faceva molto freddo, e la circostanza ha disturbato molto la fluidità del canto di Conte, che si è fatto spesso e volentieri arrabbiato, creando dei controtempi meravigliosi, che però, ad orecchie avvedute, facevano subito pensare ad una grande stanchezza.
Il concerto, prevalentemente dedicato a brani della storia del cantautore, si è aperto con la canzone che ha lanciato "Psiche", suo ultimo disco. Se dovessi descrivere il brano, intitolato "Il quadrato e il cerchio", direi che è in bilico tra suggestioni rock ed elettronica, con prevalenza, in disco, delle sonorità allucinate di quest'ultima, che costringono il ritmo, altrimenti abbastanza festoso, a diventare molto meditabondo. Dal vivo, e questo ha fatto perdere molto del suo fascino al pezzo, autoritratto dell'arte musicale di Paolo Conte, si è data troppa importanza al ritmo, annullando queste continue richieste di riposo di cui è praticamente formato il testo ("Ah, fatemi svanire!") eccetera.
Subito dopo, cantata in maniera molto meno sorniona e forse con troppa rabbia, è arrivata "Sotto le stelle del jazz", "matinata" che Conte dedica a questo suo antico ed eterno amore. L'arrangiamento, contrastando con l'interpretazione canora sopra descritta, aiutava ed accentuava l'anima di jazz ballad che sta alla base del brano, anche grazie alle spazzole usate dalla batteria. Si potrebbe dire che questa versione sia stata un aggiornamento, soprattutto propiziato dalla presenza di una corposissima sezione di fiati, dell'insuperabile interpretazione contenuta nel già qui recensito "Concerti". E', invece, molto lontana dalla versione contenuta in "Paolo Conte", che stemperava troppo, in tappeti esageratamente pop, la struttura ritmica del brano, inequivocabilmente jazz. Bellissima la parte in sibemolle a metà brano dove, al posto del vibrafono o dell'assolo in scat di Paolo Conte, si è stagliata la sezione di fiati, portandoci miracolosamente in qualche bettola malfamata della New York inizio 900.
Se in Italia Paolo Conte è conosciuto come l'autore di "Azzurro", scritta insieme a Vito Pallavicini, all'estero è altrettanto conosciuto, ma come l'autore di "Come di". Il brano, uno di quelli che più inebriano l'ascoltatore di suggestioni swing anni '20, è stato interpretato da Conte con la rabbia e la "Silenziosa velocità" che ha contraddistinto tutto il concerto. Addirittura, la parte in "scat", ossia basata su vocalizzi, che di solito il cantautore esegue con così tanta parsimonia, era appena accennata con due o tre do centrali a giro, per poi lasciare eseguire quello che restava agli strumenti. L'introduzione del brano è stata un po' deludente, perché io sono troppo legata alla "picchiata" alternata di do minore e sol maggiore così caratteristica di "Concerti". Questa parte è stata affidata ad una chitarra elettrica che, almeno secondo me, di swing aveva molto poco. Meravigliose, invece, le improvvisazioni alla Béchet del sax soprano.
Subito dopo, Paolo Conte è stato "Alle prese con una verde milonga", creando un'atmosfera mista tra le due sponde del Río de la Plata (il brano infatti è troppo lento per essere una milonga uruguayana e troppo veloce per essere una tradizionale milonga argentina), e meravigliose suggestioni nordafricane con la darbouka, che, a partire dal concerto "Live Arena di Verona", ultimo live del cantautore inciso su disco, ha affiancato la batteria, la quale ben presto aveva sostituito il filologicissimo bombo argentino che accompagnava la versione di "Paris Milonga". D'altronde il brano, giustamente rispetto al testo, che potremmo definire un "autoritratto" della stessa struttura musicale, ha subito un tale rallentamento e rilassamento a cui, molto difficilmente, il bombo, con le sue sonorità troppo cupe, potrebbe rendere giustizia. Anche qui, in contrasto con la pacatezza degli orchestrali, il canto di Conte voleva che le parole sgusciassero via e che il brano finisse prima possibile, comunque ciò non ha impedito che questo fosse uno dei momenti più inebrianti del concerto.
Subito dopo c'è stata una particolarissima versione di "Bartali", fatta prevalentemente di dialoghi tra sintetizzatori e xilofono, nonché di una lentezza tutta nuova e di altrettanto inusitati giri in minore. Tutto ciò è continuato per più di metà brano, ed anche lo "scat" allegrissimo del ritornello, veniva eseguito da Conte con una rabbia tellurica e strana.
Gli accordi minori non sono mai spariti, ma da "E' tutto un complesso di cose..." in poi, per lo meno si è avuto il ritmo standard, anzi, pur con profondissime differenze, si potrebbe dire che si è respirata l'aria della versione originale da studio, quella risalente agli anni '70. Infatti, se dovessi descrivere l'accompagnamento, era molto pop e, scusate la sincerità, a me non ha convinto (sono troppo legata alla versione di "Concerti" piano e voce).
Subito dopo il cantautore astigiano ci ha regalato un brano da "psiche" durante il quale non ha suonato il pianoforte, che eseguiva molte note dolcissime che non sono nel suo stile tipico, infatti, in lui, anche la dolcezza più profonda, minaccia spesso di sparire sotto l'effetto d'una irrevocabile tempesta.
Il brano, come molti di quelli di Conte, è dedicato alla donna, con quell'amore non raccontato e tantomeno smielato, che ha conquistato così tanta gente. Il pezzo è un valzerino, il cui tempo è battuto da un sintetizzatore, quindi automaticamente diluisce quella forza francese che Conte tante altre volte ci ha mirabilmente mostrato. Potrei definire il brano, intitolato "Bella di giorno", come una serenata antica, portata alla finestra d'una donna moderna.
Un'altra area geografica che ha sempre affascinato Paolo Conte è l'America Latina, che tocca con maestria con la sua voce "sporca" ma anche segretamente e fortemente limpida. Il brano è un pezzo in minore su un ritmo centroamericano, sul tentativo di far sbocciare un amore, tematica che Conte affronta quasi solo con queste ritmiche più dolci e latine. Io, quantomeno, non riesco a capire se da questo "Gioco d'azzardo" poi nasca qualcosa, quello che so è che tutti i presenti alla fine dell'esecuzione hanno applaudito inebriati.
Ed ecco un altra canzone con molte venature pop, per quanto raffinatissime, la molto conosciuta "Impermeabili". La leggerezza della struttura ritmica tipicamente pop, è stata messa in discussione tramite dei controtempi interessantissimi della batteria, che contribuiva a dare un'anima più "modern jazz" al brano. Strabilianti gli interventi del sassofono, che purtroppo sostituivano quelli che nella versione da studio eseguiva il kazzoo, culminati con un assolo dalle venature un po' troppo rabbiose per il tenore del brano.
Subito dopo è arrivato uno dei brani che io amo di più in assoluto di tutta la carriera di Paolo Conte: "Lo zio". La versione potrebbe essere definita come una ripresa delle suggestioni più pop presenti in quella da studio, con una loro radicalizzazione completamente a discapito di quelle più jazz. Si potrebbe dire che, addirittura, la frase "Sciuscia ti meriti un dollaro", gridata, abbia suonato con una napoletanità segreta. Il kazoo finalmente ha avuto la parte del leone, suonato con quella rabbia che si è potuta già ampiamente costatare. Il ritornello del brano, intercalato da numerosi "sì", diventava una corsa ad ostacoli, forse per non far notare la semplificazione del finale che, invece del brevissimo ma strabiliante assolo di chitarra elettrica presente nella versione di "Concerti", si è limitato a quattro note eseguite furtivamente da tutta l'orchestra.
Ed eccoci alla perla più lucente dell'ultimo cd del cantautore astigiano, il bolero-swing "L'amore che". Il brano, già in "Psiche" suonato completamente acustico, è una descrizione di ciò che è "l'amore", con il ritmo più romantico che l'America Latina abbia mai dato all'umanità: il bolero cubano. Conte, che in fondo resta un jazzista purissimo per quanto si voglia e sappia inebriare di altre suggestioni, per portare questo ritmo verso di sé, ci mette le spazzole che suonano con una tenebrosità dolce e rilassante. Insuperabili sono stati i dialoghi tra il pianoforte di Conte ed il violino, che spesso e volentieri dava a questo brano venature di tango anni '50.
Ed eccoci, continuando sempre con sonorità latine e con i brani di "Psiche" ma velocizzando decisamente il ritmo, a quella che è stata la sigla del "Giro d'Italia" in una delle sue ultime edizioni. Il brano, intitolato "Silenziosa velocità", lo si potrebbe definire come un pezzo di collegamento tra le "avanguardie storiche" che Conte ama tanto, e quelle che attualmente stanno mettendo in discussione le fondamenta stesse della nostra concezione musicale.
Ed ecco un brano ripreso da "Paris milonga", che mi proverei a definire un po' proustiano. Infatti, come al protagonista della "Récherche" torna tutto in mente tramite la "maddalenina", anche in questo brano i ricordi d'amore del protagonista sembrano turbinare tutti sotto l'effetto del nome femminile "Madeleine", appunto "Maddalena". E' un brano che ormai da diversi anni fa parte di quelli che Conte ama riproporre dal vivo. Le venature esageratamente pop della versione del 1981, si sono dileguate in nome di un maggior romanticismo e della scoperta di un'anima francolatina di questa ballata. Il ritmo di "bolero" che indugia fra la variante spagnola e quella cubana, viene sporcato ma abbellito dal bandoneón che scopre una segreta, insospettata ma bellissima anima francese.
Ed eccoci ad uno dei brani che ha cullato di più la mia infanzia, perché presente nell'album "Paolo Conte live" del 1988, la bellissima "Dancing". Anche qui la leggerezza del brano pop è stata diminuita in favore di interessantissimi controtempi di batteria che scoprono il ritmo di rumba proprio di questa canzone. Il giro strumentale, che nella versione citata sopra era affidato a dei sintetizzatori, veniva eseguito dalla sezione di fiati e dal romanticissimo violino che, pur contrastando con il suo pianto segreto la gaiezza del brano, non la riusciva ad inficiare.
Ecco qui un altro "bolero" alla cubana, dove le venature pop sono state sempre inequivocabilmente presenti. Mi riferisco alla bellissima "Chiamami adesso" rispolverata dal cd "Novecento". E' un brano in minore dove anche gli strumenti di origine etnica e colta, vengono sfidati ad andare verso la semplicità del pop, seppure è una sua variante molto più raffinata, anche piena di risorse classiche. Il giro, infatti, costituito da una decina d'accordi, è sicuramente molto lontano dal concetto di "pop da strapazzo" che oggi si sottintende con questa parola. Il brano è stato tra i più dolci di tutto il concerto, finalmente la rabbia tellurica si era dissolta.
Ed eccoci al classico incontrastato della discografia contiana, la celeberrima, e da qualcuno per questo mal sopportata, "Via con me". Da ormai diversi anni, la modifica più vistosa, è l'aver inserito il bandoneón che, in corrispondenza dell'assolo di xilofono, esegue delle terzine molto interessanti. Il brano, da ormai ventiquattro anni, dall'insuperabile versione di "Concerti", ha acquistato un'anima swing che all'inizio Conte, forse per pudore, aveva nascosto sotto ben più rassicuranti abiti pop.
Ecco uno dei primi inni alla musica e agli strumenti scritti da Paolo Conte, ossia una delle prime canzoni dove la parola, sino ad allora preponderante o comunque con pari dignità rispetto alla musica, ha ufficialmente lasciato molto spazio ai suoni. Il brano, tra i più belli dell'astigiano, è "Max". Il compito di reggere ritmicamente il brano, storicamente affidato alla batteria, è stato invece appannaggio dei sintetizzatori, che hanno portato il brano a finire in diminuendo fino a sfumare, cosiccome era già stato per "Alle prese con una verde milonga". Ricordo una versione di "Max" eseguita al Cinemateatro "Esperia" di Bastia poco più di dieci anni fa, nella quale oltre ad un assolo di chitarra elettrica distorta, Paolo Conte si prodigava in un fa diesis centrale con la voce, ad aiutare il colpo liberatorio della batteria.
Siamo arrivati forse al momento più bello del concerto, una stupenda versione di "Diavolo rosso". Rispetto alla versione di "Appunti di viaggio" e a quella di "Concerti, si assiste ad una messa in secondo piano dell'anima jazz del brano, in favore di quella etnica. La batteria, pur suonata con le bacchette, tocca con una tale raffinatezza che può essere confusa con delle percussioni popolari. Meraviglioso l'assolo di clarino, tipicamente mediorientale, basato su delle iterazioni di scale arabe e su "temperamenti" della nota altrettanto etnici. Anche il violino, subito dopo, ha continuato su questa atmosfera, con interessantissimi passaggi con re di bordone, ma forse ha fatto un effetto meno inebriante di altri suoi interventi.
Un altro esempio di suggestioni classiche "portate" da Paolo Conte verso il suo insostituibile swing, è "Eden". Terzinato di struttura anni '60, ma in fondo anche di matrice Bethoveniana, veniva reso più notturno e meno pop dalle spazzole della batteria. Qui è tornata la rabbia, tradotta però non più come stanchezza per la situazione, ma come voglia di cercare il riposo interiore. Essendo un brano di lode al sassofono, questo strumento, nel suo modello "alto", ha avuto la parte del leone. I soffi rimandavano a certa sensualità tipica di sassofonisti come Lester Young.
Il primo bis, venuto dal fatto che noi non smettessimo di sbattere i piedi dannatamente, è stato "Cuanta pasión", brano che ormai da diversi anni fa da sigla ad una nota rubrica televisiva. Il brano ha perso completamente la sua anima flamenca, che era data dalla presenza di uno dei chitarristi dei Gipsy Kings, per acqwuistarne una più romantica e sudamericana. Durante il brano siamo andati tutti sotto il palco ed abbiamo cantato il ritornello dividendolo con Paolo Conte.... bella atmosfera!
Più deludente è stata la ripresa di "Via con me", che potremmo anche ribattezzare "Corri con me", di cui il cantautore ci ha fatto cantare tutti i ritornelli.
Spero di avervi reso un po' di quel che vi siete persi o avete sentito, ma il consiglio che vi do è di andare a vedere Conte se passa dalle vostre parti!
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giovedì 9 luglio 2009
Il ritorno della taranta
Carissimi lettori, è con grandissimo piacere che riesco, finalmente, a recensire il cd allegato al libro "Il ritorno della taranta. Storia della rinascita della musica popolare salentina", scritto da Vincenzo Santoro e pubblicato dalla "Squilibri" di Roma.
Il cd contiene una ventina di brani, che fanno capire la complessità e la varietà delle rielaborazioni possibili di un canto popolare. Va detto che, e conoscendo l'autore era abbastanza ovvio, si privilegia solo quel repertorio che viene eseguito con strumenti appartenenti alla tradizione o alle testimonianze che di essa abbiamo.
Per trovare un primo tentativo di "riproposta" della musica salentina, bisogna risalire al 1962, quando nasce il "Nuovo Canzoniere del Salento". In questo cd di quell'epoca ci sono due esempi, una rielaborazione di "Moretto", uno dei canti meno eseguiti della tradizione, e "'Ntunuccio", che invece, poi, diventerà uno dei classici di questo stesso repertorio. Lo stile, d'altronde lo resterà fino all'apparizione degli Officina Zoè, era molto basato sull'imitazione pedissequa dei cantori tradizionali.
Subito dopo arrivano due brani, anche qui un classico ed uno quasi sconosciuto, interpretati da Giovanna Marini, a cui, comunque, va il merito di aver aiutato questi giovani ragazzi salentini, mettendoli in contatto con la già viva realtà del "Nuovo canzoniere italiano". I brani che vengono presentati sono "Fimmene fimmene", con una velocizzazione eccessiva dei finali di strofa, e "Giulia di Fornovo", che non è altro che una rielaborazione della melodia con cui attualmente Giovanni Avantaggiato, cantore di Corigliano d'Otranto, esegue "La cerva".
Dalle ceneri del "Nuovo Canzoniere del Salento", nel 1975, sempre sotto la fondamentale influenza di Rina Durante, una delle prime ricercatrici salentine, nacque il "Canzoniere Grecanico salentino". Gli strumenti usati qui sono quelli tradizionali, ed il tamburello ancora era lontano dal terzinare in questa maniera ossessiva che oggi è il pane quotidiano di chi ascolta la pizzica. Credo anche che si fosse lontani da questa tendenza, che forse oggi sta anche regredendo per fortuna, a fare solo pizziche.
Il "Canzoniere grecanico salentino", direttamente dal suo primo lp "Canti della Grecìa salentina e di Terra d'Otranto", interpreta uno dei brani più conosciuti della tradizione leccese "Te sira", unica pizzica presente nel vinile.
Molto vicini al "Canzoniere Grecanico salentino", sono i "Radici", progetto di cui fecero parte due grandi musicisti: Donatello Pisanello, che qui suona chitarra, armonica e mandolino, e Claudio Miggiano, da non confondere con il suonatore di Tres nel cd "Sangue vivo" degli Officina Zoè, dotato di una delle voci più potenti e penetranti che conosco. Del gruppo in questione vi sono due brani. Il primo è un canto di lavoro, con una melodia che molto difficilmente riterrei veramente tradizionale, mi pare piuttosto una di quelle rielaborazioni un po' pretenziose così tipiche di certo stile Zoè prima maniera. Il brano infatti ha un ritmo pseudomediterraneo, suonato, credo, con una tammorra muta, quantomeno non riesco a sentire i cimbali al tamburello. Bisogna dire che questo materiale, essendo storico, ha una qualità di audio un po' discutibile, ma è una testimonianza di qualcosa che non c'è più.
Subito dopo, sempre nella versione dei "Radici" c'è "Santu Paulu", che oggi è uno dei brani immancabili quando si parla di pizzica. Credo che sia una pizzica di Ugento, con alcune strofe che oggi, molto raramente si metterebbero in questo tipo di repertorio. Infatti, ancora, per fortuna, non si aveva tutta questa standardizzazione dei repertori e delle varianti, si era d'altronde ancora molto vicini alla tradizione viva.
Parlare dello stile del gruppo porterebbe a dire che ricorda, molto superficialmente ma inevitabilmente, lo stile dei primi Zoè nonché certe cose degli Alla Bua.
Nel 1989 uno dei più grandi studiosi di musica popolare salentina, il cantante e polistrumentista Roberto Raheli, dà vita al "Canzoniere di terra d'Otranto", richiamando, tra l'altro, a sé musicisti che erano stati coinvolti nel "Canzoniere Grecanico salentino", che, nel frattempo aveva molto diradato la propria attività.
In questa raccolta ci sono due esempi dello stile del gruppo. Il primo è tratto dal loro unico disco, il pregevole "Bassa musica", autoprodotto nel 1994, primo cd mai inciso di questa musica. Il brano è un valzerino con cui si porta una serenata. Sinceramente, e non sarà l'unica volta, io avrei messo altre cose da questo disco, ad esempio la bellissima "Sutt'acqua e sutta jentu", intitolata "Mamma la rondinella".
La raccolta della "Squilibri", sarà il caso di dirlo, è piena di inediti. Uno di questi è una splendida versione a cappella de "La turtura", uno dei canti salentini con cui la donna chiede libertà. E' fatta in concerto e la bellissima voce di Franco Teodoro Tommasi è assolutamente in vista, con i suoi caratteristici accenti su quasi ogni nota.
Con il nuovo millennio, arriva la rivoluzione, la musica salentina oltre che riprendere i brani antichi inizia anche a comporne di nuovi o a dare nuove musiche a collage di strofe tradizionali. Non è che negli anni '70 non si fosse composto repertorio ma era stato molto poco cantato, anzi oggi sta avendo un'ulteriore rivalutazione, ma ci sarà tempo di parlarne.
La musica salentina, con il nuovo millennio, viene sfidata ad essere oggetto e protagonista di due film tra i più importanti almeno all'interno del cinema indipendente: "Pizzicata" e "Sangue vivo" di Edoardo Winspeare. Dalla colonna sonora di quest'ultimo è tratta "Sale", che è proprio un esempio di strofe tradizionali musicate in maniera moderna dagli Officina Zoè. Negli articoli sulle opere più recenti dell'Officina, ho spesso lodato questa convivenza fra modernità e tradizione. Qui, almeno secondo me, la modernità, volendo prendere delle caratteristiche della tradizione che non potrebbe naturalmente accettare, finisce per sopraffare il passato. Il brano è basato su un unico accordo che viene ripetuto fino allo sfinimento, esasperando il già di per sé ossessivo ritmo del tamburello di Zimba, che è la voce che, più di tutte, ricorda la tradizione, anche le caratteristiche che un orecchio moderno non accetta, ossia, ad esempio, le note non perfettamente "quadrate". Io stessa, e sono sincera, non riesco a concepire che si possa cantare così in un contesto di riproposta.
Non ritengo importante, poi, l'uso del tres cubano, ho già spiegato ampiamente le mie ragioni, e credo che questo uso che se ne fa nel Salento, sia solo frutto della voglia, tipicamente salentina, di rompere. Infatti, va detto, c'è stata una generazione, subito dopo la guerra, che ha rinnegato le proprie radici contadine, quindi anche la pizzica e tutto ciò che le girava intorno. Chi ha riscoperto le tradizioni, purtroppo, lo ha fatto solo per ragioni magari politico-ideologiche, perché queste rappresentavano una forma di ribellione ad un "sistema" di cui non si condividevano i caratteri fondanti. Questo, purtroppo, porta con sé una voglia, spesso insensata, di reinventare ciò che ha solo bisogno di essere leggermente depurato di alcune peculiarità.
Questo concetto, secondo me, Zoè lo ha ampiamente capito, e nel cd "Crita", di cui si è ampiamente parlato in questo blog, ha già lavorato con questa serenità su una tradizione con cui aveva fatto molto di più i conti.
Una delle istituzioni che storicamente ha di più contribuito al rilancio del folk revival a livello nazionale è stato il "Circolo Gianni Bosio" di Roma. Nel 2002 questa istituzione pubblicò un cd di musica popolare e di protesta intitolato "Vent'anni e più di...". Da questo album Vincenzo Santoro ci propone la partecipazione degli Aramirè, una preziosissima versione di "O pillo pillo pì" interpretata con Anna Cinzia Villani. In questo brano viene ampiamente dimostrato come i problemi storici, pur se investono ciclicamente zone diverse del mondo, restino insolubili.
In ossequio ad una pratica molto comune nella musica di "tradizione", il brano è una serie di strofe politiche in dialetto scritte da diversi autori su una melodia cantata da Luigi Stifani, noto violinista immortalato da Ernesto de Martino nel suo "La terra del rimorso".
Non ritengo questo brano uno dei migliori degli Aramirè, ma ci sono legata perché è stato il primo brano salentino a colpirmi in maniera efficace, anche se non so spiegarmene il motivo.
Subito dopo arriva "Jomoso", brano in lingua grika con testo di Cesare De Sanctis, musicato dagli Aramirè. E' uno dei tanti inediti che impreziosiscono la raccolta, che è forse il ritratto più completo mai fatto alla musica di "riproposta" salentina.
Il brano è un valzer basato sulla ripetizione di un semplice giro di due accordi e sull'alternanza di strofa e ritornello. E' veramente da sentire.
Una caratteristica degli ultimi Aramirè, quella che li ha fatti scoppiare e sciogliersi, è il premere molto, forse troppo, sui problemi del Salento e della nazione italiana, ma non con arte, bensì come farebbero politici in cerca di voti.
Ecco uno degli esempi di questo repertorio, la tarantella "Mazzate pesanti", tratta dall'ultimo cd del gruppo, intitolato come questo brano. La cosa che mi fa più arrabbiare è che, quando si hanno queste prospettive, si dovrebbe, come gruppo, essere un pochino coerenti, mentre non tutti quelli che hanno gridato questi testi da palchi sotto cui c'era gente che si voleva solo divertire, poi ci hanno ripensato.
Ecco un altro esempio di canto griko, suonato abbastanza bene, se non fosse che trovo un po' eccessive le parti di fisarmonica. E' la versione di "Andramupai", brano bandiera di coloro che dicono che, per essere alternativi, basta fare repertorio alternativo.
Quello che si nota a livello tecnico, ascoltando questo disco, è che, in generale, si è avuta la tendenza all'abbandono di stilemi tradizionali, in favore di una voglia, altrettanto stupida quanto quella di imitare gli anziani, di far diventare la musica salentina "altro" da sé. Comunque, siccome Vincenzo Santoro è un amante della tradizione, qui non si trovano esempi estremi, e la "riproposta" oggi è estremamente variegata.
Subito dopo c'è una tarantella del XVII secolo interpretata nello spettacolo "Danzare col ragno" dall'"Ensemble Terra d'Otranto". E' una tarantella in tono minore, caratterizzata dal giro che è più tipico della zona del brindisino, la tonica, la quarta e la dominante. E' molto bella, ma devo dire che di buone versioni di questo brano ve ne sono anche altre, quantomeno quella del "Canzoniere Grecanico Salentino" nel cd "Canti e pizzichi d'amore".
Subito dopo arriva la "Pizzica di Ostuni" tratta da "Sende na rionette sunà", album che l'organettista brindisino Massimiliano Morabito ha pubblicato per la stessa casa editrice di questa raccolta. E' una versione molto bella, anche se mi risulta pesante quando va in tono minore, per quanto so che questa sia una caratteristica tipica delle pizziche di quelle zone. Devo dire, andando un po' fuori tema, che l'album da cui è tratta è un disco che, per quanto ben fatto, non mi fa impazzire, come tutti quelli che siano monotematici su qualcosa, laddove la tradizione a cui ci si riferisca sia più varia.
Subito dopo, sempre in tema con pizziche dove l'organetto sia il più importante accompagnatore, arriva la "Pizzica pizzica di Nardò" interpretata da Anna Cinzia Villani, tratta dal suo disco d'esordio solista "Ninnamorella". Non è un album che mi convinca, perché mi suona brutto tutto ciò che modernizzi esageratamente i brani tradizionali. Infatti, e scusate la sincerità, amo solo le pizziche ed i brani suonati e cantati in maniera tradizionale, anche perché l'interprete ha queste caratteristiche molto forti, e non è che gli arrangiamenti moderni sono equilibrati da un canto altrettanto moderno.
Per quanto riguarda il brano è una rielaborazione bellissima della "Pizzica pizzica di Nardò", basata sullo stile della tamburellista Salvatora Marzo, storica accompagnatrice di Luigi Stifani. Anche le strofe sono tradizionali.
Rispetto alla più conosciuta interpretazione dei "Musicanova" nell'lp "Garofano d'ammore", qui non si ha voglia di imitare le tarantate in maniera teatrale, qui c'è la calma e la coscienza della tipicità.
Il cd si chiude con un altro dei numerosi inediti che lo costellano, interpretato da un trio di ottime cantanti che gira sotto il nome di "E quista è la strada de le donne belle". Il brano è "Luna otrantina", scritto in italiano negli anni '70 da Rina Durante, colei che abbiamo visto essere stata la maggiore colpevole dell'inizio delle ricerche e soprattutto del dialogo di questa musica con il nostro tempo. Il brano, nella mia ignoranza, posso semplicemente descriverlo come un dialogo tra tre voci che alternano momenti di forte tradizione, ad altri di altrettanto forte modernità.
Vorrei consigliare questo disco sia a chi non accetta la riproposta, così ne impara a capire la complessità e l'importanza per la sopravvivenza di questa musica, sia a chi crede di conoscerla con l'ascolto di coloro che modernizzano il folklore senza dialogare con la tradizione, sfruttandone solo le matrici.
Spero che questo cd possa portarvi in un viaggio intrigante, lungo cinquant'anni, in grado di rapirti ed imprigionarti nel suo cerchio.
Il cd contiene una ventina di brani, che fanno capire la complessità e la varietà delle rielaborazioni possibili di un canto popolare. Va detto che, e conoscendo l'autore era abbastanza ovvio, si privilegia solo quel repertorio che viene eseguito con strumenti appartenenti alla tradizione o alle testimonianze che di essa abbiamo.
Per trovare un primo tentativo di "riproposta" della musica salentina, bisogna risalire al 1962, quando nasce il "Nuovo Canzoniere del Salento". In questo cd di quell'epoca ci sono due esempi, una rielaborazione di "Moretto", uno dei canti meno eseguiti della tradizione, e "'Ntunuccio", che invece, poi, diventerà uno dei classici di questo stesso repertorio. Lo stile, d'altronde lo resterà fino all'apparizione degli Officina Zoè, era molto basato sull'imitazione pedissequa dei cantori tradizionali.
Subito dopo arrivano due brani, anche qui un classico ed uno quasi sconosciuto, interpretati da Giovanna Marini, a cui, comunque, va il merito di aver aiutato questi giovani ragazzi salentini, mettendoli in contatto con la già viva realtà del "Nuovo canzoniere italiano". I brani che vengono presentati sono "Fimmene fimmene", con una velocizzazione eccessiva dei finali di strofa, e "Giulia di Fornovo", che non è altro che una rielaborazione della melodia con cui attualmente Giovanni Avantaggiato, cantore di Corigliano d'Otranto, esegue "La cerva".
Dalle ceneri del "Nuovo Canzoniere del Salento", nel 1975, sempre sotto la fondamentale influenza di Rina Durante, una delle prime ricercatrici salentine, nacque il "Canzoniere Grecanico salentino". Gli strumenti usati qui sono quelli tradizionali, ed il tamburello ancora era lontano dal terzinare in questa maniera ossessiva che oggi è il pane quotidiano di chi ascolta la pizzica. Credo anche che si fosse lontani da questa tendenza, che forse oggi sta anche regredendo per fortuna, a fare solo pizziche.
Il "Canzoniere grecanico salentino", direttamente dal suo primo lp "Canti della Grecìa salentina e di Terra d'Otranto", interpreta uno dei brani più conosciuti della tradizione leccese "Te sira", unica pizzica presente nel vinile.
Molto vicini al "Canzoniere Grecanico salentino", sono i "Radici", progetto di cui fecero parte due grandi musicisti: Donatello Pisanello, che qui suona chitarra, armonica e mandolino, e Claudio Miggiano, da non confondere con il suonatore di Tres nel cd "Sangue vivo" degli Officina Zoè, dotato di una delle voci più potenti e penetranti che conosco. Del gruppo in questione vi sono due brani. Il primo è un canto di lavoro, con una melodia che molto difficilmente riterrei veramente tradizionale, mi pare piuttosto una di quelle rielaborazioni un po' pretenziose così tipiche di certo stile Zoè prima maniera. Il brano infatti ha un ritmo pseudomediterraneo, suonato, credo, con una tammorra muta, quantomeno non riesco a sentire i cimbali al tamburello. Bisogna dire che questo materiale, essendo storico, ha una qualità di audio un po' discutibile, ma è una testimonianza di qualcosa che non c'è più.
Subito dopo, sempre nella versione dei "Radici" c'è "Santu Paulu", che oggi è uno dei brani immancabili quando si parla di pizzica. Credo che sia una pizzica di Ugento, con alcune strofe che oggi, molto raramente si metterebbero in questo tipo di repertorio. Infatti, ancora, per fortuna, non si aveva tutta questa standardizzazione dei repertori e delle varianti, si era d'altronde ancora molto vicini alla tradizione viva.
Parlare dello stile del gruppo porterebbe a dire che ricorda, molto superficialmente ma inevitabilmente, lo stile dei primi Zoè nonché certe cose degli Alla Bua.
Nel 1989 uno dei più grandi studiosi di musica popolare salentina, il cantante e polistrumentista Roberto Raheli, dà vita al "Canzoniere di terra d'Otranto", richiamando, tra l'altro, a sé musicisti che erano stati coinvolti nel "Canzoniere Grecanico salentino", che, nel frattempo aveva molto diradato la propria attività.
In questa raccolta ci sono due esempi dello stile del gruppo. Il primo è tratto dal loro unico disco, il pregevole "Bassa musica", autoprodotto nel 1994, primo cd mai inciso di questa musica. Il brano è un valzerino con cui si porta una serenata. Sinceramente, e non sarà l'unica volta, io avrei messo altre cose da questo disco, ad esempio la bellissima "Sutt'acqua e sutta jentu", intitolata "Mamma la rondinella".
La raccolta della "Squilibri", sarà il caso di dirlo, è piena di inediti. Uno di questi è una splendida versione a cappella de "La turtura", uno dei canti salentini con cui la donna chiede libertà. E' fatta in concerto e la bellissima voce di Franco Teodoro Tommasi è assolutamente in vista, con i suoi caratteristici accenti su quasi ogni nota.
Con il nuovo millennio, arriva la rivoluzione, la musica salentina oltre che riprendere i brani antichi inizia anche a comporne di nuovi o a dare nuove musiche a collage di strofe tradizionali. Non è che negli anni '70 non si fosse composto repertorio ma era stato molto poco cantato, anzi oggi sta avendo un'ulteriore rivalutazione, ma ci sarà tempo di parlarne.
La musica salentina, con il nuovo millennio, viene sfidata ad essere oggetto e protagonista di due film tra i più importanti almeno all'interno del cinema indipendente: "Pizzicata" e "Sangue vivo" di Edoardo Winspeare. Dalla colonna sonora di quest'ultimo è tratta "Sale", che è proprio un esempio di strofe tradizionali musicate in maniera moderna dagli Officina Zoè. Negli articoli sulle opere più recenti dell'Officina, ho spesso lodato questa convivenza fra modernità e tradizione. Qui, almeno secondo me, la modernità, volendo prendere delle caratteristiche della tradizione che non potrebbe naturalmente accettare, finisce per sopraffare il passato. Il brano è basato su un unico accordo che viene ripetuto fino allo sfinimento, esasperando il già di per sé ossessivo ritmo del tamburello di Zimba, che è la voce che, più di tutte, ricorda la tradizione, anche le caratteristiche che un orecchio moderno non accetta, ossia, ad esempio, le note non perfettamente "quadrate". Io stessa, e sono sincera, non riesco a concepire che si possa cantare così in un contesto di riproposta.
Non ritengo importante, poi, l'uso del tres cubano, ho già spiegato ampiamente le mie ragioni, e credo che questo uso che se ne fa nel Salento, sia solo frutto della voglia, tipicamente salentina, di rompere. Infatti, va detto, c'è stata una generazione, subito dopo la guerra, che ha rinnegato le proprie radici contadine, quindi anche la pizzica e tutto ciò che le girava intorno. Chi ha riscoperto le tradizioni, purtroppo, lo ha fatto solo per ragioni magari politico-ideologiche, perché queste rappresentavano una forma di ribellione ad un "sistema" di cui non si condividevano i caratteri fondanti. Questo, purtroppo, porta con sé una voglia, spesso insensata, di reinventare ciò che ha solo bisogno di essere leggermente depurato di alcune peculiarità.
Questo concetto, secondo me, Zoè lo ha ampiamente capito, e nel cd "Crita", di cui si è ampiamente parlato in questo blog, ha già lavorato con questa serenità su una tradizione con cui aveva fatto molto di più i conti.
Una delle istituzioni che storicamente ha di più contribuito al rilancio del folk revival a livello nazionale è stato il "Circolo Gianni Bosio" di Roma. Nel 2002 questa istituzione pubblicò un cd di musica popolare e di protesta intitolato "Vent'anni e più di...". Da questo album Vincenzo Santoro ci propone la partecipazione degli Aramirè, una preziosissima versione di "O pillo pillo pì" interpretata con Anna Cinzia Villani. In questo brano viene ampiamente dimostrato come i problemi storici, pur se investono ciclicamente zone diverse del mondo, restino insolubili.
In ossequio ad una pratica molto comune nella musica di "tradizione", il brano è una serie di strofe politiche in dialetto scritte da diversi autori su una melodia cantata da Luigi Stifani, noto violinista immortalato da Ernesto de Martino nel suo "La terra del rimorso".
Non ritengo questo brano uno dei migliori degli Aramirè, ma ci sono legata perché è stato il primo brano salentino a colpirmi in maniera efficace, anche se non so spiegarmene il motivo.
Subito dopo arriva "Jomoso", brano in lingua grika con testo di Cesare De Sanctis, musicato dagli Aramirè. E' uno dei tanti inediti che impreziosiscono la raccolta, che è forse il ritratto più completo mai fatto alla musica di "riproposta" salentina.
Il brano è un valzer basato sulla ripetizione di un semplice giro di due accordi e sull'alternanza di strofa e ritornello. E' veramente da sentire.
Una caratteristica degli ultimi Aramirè, quella che li ha fatti scoppiare e sciogliersi, è il premere molto, forse troppo, sui problemi del Salento e della nazione italiana, ma non con arte, bensì come farebbero politici in cerca di voti.
Ecco uno degli esempi di questo repertorio, la tarantella "Mazzate pesanti", tratta dall'ultimo cd del gruppo, intitolato come questo brano. La cosa che mi fa più arrabbiare è che, quando si hanno queste prospettive, si dovrebbe, come gruppo, essere un pochino coerenti, mentre non tutti quelli che hanno gridato questi testi da palchi sotto cui c'era gente che si voleva solo divertire, poi ci hanno ripensato.
Ecco un altro esempio di canto griko, suonato abbastanza bene, se non fosse che trovo un po' eccessive le parti di fisarmonica. E' la versione di "Andramupai", brano bandiera di coloro che dicono che, per essere alternativi, basta fare repertorio alternativo.
Quello che si nota a livello tecnico, ascoltando questo disco, è che, in generale, si è avuta la tendenza all'abbandono di stilemi tradizionali, in favore di una voglia, altrettanto stupida quanto quella di imitare gli anziani, di far diventare la musica salentina "altro" da sé. Comunque, siccome Vincenzo Santoro è un amante della tradizione, qui non si trovano esempi estremi, e la "riproposta" oggi è estremamente variegata.
Subito dopo c'è una tarantella del XVII secolo interpretata nello spettacolo "Danzare col ragno" dall'"Ensemble Terra d'Otranto". E' una tarantella in tono minore, caratterizzata dal giro che è più tipico della zona del brindisino, la tonica, la quarta e la dominante. E' molto bella, ma devo dire che di buone versioni di questo brano ve ne sono anche altre, quantomeno quella del "Canzoniere Grecanico Salentino" nel cd "Canti e pizzichi d'amore".
Subito dopo arriva la "Pizzica di Ostuni" tratta da "Sende na rionette sunà", album che l'organettista brindisino Massimiliano Morabito ha pubblicato per la stessa casa editrice di questa raccolta. E' una versione molto bella, anche se mi risulta pesante quando va in tono minore, per quanto so che questa sia una caratteristica tipica delle pizziche di quelle zone. Devo dire, andando un po' fuori tema, che l'album da cui è tratta è un disco che, per quanto ben fatto, non mi fa impazzire, come tutti quelli che siano monotematici su qualcosa, laddove la tradizione a cui ci si riferisca sia più varia.
Subito dopo, sempre in tema con pizziche dove l'organetto sia il più importante accompagnatore, arriva la "Pizzica pizzica di Nardò" interpretata da Anna Cinzia Villani, tratta dal suo disco d'esordio solista "Ninnamorella". Non è un album che mi convinca, perché mi suona brutto tutto ciò che modernizzi esageratamente i brani tradizionali. Infatti, e scusate la sincerità, amo solo le pizziche ed i brani suonati e cantati in maniera tradizionale, anche perché l'interprete ha queste caratteristiche molto forti, e non è che gli arrangiamenti moderni sono equilibrati da un canto altrettanto moderno.
Per quanto riguarda il brano è una rielaborazione bellissima della "Pizzica pizzica di Nardò", basata sullo stile della tamburellista Salvatora Marzo, storica accompagnatrice di Luigi Stifani. Anche le strofe sono tradizionali.
Rispetto alla più conosciuta interpretazione dei "Musicanova" nell'lp "Garofano d'ammore", qui non si ha voglia di imitare le tarantate in maniera teatrale, qui c'è la calma e la coscienza della tipicità.
Il cd si chiude con un altro dei numerosi inediti che lo costellano, interpretato da un trio di ottime cantanti che gira sotto il nome di "E quista è la strada de le donne belle". Il brano è "Luna otrantina", scritto in italiano negli anni '70 da Rina Durante, colei che abbiamo visto essere stata la maggiore colpevole dell'inizio delle ricerche e soprattutto del dialogo di questa musica con il nostro tempo. Il brano, nella mia ignoranza, posso semplicemente descriverlo come un dialogo tra tre voci che alternano momenti di forte tradizione, ad altri di altrettanto forte modernità.
Vorrei consigliare questo disco sia a chi non accetta la riproposta, così ne impara a capire la complessità e l'importanza per la sopravvivenza di questa musica, sia a chi crede di conoscerla con l'ascolto di coloro che modernizzano il folklore senza dialogare con la tradizione, sfruttandone solo le matrici.
Spero che questo cd possa portarvi in un viaggio intrigante, lungo cinquant'anni, in grado di rapirti ed imprigionarti nel suo cerchio.
mercoledì 8 luglio 2009
Il ritorno della taranta (recensione cd)
Carissimi lettori, è con grandissimo piacere che riesco, finalmente, a recensire il cd allegato al libro "Il ritorno della taranta. Storia della rinascita della musica popolare salentina", scritto da Vincenzo Santoro e pubblicato dalla "Squilibri" di Roma.
Il cd contiene una ventina di brani, che fanno capire la complessità e la varietà delle rielaborazioni possibili di un canto popolare. Va detto che, e conoscendo l'autore era abbastanza ovvio, si privilegia solo quel repertorio che viene eseguito con strumenti appartenenti alla tradizione o alle testimonianze che di essa abbiamo.
Per trovare un primo tentativo di "riproposta" della musica salentina, bisogna risalire al 1962, quando nasce il "Nuovo Canzoniere del Salento". In questo cd di quell'epoca ci sono due esempi, una rielaborazione di "Moretto", uno dei canti meno eseguiti della tradizione, e "'Ntunuccio", che invece, poi, diventerà uno dei classici di questo stesso repertorio. Lo stile, d'altronde lo resterà fino all'apparizione degli Officina Zoè, era molto basato sull'imitazione pedissequa dei cantori tradizionali.
Subito dopo arrivano due brani, anche qui un classico ed uno quasi sconosciuto, interpretati da Giovanna Marini, a cui, comunque, va il merito di aver aiutato questi giovani ragazzi salentini, mettendoli in contatto con la già viva realtà del "Nuovo canzoniere italiano". I brani che vengono presentati sono "Fimmene fimmene", con una velocizzazione eccessiva dei finali di strofa, e "Giulia di Fornovo", che non è altro che una rielaborazione della melodia con cui attualmente Giovanni Avantaggiato, cantore di Corigliano d'Otranto, esegue "La cerva".
Dalle ceneri del "Nuovo Canzoniere del Salento", nel 1975, sempre sotto la fondamentale influenza di Rina Durante, una delle prime ricercatrici salentine, nacque il "Canzoniere Grecanico salentino". Gli strumenti usati qui sono quelli tradizionali, ed il tamburello ancora era lontano dal terzinare in questa maniera ossessiva che oggi è il pane quotidiano di chi ascolta la pizzica. Credo anche che si fosse lontani da questa tendenza, che forse oggi sta anche regredendo per fortuna, a fare solo pizziche.
Il "Canzoniere grecanico salentino", direttamente dal suo primo lp "Canti della Grecìa salentina e di Terra d'Otranto", interpreta uno dei brani più conosciuti della tradizione leccese "Te sira", unica pizzica presente nel vinile.
Molto vicini al "Canzoniere Grecanico salentino", sono i "Radici", progetto di cui fecero parte due grandi musicisti che poi confluirono in Zoè: Donatello Pisanello, che qui suona chitarra, armonica e mandolino, e Claudio Miggiano. Del gruppo in questione vi sono due brani. Il primo è un canto di lavoro, con una melodia che molto difficilmente riterrei veramente tradizionale, mi pare piuttosto una di quelle rielaborazioni un po' pretenziose così tipiche di certo stile Zoè prima maniera. Il brano infatti ha un ritmo pseudomediterraneo, suonato, credo, con una tammorra muta, quantomeno non riesco a sentire i cimbali al tamburello. Bisogna dire che questo materiale, essendo storico, ha una qualità di audio un po' discutibile, ma è una testimonianza di qualcosa che non c'è più.
Subito dopo, sempre nella versione dei "Radici" c'è "Santu Paulu", che oggi è uno dei brani immancabili quando si parla di pizzica. Credo che sia una pizzica di Ugento, con alcune strofe che oggi, molto raramente si metterebbero in questo tipo di repertorio. Infatti, ancora, per fortuna, non si aveva tutta questa standardizzazione dei repertori e delle varianti, si era d'altronde ancora molto vicini alla tradizione viva.
Parlare dello stile del gruppo porterebbe a dire che ricorda, molto superficialmente ma inevitabilmente, lo stile dei primi Zoè nonché certe cose dei primi Alla Bua.
Nel 1989 uno dei più grandi studiosi di musica popolare salentina, il cantante e polistrumentista Roberto Raheli, dà vita al "Canzoniere di terra d'Otranto", richiamando, tra l'altro, a sé musicisti che erano stati coinvolti nel "Canzoniere Grecanico salentino", che, nel frattempo aveva molto diradato la propria attività.
In questa raccolta ci sono due esempi dello stile del gruppo. Il primo è tratto dal loro unico disco, il pregevole "Bassa musica", autoprodotto nel 1994, primo cd mai inciso di questa musica. Il brano è un valzerino con cui si porta una serenata. Sinceramente, e non sarà l'unica volta, io avrei messo altre cose da questo disco, ad esempio la bellissima "Sutt'acqua e sutta jentu", intitolata "Mamma la rondinella".
La raccolta della "Squilibri", sarà il caso di dirlo, è piena di inediti. Uno di questi è una splendida versione a cappella de "La turtura", uno dei canti salentini con cui la donna chiede libertà. E' fatta in concerto e la bellissima voce di Franco Teodoro Tommasi è assolutamente in vista, con i suoi caratteristici accenti su quasi ogni nota.
Con il nuovo millennio, arriva la rivoluzione, la musica salentina oltre che riprendere i brani antichi inizia anche a comporne di nuovi o a dare nuove musiche a collage di strofe tradizionali. Non è che negli anni '70 non si fosse composto repertorio ma era stato molto poco cantato, anzi oggi sta avendo un'ulteriore rivalutazione, ma ci sarà tempo di parlarne.
La musica salentina, con il nuovo millennio, viene sfidata ad essere oggetto e protagonista di due film tra i più importanti almeno all'interno del cinema indipendente: "Pizzicata" e "Sangue vivo" di Edoardo Winspeare. Dalla colonna sonora di quest'ultimo è tratta "Sale", che è proprio un esempio di strofe tradizionali musicate in maniera moderna dagli Officina Zoè. Negli articoli sulle opere più recenti dell'Officina, ho spesso lodato questa convivenza fra modernità e tradizione. Qui, almeno secondo me, la modernità, volendo prendere delle caratteristiche della tradizione che non potrebbe naturalmente accettare, finisce per sopraffare il passato. Il brano è basato su un unico accordo che viene ripetuto fino allo sfinimento, esasperando il già di per sé ossessivo ritmo del tamburello di Zimba, che è la voce che, più di tutte, ricorda la tradizione, anche le caratteristiche che un orecchio moderno non accetta, ossia, ad esempio, le note non perfettamente "quadrate". Io stessa, e sono sincera, non riesco a concepire che si possa cantare così in un contesto di riproposta.
Non ritengo importante, poi, l'uso del tres cubano, ho già spiegato ampiamente le mie ragioni, e credo che questo uso che se ne fa nel Salento, sia solo frutto della voglia, tipicamente salentina, di rompere. Infatti, va detto, c'è stata una generazione, subito dopo la guerra, che ha rinnegato le proprie radici contadine, quindi anche la pizzica e tutto ciò che le girava intorno. Chi ha riscoperto le tradizioni, purtroppo, lo ha fatto solo per ragioni magari politico-ideologiche, perché queste rappresentavano una forma di ribellione ad un "sistema" di cui non si condividevano i caratteri fondanti. Questo, purtroppo, porta con sé una voglia, spesso insensata, di reinventare ciò che ha solo bisogno di essere leggermente depurato di alcune peculiarità.
Questo concetto, secondo me, Zoè lo ha ampiamente capito, e nel cd "Crita", di cui si è ampiamente parlato in questo blog, ha già lavorato con questa serenità su una tradizione con cui aveva fatto molto di più i conti.
Una delle istituzioni che storicamente ha di più contribuito al rilancio del folk revival a livello nazionale è stato il "Circolo Gianni Bosio" di Roma. Nel 2002 questa istituzione pubblicò un cd di musica popolare e di protesta intitolato "Vent'anni e più di...". Da questo album Vincenzo Santoro ci propone la partecipazione degli Aramirè, una preziosissima versione di "O pillo pillo pillo pì" interpretata con Anna Cinzia Villani. In questo brano viene ampiamente dimostrato come i problemi storici, pur se investono ciclicamente zone diverse del mondo, restino insolubili.
In ossequio ad una pratica molto comune nella musica di "tradizione", il brano è una serie di strofe politiche in dialetto scritte da diversi autori su una melodia cantata da Luigi Stifani, noto violinista immortalato da Ernesto de Martino nel suo "La terra del rimorso".
Non ritengo questo brano uno dei migliori degli Aramirè, ma ci sono legata perché è stato il primo brano salentino a colpirmi in maniera efficace, anche se non so spiegarmene il perché.
Subito dopo arriva "Jomoso", brano in lingua grika con testo di Cesare De Sanctis, musicato dagli Aramirè. E' uno dei tanti inediti che impreziosiscono la raccolta, che è forse il ritratto più completo mai fatto alla musica di "riproposta" salentina.
Il brano è un valzer basato sulla ripetizione di un semplice giro di due accordi e sull'alternanza di strofa e ritornello. E' veramente da sentire.
Una caratteristica degli ultimi Aramirè, quella che li ha fatti scoppiare e sciogliersi, è il premere molto, forse troppo, sui problemi del Salento e della nazione italiana, ma non con arte, bensì come farebbero politici in cerca di voti.
Ecco uno degli esempi di questo repertorio, la tarantella "Mazzate pesanti", tratta dall'ultimo cd del gruppo, intitolato come questo brano. La cosa che mi fa più arrabbiare è che, quando si hanno queste prospettive, si dovrebbe, come gruppo, essere un pochino coerenti, mentre non tutti quelli che hanno gridato questi testi da palchi sotto cui c'era gente che si voleva solo divertire, poi ci hanno ripensato.
Ecco un altro esempio di canto griko, suonato abbastanza bene, se non fosse che trovo un po' eccessive le parti di fisarmonica. E' la versione di "Andramupai", brano bandiera di coloro che dicono che, per essere alternativi, basta fare repertorio alternativo.
Quello che si nota a livello tecnico, ascoltando questo disco, è che, in generale, si è avuta la tendenza all'abbandono di stilemi tradizionali, in favore di una voglia, altrettanto stupida quanto quella di imitare gli anziani, di far diventare la musica salentina "altro" da sé. Comunque, siccome Vincenzo Santoro è un amante della tradizione, qui non si trovano esempi estremi, e la "riproposta" oggi è estremamente variegata.
Subito dopo c'è una tarantella del XVII secolo interpretata nello spettacolo "Danzare col ragno" dall'"Ensemble Terra d'Otranto". E' una tarantella in tono minore, caratterizzata dal giro che è più tipico della zona del brindisino, la tonica, la quarta e la dominante. E' molto bella, ma devo dire che di buone versioni di questo brano ve ne sono alcune, quantomeno quella del "Canzoniere Grecanico Salentino" nel cd "Canti e pizzichi d'amore".
Subito dopo arriva la "Pizzica di Ostuni" tratta da "Sende na rionette sunà", album che l'organettista brindisino Massimiliano Morabito ha pubblicato per la stessa casa editrice di questa raccolta. E' una versione molto bella, anche se mi risulta pesante quando va in tono minore, per quanto so che questa sia una carateristica tipica delle pizziche di quelle zone. Devo dire, andando un po' fuori tema, che l'album da cui è tratta è un disco che, per quanto ben fatto, non mi fa impazzire, come tutti quelli che siano monotematici su qualcosa, laddove la tradizione a cui ci si riferisca sia più varia.
Subito dopo, sempre in tema con pizziche dove l'organetto sia il più importante accompagnatore, arriva la "Pizzica pizzica di Nardò" interpretata da Anna Cinzia Villani, tratta dal suo disco d'esordio solista "Ninnamorella". Non è un album che mi convinca, perché mi suona brutto tutto ciò che modernizzi esageratamente i brani tradizionali. Infatti, e scusate la sincerità, amo solo le pizziche ed i brani suonati e cantati in maniera tradizionale, anche perché l'interprete ha queste caratteristiche molto forti, e non è che gli arrangiamenti moderni sono equilibrati da un canto altrettanto moderno.
Per quanto riguarda il brano è una rielaborazione bellissima della "Pizzica pizzica di Nardò", basata sullo stile della tamburellista Salvatora Marzo, storica accompagnatrice di Luigi Stifani. Anche le strofe sono tradizionali.
Rispetto alla più conosciuta interpretazione dei "Musicanova" nell'lp "Garofano d'ammore", qui non si ha voglia di imitare le tarantate in maniera teatrale, qui c'è la calma e la coscienza della tipicità.
Il cd si chiude con un altro dei numerosi inediti che lo costellano, interpretato da un trio di ottime cantanti che gira sotto il nome di "E quista è la strada de le donne belle". Il brano è "Luna otrantina", scritto in italiano negli anni '70 da Rina Durante, colei che abbiamo visto essere stata la maggiore colpevole dell'inizio delle ricerche e soprattutto del dialogo di questa musica con il nostro tempo. Il brano, nella mia ignoranza, posso semplicemente descriverlo come un dialogo tra tre voci che alternano momenti di forte tradizione, ad altri di altrettanto forte modernità.
Vorrei consigliare questo disco sia a chi non accetta la riproposta, così ne impara a capire la complessità e l'importanza per la sopravvivenza di questa musica, sia a chi crede di conoscerla con l'ascolto di coloro che modernizzano il folklore senza dialogare con la tradizione, sfruttandone solo le matrici.
Spero che questo cd possa portarvi in un viaggio intrigante, lungo cinquant'anni, in grado di rapirti ed imprigionarti nel suo cerchio.
Il cd contiene una ventina di brani, che fanno capire la complessità e la varietà delle rielaborazioni possibili di un canto popolare. Va detto che, e conoscendo l'autore era abbastanza ovvio, si privilegia solo quel repertorio che viene eseguito con strumenti appartenenti alla tradizione o alle testimonianze che di essa abbiamo.
Per trovare un primo tentativo di "riproposta" della musica salentina, bisogna risalire al 1962, quando nasce il "Nuovo Canzoniere del Salento". In questo cd di quell'epoca ci sono due esempi, una rielaborazione di "Moretto", uno dei canti meno eseguiti della tradizione, e "'Ntunuccio", che invece, poi, diventerà uno dei classici di questo stesso repertorio. Lo stile, d'altronde lo resterà fino all'apparizione degli Officina Zoè, era molto basato sull'imitazione pedissequa dei cantori tradizionali.
Subito dopo arrivano due brani, anche qui un classico ed uno quasi sconosciuto, interpretati da Giovanna Marini, a cui, comunque, va il merito di aver aiutato questi giovani ragazzi salentini, mettendoli in contatto con la già viva realtà del "Nuovo canzoniere italiano". I brani che vengono presentati sono "Fimmene fimmene", con una velocizzazione eccessiva dei finali di strofa, e "Giulia di Fornovo", che non è altro che una rielaborazione della melodia con cui attualmente Giovanni Avantaggiato, cantore di Corigliano d'Otranto, esegue "La cerva".
Dalle ceneri del "Nuovo Canzoniere del Salento", nel 1975, sempre sotto la fondamentale influenza di Rina Durante, una delle prime ricercatrici salentine, nacque il "Canzoniere Grecanico salentino". Gli strumenti usati qui sono quelli tradizionali, ed il tamburello ancora era lontano dal terzinare in questa maniera ossessiva che oggi è il pane quotidiano di chi ascolta la pizzica. Credo anche che si fosse lontani da questa tendenza, che forse oggi sta anche regredendo per fortuna, a fare solo pizziche.
Il "Canzoniere grecanico salentino", direttamente dal suo primo lp "Canti della Grecìa salentina e di Terra d'Otranto", interpreta uno dei brani più conosciuti della tradizione leccese "Te sira", unica pizzica presente nel vinile.
Molto vicini al "Canzoniere Grecanico salentino", sono i "Radici", progetto di cui fecero parte due grandi musicisti che poi confluirono in Zoè: Donatello Pisanello, che qui suona chitarra, armonica e mandolino, e Claudio Miggiano. Del gruppo in questione vi sono due brani. Il primo è un canto di lavoro, con una melodia che molto difficilmente riterrei veramente tradizionale, mi pare piuttosto una di quelle rielaborazioni un po' pretenziose così tipiche di certo stile Zoè prima maniera. Il brano infatti ha un ritmo pseudomediterraneo, suonato, credo, con una tammorra muta, quantomeno non riesco a sentire i cimbali al tamburello. Bisogna dire che questo materiale, essendo storico, ha una qualità di audio un po' discutibile, ma è una testimonianza di qualcosa che non c'è più.
Subito dopo, sempre nella versione dei "Radici" c'è "Santu Paulu", che oggi è uno dei brani immancabili quando si parla di pizzica. Credo che sia una pizzica di Ugento, con alcune strofe che oggi, molto raramente si metterebbero in questo tipo di repertorio. Infatti, ancora, per fortuna, non si aveva tutta questa standardizzazione dei repertori e delle varianti, si era d'altronde ancora molto vicini alla tradizione viva.
Parlare dello stile del gruppo porterebbe a dire che ricorda, molto superficialmente ma inevitabilmente, lo stile dei primi Zoè nonché certe cose dei primi Alla Bua.
Nel 1989 uno dei più grandi studiosi di musica popolare salentina, il cantante e polistrumentista Roberto Raheli, dà vita al "Canzoniere di terra d'Otranto", richiamando, tra l'altro, a sé musicisti che erano stati coinvolti nel "Canzoniere Grecanico salentino", che, nel frattempo aveva molto diradato la propria attività.
In questa raccolta ci sono due esempi dello stile del gruppo. Il primo è tratto dal loro unico disco, il pregevole "Bassa musica", autoprodotto nel 1994, primo cd mai inciso di questa musica. Il brano è un valzerino con cui si porta una serenata. Sinceramente, e non sarà l'unica volta, io avrei messo altre cose da questo disco, ad esempio la bellissima "Sutt'acqua e sutta jentu", intitolata "Mamma la rondinella".
La raccolta della "Squilibri", sarà il caso di dirlo, è piena di inediti. Uno di questi è una splendida versione a cappella de "La turtura", uno dei canti salentini con cui la donna chiede libertà. E' fatta in concerto e la bellissima voce di Franco Teodoro Tommasi è assolutamente in vista, con i suoi caratteristici accenti su quasi ogni nota.
Con il nuovo millennio, arriva la rivoluzione, la musica salentina oltre che riprendere i brani antichi inizia anche a comporne di nuovi o a dare nuove musiche a collage di strofe tradizionali. Non è che negli anni '70 non si fosse composto repertorio ma era stato molto poco cantato, anzi oggi sta avendo un'ulteriore rivalutazione, ma ci sarà tempo di parlarne.
La musica salentina, con il nuovo millennio, viene sfidata ad essere oggetto e protagonista di due film tra i più importanti almeno all'interno del cinema indipendente: "Pizzicata" e "Sangue vivo" di Edoardo Winspeare. Dalla colonna sonora di quest'ultimo è tratta "Sale", che è proprio un esempio di strofe tradizionali musicate in maniera moderna dagli Officina Zoè. Negli articoli sulle opere più recenti dell'Officina, ho spesso lodato questa convivenza fra modernità e tradizione. Qui, almeno secondo me, la modernità, volendo prendere delle caratteristiche della tradizione che non potrebbe naturalmente accettare, finisce per sopraffare il passato. Il brano è basato su un unico accordo che viene ripetuto fino allo sfinimento, esasperando il già di per sé ossessivo ritmo del tamburello di Zimba, che è la voce che, più di tutte, ricorda la tradizione, anche le caratteristiche che un orecchio moderno non accetta, ossia, ad esempio, le note non perfettamente "quadrate". Io stessa, e sono sincera, non riesco a concepire che si possa cantare così in un contesto di riproposta.
Non ritengo importante, poi, l'uso del tres cubano, ho già spiegato ampiamente le mie ragioni, e credo che questo uso che se ne fa nel Salento, sia solo frutto della voglia, tipicamente salentina, di rompere. Infatti, va detto, c'è stata una generazione, subito dopo la guerra, che ha rinnegato le proprie radici contadine, quindi anche la pizzica e tutto ciò che le girava intorno. Chi ha riscoperto le tradizioni, purtroppo, lo ha fatto solo per ragioni magari politico-ideologiche, perché queste rappresentavano una forma di ribellione ad un "sistema" di cui non si condividevano i caratteri fondanti. Questo, purtroppo, porta con sé una voglia, spesso insensata, di reinventare ciò che ha solo bisogno di essere leggermente depurato di alcune peculiarità.
Questo concetto, secondo me, Zoè lo ha ampiamente capito, e nel cd "Crita", di cui si è ampiamente parlato in questo blog, ha già lavorato con questa serenità su una tradizione con cui aveva fatto molto di più i conti.
Una delle istituzioni che storicamente ha di più contribuito al rilancio del folk revival a livello nazionale è stato il "Circolo Gianni Bosio" di Roma. Nel 2002 questa istituzione pubblicò un cd di musica popolare e di protesta intitolato "Vent'anni e più di...". Da questo album Vincenzo Santoro ci propone la partecipazione degli Aramirè, una preziosissima versione di "O pillo pillo pillo pì" interpretata con Anna Cinzia Villani. In questo brano viene ampiamente dimostrato come i problemi storici, pur se investono ciclicamente zone diverse del mondo, restino insolubili.
In ossequio ad una pratica molto comune nella musica di "tradizione", il brano è una serie di strofe politiche in dialetto scritte da diversi autori su una melodia cantata da Luigi Stifani, noto violinista immortalato da Ernesto de Martino nel suo "La terra del rimorso".
Non ritengo questo brano uno dei migliori degli Aramirè, ma ci sono legata perché è stato il primo brano salentino a colpirmi in maniera efficace, anche se non so spiegarmene il perché.
Subito dopo arriva "Jomoso", brano in lingua grika con testo di Cesare De Sanctis, musicato dagli Aramirè. E' uno dei tanti inediti che impreziosiscono la raccolta, che è forse il ritratto più completo mai fatto alla musica di "riproposta" salentina.
Il brano è un valzer basato sulla ripetizione di un semplice giro di due accordi e sull'alternanza di strofa e ritornello. E' veramente da sentire.
Una caratteristica degli ultimi Aramirè, quella che li ha fatti scoppiare e sciogliersi, è il premere molto, forse troppo, sui problemi del Salento e della nazione italiana, ma non con arte, bensì come farebbero politici in cerca di voti.
Ecco uno degli esempi di questo repertorio, la tarantella "Mazzate pesanti", tratta dall'ultimo cd del gruppo, intitolato come questo brano. La cosa che mi fa più arrabbiare è che, quando si hanno queste prospettive, si dovrebbe, come gruppo, essere un pochino coerenti, mentre non tutti quelli che hanno gridato questi testi da palchi sotto cui c'era gente che si voleva solo divertire, poi ci hanno ripensato.
Ecco un altro esempio di canto griko, suonato abbastanza bene, se non fosse che trovo un po' eccessive le parti di fisarmonica. E' la versione di "Andramupai", brano bandiera di coloro che dicono che, per essere alternativi, basta fare repertorio alternativo.
Quello che si nota a livello tecnico, ascoltando questo disco, è che, in generale, si è avuta la tendenza all'abbandono di stilemi tradizionali, in favore di una voglia, altrettanto stupida quanto quella di imitare gli anziani, di far diventare la musica salentina "altro" da sé. Comunque, siccome Vincenzo Santoro è un amante della tradizione, qui non si trovano esempi estremi, e la "riproposta" oggi è estremamente variegata.
Subito dopo c'è una tarantella del XVII secolo interpretata nello spettacolo "Danzare col ragno" dall'"Ensemble Terra d'Otranto". E' una tarantella in tono minore, caratterizzata dal giro che è più tipico della zona del brindisino, la tonica, la quarta e la dominante. E' molto bella, ma devo dire che di buone versioni di questo brano ve ne sono alcune, quantomeno quella del "Canzoniere Grecanico Salentino" nel cd "Canti e pizzichi d'amore".
Subito dopo arriva la "Pizzica di Ostuni" tratta da "Sende na rionette sunà", album che l'organettista brindisino Massimiliano Morabito ha pubblicato per la stessa casa editrice di questa raccolta. E' una versione molto bella, anche se mi risulta pesante quando va in tono minore, per quanto so che questa sia una carateristica tipica delle pizziche di quelle zone. Devo dire, andando un po' fuori tema, che l'album da cui è tratta è un disco che, per quanto ben fatto, non mi fa impazzire, come tutti quelli che siano monotematici su qualcosa, laddove la tradizione a cui ci si riferisca sia più varia.
Subito dopo, sempre in tema con pizziche dove l'organetto sia il più importante accompagnatore, arriva la "Pizzica pizzica di Nardò" interpretata da Anna Cinzia Villani, tratta dal suo disco d'esordio solista "Ninnamorella". Non è un album che mi convinca, perché mi suona brutto tutto ciò che modernizzi esageratamente i brani tradizionali. Infatti, e scusate la sincerità, amo solo le pizziche ed i brani suonati e cantati in maniera tradizionale, anche perché l'interprete ha queste caratteristiche molto forti, e non è che gli arrangiamenti moderni sono equilibrati da un canto altrettanto moderno.
Per quanto riguarda il brano è una rielaborazione bellissima della "Pizzica pizzica di Nardò", basata sullo stile della tamburellista Salvatora Marzo, storica accompagnatrice di Luigi Stifani. Anche le strofe sono tradizionali.
Rispetto alla più conosciuta interpretazione dei "Musicanova" nell'lp "Garofano d'ammore", qui non si ha voglia di imitare le tarantate in maniera teatrale, qui c'è la calma e la coscienza della tipicità.
Il cd si chiude con un altro dei numerosi inediti che lo costellano, interpretato da un trio di ottime cantanti che gira sotto il nome di "E quista è la strada de le donne belle". Il brano è "Luna otrantina", scritto in italiano negli anni '70 da Rina Durante, colei che abbiamo visto essere stata la maggiore colpevole dell'inizio delle ricerche e soprattutto del dialogo di questa musica con il nostro tempo. Il brano, nella mia ignoranza, posso semplicemente descriverlo come un dialogo tra tre voci che alternano momenti di forte tradizione, ad altri di altrettanto forte modernità.
Vorrei consigliare questo disco sia a chi non accetta la riproposta, così ne impara a capire la complessità e l'importanza per la sopravvivenza di questa musica, sia a chi crede di conoscerla con l'ascolto di coloro che modernizzano il folklore senza dialogare con la tradizione, sfruttandone solo le matrici.
Spero che questo cd possa portarvi in un viaggio intrigante, lungo cinquant'anni, in grado di rapirti ed imprigionarti nel suo cerchio.
mercoledì 1 luglio 2009
Novità da zoè!
Carissimi lettori, è con particolare piacere che aggiorno il sito quest'oggi.Nel myspace degli Zoè, all'indirizzo www.myspace.com/officinazoe, si possono sentire due brani di "Maledetti guai", nuovo album del gruppo da me particolarmente atteso.
Innanzitutto, e "benedetti" Zoè!, si può sentire "Cu li suspiri", meravigliosa pizzica in re minore, con venature di tango argentino molto pronunciate.La cosa meravigliosa è che l'Officina, come sempre, quando si arricchisce non si scorda mai da dove viene.Se dovessi paragonare questo brano a qualcosa di già pubblicato, penserei all'altrettanto bella "Respiri di pizzica", scritta da Antonio Castrignanò per "Nuovomondo". Lìh, però, si aveva una maggiore libertà in quanto il brano era strumentale. Zoè, che quando si sfida lo fa del tutto, ha preferito cantare e cantare un testo tradizionale.L'inizio e la fine del brano sono una tipica pizzica alla Zoè, si pensi a "Don pizzica" di "Sangue vivo". Si trova infatti un assolo fantastico di organetto in tonalità minore, dopo il quale, senza soluzione di continuità, si staglia la poderosa voce di Cinzia coadiuvata dall'altrettanto brava Rachele. Il testo è tradizionale e, per non soffocarlo, questa parte si limita ad un tipico giro da pizzica, tonica e dominante.
Finito il canto, presentata soprattutto da una terzina di violino molto ipnotica e pulita, arriva una parte basata su un re minore perpetuo, dove i mantici fanno davvero prodezze, arrivando ad inserire delle scale di sol minore quasi a tango argentino. Dopo una pausa, per dimostrare che non c'è voglia di fuggire ma di arricchirsi, torna la salentinità pura e disarmante del giro in tonica e dominante.
L'altro brano, "Maledetti guai", è una tarantella con influenze maliane molto evidenti, d'altronde Zoè ha collaborato per un anno circa con il polistrumentista di quel paese Baba Sissoko.
L'inizio è riservato alla caratteristica più inconfondibile di Zoè, seppur ripresa anche da certa tradizione salentina, ossia ai vocalizzi. In questo caso, però, ci troviamo di fronte alla convivenza di tipici vocalizzi africani, fatti da Cinzia con una voce particolarmente scura, come si deve, e di pratiche già più tipiche dello stile Zoè.
Con questo esempio credo di aver sintetizzato lo spirito del brano, ma approfondirò. L'accompagnamento percussivo è, come si è già accennato, affidato a percussioni africane, ma il ritmo che viene eseguito è quello di pizzica lenta o di tarantella. La chitarra acustica, completamente africana, aiuta la mandola a scoprire una parte abbastanza segreta di sé.
Il testo è completamente in italiano ma Cinzia, per fortuna, non si forza a parlare "pulito", voglio dire che chi la conosce può benissimo immaginarsi di sentirla parlare a venti metri da lui, tanto è naturale. Se devo fare un commento sui contenuti del brano, direi che è uno di quei brani di invito alla semplicità così tipici di Zoè. Il canto, infine, per tornare a quella convivenza di Africa e Salento citata sopra, è basato sull'alternanza di note staccate all'africana, in corrispondenza di parole come "po'," "giù" che vengono ripetute, ed i tipici gorgheggi mediterranei e salentini.
Se mi chiedete di fare una previsione su come sarà accolto questo cd, purtroppo sono pessimista.
Ovviamente, infatti, ai tradizionalisti non piacerà perché è troppo contaminato, mentre, ai contaminatori da strapazzo secondo cui la contaminazione deve far sparire tutto ciò che è tradizione, non piacerà perché, vuoi o non vuoi, il Salento ci respira dentro. E non penso al Salento da Notte della Taranta, ma a quello che soffre e patisce i "maledetti guai" antichi e moderni.
Non piacerà perché le sonorità etniche sono comunque profonde e battenti, neanche ai cultori della cosiddetta "world music", che vogliono il poppettino o la dancettina con "venature etniche". Qui, amici, ci sono culture che si incontrano e si rispettano reciprocamente, non c'è l'accozzaglia che vi piace tanto, né però c'è il Salento come fortezza che piace molto ai tradizionalisti.
Provate a sentire i brani con serenità, forse vi aprirete a qualcosa di davvero bello!
Innanzitutto, e "benedetti" Zoè!, si può sentire "Cu li suspiri", meravigliosa pizzica in re minore, con venature di tango argentino molto pronunciate.La cosa meravigliosa è che l'Officina, come sempre, quando si arricchisce non si scorda mai da dove viene.Se dovessi paragonare questo brano a qualcosa di già pubblicato, penserei all'altrettanto bella "Respiri di pizzica", scritta da Antonio Castrignanò per "Nuovomondo". Lìh, però, si aveva una maggiore libertà in quanto il brano era strumentale. Zoè, che quando si sfida lo fa del tutto, ha preferito cantare e cantare un testo tradizionale.L'inizio e la fine del brano sono una tipica pizzica alla Zoè, si pensi a "Don pizzica" di "Sangue vivo". Si trova infatti un assolo fantastico di organetto in tonalità minore, dopo il quale, senza soluzione di continuità, si staglia la poderosa voce di Cinzia coadiuvata dall'altrettanto brava Rachele. Il testo è tradizionale e, per non soffocarlo, questa parte si limita ad un tipico giro da pizzica, tonica e dominante.
Finito il canto, presentata soprattutto da una terzina di violino molto ipnotica e pulita, arriva una parte basata su un re minore perpetuo, dove i mantici fanno davvero prodezze, arrivando ad inserire delle scale di sol minore quasi a tango argentino. Dopo una pausa, per dimostrare che non c'è voglia di fuggire ma di arricchirsi, torna la salentinità pura e disarmante del giro in tonica e dominante.
L'altro brano, "Maledetti guai", è una tarantella con influenze maliane molto evidenti, d'altronde Zoè ha collaborato per un anno circa con il polistrumentista di quel paese Baba Sissoko.
L'inizio è riservato alla caratteristica più inconfondibile di Zoè, seppur ripresa anche da certa tradizione salentina, ossia ai vocalizzi. In questo caso, però, ci troviamo di fronte alla convivenza di tipici vocalizzi africani, fatti da Cinzia con una voce particolarmente scura, come si deve, e di pratiche già più tipiche dello stile Zoè.
Con questo esempio credo di aver sintetizzato lo spirito del brano, ma approfondirò. L'accompagnamento percussivo è, come si è già accennato, affidato a percussioni africane, ma il ritmo che viene eseguito è quello di pizzica lenta o di tarantella. La chitarra acustica, completamente africana, aiuta la mandola a scoprire una parte abbastanza segreta di sé.
Il testo è completamente in italiano ma Cinzia, per fortuna, non si forza a parlare "pulito", voglio dire che chi la conosce può benissimo immaginarsi di sentirla parlare a venti metri da lui, tanto è naturale. Se devo fare un commento sui contenuti del brano, direi che è uno di quei brani di invito alla semplicità così tipici di Zoè. Il canto, infine, per tornare a quella convivenza di Africa e Salento citata sopra, è basato sull'alternanza di note staccate all'africana, in corrispondenza di parole come "po'," "giù" che vengono ripetute, ed i tipici gorgheggi mediterranei e salentini.
Se mi chiedete di fare una previsione su come sarà accolto questo cd, purtroppo sono pessimista.
Ovviamente, infatti, ai tradizionalisti non piacerà perché è troppo contaminato, mentre, ai contaminatori da strapazzo secondo cui la contaminazione deve far sparire tutto ciò che è tradizione, non piacerà perché, vuoi o non vuoi, il Salento ci respira dentro. E non penso al Salento da Notte della Taranta, ma a quello che soffre e patisce i "maledetti guai" antichi e moderni.
Non piacerà perché le sonorità etniche sono comunque profonde e battenti, neanche ai cultori della cosiddetta "world music", che vogliono il poppettino o la dancettina con "venature etniche". Qui, amici, ci sono culture che si incontrano e si rispettano reciprocamente, non c'è l'accozzaglia che vi piace tanto, né però c'è il Salento come fortezza che piace molto ai tradizionalisti.
Provate a sentire i brani con serenità, forse vi aprirete a qualcosa di davvero bello!
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