martedì 4 agosto 2009

Un po' dei "Maledetti guai" dell'"Officina".

Carissimi lettori, finalmente, "Spattannu" e con tanti "sospiri" di mezzo, mi è arrivato "Maledetti guai" l'ultimo disco, per me un capolavoro, degli Officina Zoè.
E' un cd che, forse, si ascolta meglio se si scorda tutto ciò che si sa dell'"Officina" anche se magari non è adatto ai non conoscitori, perché sono cambiati molto tutti (soprattutto Cinzia).
Innanzitutto, generalizzando, direi che è un cd dove le influenze di vari paesi, dal Mediooriente al Giappone, al Mali, "condiscono" con un "tempero" specialissimo tutto. Non pensate che il Salento si sia perso, va solo un po' cercato, va solo un po' meditato, più che esserci tirannicamente è un'eco fortissima ma spesso silenziosa.
Credo che di preliminari ne ho già fatti troppi, allora eccoci alle nove magiche tracce che lo compongono.
Della prima, "A mammata", vi ho già parlato in un articolo precedente, perché è uno dei "miracoli" bellissimi compiuti da Berlusconi con la sua proverbiale stupidità.
La versione da studio è ancora più pungente, per alcuni particolari che possono colpire solo se ascoltati e non descrivibili, proprio perché è "strascicata", e della pizzica non resta che un eco.
L'"officina", secondo me, magari non volendolo, ha omaggiato un grandissimo musicista salentino, il tricasino Aldo Nichil, uno dei "colpevoli" per la strepitosa colonna sonora del bellissimo "Pizzicata" di Edoardo Winspeare.
In questo brano, a livello di canto, si viene credo subito colpiti da certe vocali di "naso" che non erano molto tipiche del precedente stile di Cinzia Marzo.
Subito dopo eccoci a quella che io ho definito "tarantella africanata", ossia a "Maledetti guai". Sono evidenti le influenze non di un'Africa sognata ed indefinita, ma di quel Mali che ha tanto tenuto compagnia all'"Officina" ultimamente, grazie alla tournée con Baba Sissoko.
Nella versione "ufficiale", più lunga di quella presente nel myspace dell'officina www.myspace.com/officinazoe, si sentono molti rimandi al jazz, che nell'altra versione si potevano solo "sospettare".
Se vogliamo fare un paragone "officiniano", questa, e quasi tutto questo cd, rimandano a quel capolavoro assoluto, purtroppo non capito, intitolato "Il miracolo".
Lì gli strumenti "tellurici" della nostra tradizione erano meno presenti piuttosto che qui, ma qui vengono sfidati a trovare un'anima "eterea" che li rende quasi irriconoscibili (si pensi alla lira calabrese suonata da Cinzia, che emette delle dissonanze contemporanee insospettabili).
Il testo dei primi due brani è in lingua italiana, e questo permette alla voce di Cinzia di essere portata da venti nuovi, che noi ammiratori degli Zoè di sempre, dobbiamo scoprire se vogliamo tentare di capire questa nuova opera.
Questa tarantella sguscia via, senza quasi averti dato la possibilità di fare quella festa così inebriante a cui porterebbe questo ritmo in condizioni "naturali".
La stessa sensazione si ha, se possibile ancora più forte, nella terza traccia, una "Pizzica mistica" che è molto più "mistica" che "pizzica".
Il suo inizio è lentissimo ed è completamente strumentale, affidato a chitarra, violino e mandolino.
La seconda fase, ancora non a pizzica, neanche lenta, è caratterizzata dall'aggiunta di una tammorra, che viene sfidata a terzinare completamente, anzi a fare anche degli accenti in più, creando, sia prima che durante il canto griko di Cinzia, un miscuglio enigmatico tra i ritmi di certe regioni del Portogallo, altre suggestioni mediterranee, nonché altre variazioni moderne sulla pizzica stessa.
Ad un certo punto, finalmente, la pizzica si materializza, ancora "muta" grazie alla tammorra, ma finalmente alla sua velocità normale.
La parte più a pizzica, che comunque porta molto più a meditare che a ballare, inizia durante un lunghissimo "la" di Cinzia, in cui la tammorra si quieta per fare spazio ai due indiavolati, ma comunque meditabondi, tamburelli di Lamberto e Danilo.
A questo punto del brano l'ensemble dell'"officina" arriva alla sua conformazione più normale: tamburelli, chitarra, organetto e violino. Non credete di trovarvi davanti ad una pausa nelle sperimentazioni perché, soprattutto nell'ultima parte, il violino esegue note dissonanti (che capisco poco).
Ed ecco la pizzica più "sospirata" dell'"Officina". E' sospirata sia perché si chiama "Cu lli suspiri", che, soprattutto, perché io ho aspettato un anno intero prima di poterla avere, dopo averla sentita al Concertone di Melpignano dell'anno scorso. (Vi ricordate della "pizzica de Santu Sebastianu"? Eccola!).
E' un tipico brano pisanelliano, di quelli in tonalità minore dove gli strumenti contano molto più delle voci, anche se Cinzia, con il suo notevole fiuto per i bei testi, ci ha messo delle parole tradizionali che, oltre a starci benissimo, obbligano l'ascoltatore a farci più di un pensierino.
La parte cantata, composta qui da almeno quattro parti, è tradizionale quindi accompagnata con un bellissimo giro in tonica e dominante (re minore-la), intervallato da un bellissimo giro di organetto che, per fare un altro paragone officiniano, ricorda "Don pizzica".
In mezzo al brano c'è un bellissimo dialogo tra organetto e violino che riesce ad unire la sensualità del tango argentino con la forza della pizzica, ma l'unione viene bene perché niente sopraffà (imparate contaminatori da strapazzo!). Prima di concludersi, questa "Cu lli suspiri", ci presenta un'"Officina" che gioca con le percussioni e le sue voci dorate, in maniera del tutto indescrivibile, come è ogni vero gioco quando è vero e spontaneo.
Ed eccoci ad un altro capolavoro nel capolavoro, la milonga argentina, scritta da Pisanello, "Spattannu", dove Cinzia, facendosi i controcanti da sola, canta una bellissima poesia vernacolare intitolata, come il brano stesso, "Spattannu".
Interessante è il dialogo tra due mandole, una che suona all'italiana, con note tremolate, e una che esegue gorgheggi mediterranei ed aperti come un oud arabo (forse c'è l'influenza del grande Ruggero Inchingolo, suonatore di liuto arabo in "Terra", primo ed indimenticato lavoro dell'"Officina").
L'organetto, che si sente pochissimo, scopre un'anima segreta di sé, credo causata da qualche accorgimento tecnico che, per la mia proverbiale ignoranza, non so rilevare.
Il testo è struggentissimo, è il racconto, dolcemente dettagliato, dell'annullamento di antiche aspettative d'amore, rappresentate da una canzone che non viene mai cantata.
La voce di Cinzia, dopo aver cantato in maniera dolcissima il testo, dialoga con se stessa, tramite le sovrincisioni, con terze e quinte interessantissime. Così il brano si chiude lasciando spazio ad un'altra perla: "Liknon".
E' un brano che, in dialetto salentino, traccia un ritratto di ciò che sentono gli immigrati che arrivano qui, che poi era quello che sentivamo noi quando ce ne andavamo dalla nostra Italia "china 'i fami e china 'i guai" (la citazione è di Otello Profazio, da "Mannaja all'ingegneri").
Scordatevi però il racconto lineare, preparatevi a quei viaggi allucinati e criptici così tipici di Cinzia Marzo, immaginate di sentire "Fracidde", magari un po' meno mistica, ma "lu ientu" che soffia è quello.
Il brano è in tono minore, ma la tristezza è "tiepida" e non si può combattere, ci si può solo lasciare avvolgere da lei come da un incantesimo improcrastinabile.
Il contrabbasso, che suonato con l'archetto spesso acquista toni apocalittici e scuri, qui arriva ad una cantabilità quasi umana, ed arriva ad usare in maniera modernissima i tipici "quarti di tono" della più pura musica popolare.
Questo assolo, è poi seguito da quello della magica mandola mediterranea che, come ho già detto in "Spattannu", fa risoffiare quel vento bellissimo e a me particolarmente grato dell'oud di Inchingolo.
Queste stesse atmosfere, forse con meno effetti mediterranei ma con altrettanta efficacia, sono poi ripresi dalla chitarra acustica di Luigi Panico, che porta il brano verso lidi più anglosassoni, ma l'effetto si interrompe subito, perché riprende, finalmente, il canto di Cinzia e Rachele, che si fa ora un dialogo tra la durezza di Cinzia, che comunque è diventata solo uno dei tanti colori che sa usare, e la dolcezza mistica di Rachele. Interessantissimo, nel canto di Cinzia, il contrasto tra il significato della parola "uraganu" e il modo con cui viene pronunciata. Il brano ora ci sta illudendo di voler finire, ma sta solo prendendo un altro ritmo, tramite un interessantissimo dialogo tra le terze tipiche salentine delle voci e i virtuosismi moderni del contrabbasso. Il ritmo, secondo me, è una tammurriata campana, che, forse, viene velocizzata un po'. Il testo che si canta in questa parte di brano è molto ripetitivo ma è pieno di caratteristiche pienamente "tradotte" dal canto (non posso dirvi niente delle parole perché sbaglierei qualcosa). Poi, sinceramente, credo che questo cd ognuno debba scoprirlo e farselo penetrare dentro molto istintivamente, quindi queste righe vogliono solo essere un invito ed un piccolo racconto di ciò che ci vedo io, non una decriptazione di nessun segreto.
Ed eccoci ad un momento balcanico, completamente strumentale quindi scritto da Donatello Pisanello, intitolato "Ciao rom". E' una congiunzione ideale tra una quasi accennata terzina di pizzica, che non viene mai eseguita per intero, e influenze balcaniche, per omaggiare i Rom, questo popolo con cui i salentini, da ormai molti anni, hanno legami indissolubili.
Ed eccoci a "Pizzicannella", pizzica interiore, la cui introduzione potrebbe ricordare il finalino di "Macaria", brano contenuto in "Sangue vivo", album di cui questo disco sviluppa e migliora molte idee.
Abbiamo percussioni e flauti che dialogano in maniera molto meditabonda, ma di una meditazione che porta alla ricerca di un equilibrio interiore, ricerca a cui Cinzia, autrice del pezzo, ha sempre puntato nella sua musica e nei suoi testi (si pensi a quella parte di "Menevò" che dice:
E' na parte de munnu
ca è puru piccinna
ca de tutta la terra
cu vai cerchi na linia.
E' na linia suttile ca passa de lu core
ca è comu nu specchiu
addù lassu lu core).
Qui, forse, si ritrova una maggiore rabbia, anche se la si interpreta perché ormai, quando arriva questa "Pizzicannella", si è entrati in pieno in questa atmosfera allucinata e criptica, di cui Zoè ci vuole ubriacare.
E il canto si interrompe per lasciare spazio alla magia dei flauti, che non dialogano più solo con i tamburi ma anche con le corde, che velocemente rispondono con un mirabile assolo di mandola, la cui dissonanza non disturba, il cui finale ricorda un pezzettino di una "guitarrada" del grande suonatore di chitarra portoghese Jaime Santos" precisamente il pezzettino più virtuosistico delle "Variações em re".
Il cd si chiude con un commovente canto griko, sempre di matrice popolare, che Cinzia riprende dal libro dell'attore e ricercatore brizio montinaro "Canti di pianto e d'amore dell'antico Salento".
Qui il canto delle "prefiche" scompare per dare spazio ad una dolcezza quasi desolata, profonda.
Spero di avervi fatto venire un po' di curiosità, ora tocca a voi immergervi in un mare di bellissimi ma "Maledetti guai".

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