Carissimi lettori, non vi ci abituate perché è difficilissimo, riesco a regalarvi la mirabile versione di "Sidùn" cantata da Ninfa Giannuzzi alla Notte Della Taranta 2008.
La voce della Giannuzzi, che come detto è interprete dall'impostazione folk-rock, dà un'interpretazione che, pur con simbologie diverse, riesce a trasmettere all'ascoltatore lo stesso dolore dell'originale, pur con un sistema fonetico diverso, quello del dialetto leccese.L'accompagnamento di Pagani non si discute, è emozionantissimo, è un brano da brivido, buon ascolto!
www.youtube.com/watch?v=IIsFOs_0UKM.
martedì 19 maggio 2009
lunedì 18 maggio 2009
Chi ha cantato Faber?
Carissimi lettori, dopo due giorni di "digiuno scrittorio", torno a voi per fare un omaggio ad un fenomeno a cui, forse per mia superficialità, ho sempre semplicemente affermato di essere chiusa "a riccio".
Mi riferisco alle reinterpretazioni di brani di Fabrizio de Andrè, che spesso, invece, mi hanno emozionato molto e formato quanto le originali (se di buona qualità). Il pretesto del post, e ve lo voglio annunciare, è quello di fare da "cornice" e contestualizzazione, ad una bellissima, per lo meno per me, reinterpretazione che vi posterò alla sua conclusione.
Andrò, praticamente, a spulciare nella mia memoria, da molti ritenuta forse esagerando di ferro, e vi parlerò di più reinterpretazioni deandreiane possibili, condannandone aspramente alcune, per vari motivi che si spiegheranno caso per caso, ed elogiandone altre, sempre con i miei soliti criteri.
Entriamo subito nel vivo della materia, parlando, e condannandola completamente, della reinterpretazione, da parte di Gabri Ponte, dj che dopo avrebbe fondato i già sciolti Eifel 65, del brano "Geordie", composizione inglese tradotta e portata al successo dal nostro. Va riconosciuto al disk jokey, e non è un merito da poco dati i diritti che questi spesso si arrogano di stravolgere le canzoni che rielaborano, di aver lasciato intatto il ritmo, per lo meno nelle sue basi profonde. Ciò non toglie che, come sempre dico, una rielaborazione, affinché porti davvero acqua al mulino della canzone originale, deve mantenervisi molto fidedigna. Infatti, e mi ricordo benissimo che mi scandalizzava, nessuno di quelli che all'epoca pompavano il brano, diceva chi fosse l'autore del testo italiano e primo interprete. Nelle radio, frequentate da Asini a livello di musica, spesso, verso la metà degli anni novanta, quando uscì il brano, si sentiva: "Ecco a voi Geordie, successo di Gabri Ponte!".
Voglio ora fare una specie di recensione, non sarà questo ma per capirci va bene, di un tributo a Faber tra i più belli e riusciti, il concerto, inciso poi su doppio cd, con alcuni aggiustamenti vergognosi, "Faber amico fragile".
Il primo disco, ed eccola la nota vergognosa, si apre con ben due tracce dedicate ad Adriano Celentano, che per farsi sopportare da una platea ormai stanca della sua platealità, la sua pseudoprovocazione ed il suo qualunquismo, ha approfittato dell'occasione per sbandierare il suo problema di memmoria, che gli fa ricordare benissimo ciò che ha fatto quarant'anni fa, ma non gli fa restare in testa ciò che impara ora, quindi deve girare con un registratore che in cuffia gli ridica ogni frase. Quello che trovo vergognoso, signori miei, è la recita che il "molleggiato" iscena, tutta portata a farsi compatire. La seconda traccia, che è effettivamente la sua versione de "La guerra di Piero", non è poi male, ma è l'unica incisa in studio, quindi rovina l'atmosfera di un bello e caldo concerto.
Subito dopo arriva Zucchero, che interpreta una delle canzoni che gli stanno più lontane del repertorio del genovese, la bellissima, sudamericana e struggente "Ho visto Nina volare". Per un artista dall'impostazione inequivocabilmente blues, come innegabilmente è lui, sarebbe andata meglio "Quello che non ho", non contemplata nella scaletta del concerto, oppure "Una storia sbagliata", interpretata nella seconda parte del concerto, quindi se ne parlerà a tempo debito.
Credo che la parola "vergognoso", come ho già affermato in articoli precedenti, si possa spendere, senza timore di essere smentiti, riguardo l'atteggiamento tenuto dalla PFM nei confronti di una memoria, da lei stessa condivisa con il cantautore, in occasione di quei tanto amati, ma sicuramente discutibili, concerti del '79-'80. "Il pescatore", che sin da subito fu uno dei peggiori brani della scaletta, con gli anni è diventato "capro espiatorio" di quella "supponenza rockettara", secondo la quale, se un brano non si porta radicalmente verso il proprio mondo, non lo si riesce a suonare. (Fino a quando qualcuno non mi riuscirà a convincere del contrario, io, orgogliosamente, suonerò le cose per come sono o quasi!). Non mi va di dilungarmi sulle stonature e la sguaiataggine di Di Cioccio (batterista e front man della band), perché ne ho già parlato e mi sentirei male.
Il primo momento veramente bello del disco, in nome di quella combinazione di cose compatibili tra loro che io auspico sempre, è la mirabile interpretazione data da un "compagno d'avventura" di De Andrè, come il grandissimo Gino Paoli, de "La canzone dell'amore perduto", che fra l'altro è, da sempre, la mia canzone preferita del genovese. Paoli, con la sua voce potente e rotta, riesce a sublimare la dolce sofferenza del testo, "gridandola confidenzialmente" come solo lui sa fare. Oltretutto, l'effetto di estrema armonia, è accentuato dall'accompagnamento completamente acustico e chitarristico, che fa pensare alla serenata notturna popolare, a cui questo capolavoro senza dubbio si richiama.
Arriva Franco Battiato, con "Amore che vieni, amore che vai". L'interpretazione, signori miei, anche se non si può negare che sia sentita, la trovo assolutamente irrispettosa, più che altro per le stonature, forse dovute solo al fatto che il siciliano in fondo non ha voce. L'arrangiamento comunque è buono, ed è un ottimo compromesso fra gli spunti barocco-elettronici del siciliano, e il terzinato anni '60, in fondo di matrice bethoveniana, tipico del brano di Faber.
Il settimo brano, pur non essendo musica, va citato tra i più emozionanti del disco, in quanto ci cala nell'atmosfera che debbono aver vissuto tutti quei "Deandreiani" convenuti in quel prestigioso teatro ed in quella altrettanto prestigiosa piazza di Genova. Come settima traccia, infatti, il disco riporta i ringraziamenti di Fabio Fazio, sicuramente tra i maggiori esperti di De Andrè, a tutti coloro che stavano rendendo possibile questo miracolo.
Subito dopo Ornella Vanoni, forse troppo confidenzialmente, interpreta "Bocca di rosa", brano che non c'entra niente con l'impostazione "bossanovistica" della milanese. In De Andrè c'è sì la posatezza, ma è equilibrata dalla potenza dei francesi. La Vanoni, con il suo canto biascicato alla João Gilberto, non può cantare De Andrè, infatti, come ho già affermato in altri articoli, per scegliere se interpretare o meno un brano, si deve pensare al nostro stile "naturale", e piuttosto che rovinarlo ci si rinuncia. Una domanda che mi sorge spontanea dal ricordo di questa scaletta è: chi ha scelto le canzoni da interpretare ed affidare ai cantanti? Io rispondo semplicemente che se l'avesse fatto un vero estimatore di Faber non si sarebbe arrivati a queste approssimazioni.
Una curiosità interessante, proseguendo, è "La romance de Marinelle", traduzione francese, interpretata dallo sconosciuto Roberto Ferri, de "La canzone di Marinella". E' molto bella, sia perché è compatibile con una delle tappe fondamentali della formazione di De Andrè che è la Francia, sia perché si è trovato un arrangiamento, quasi argentino, che esalta la musicalità dolce e potente della lingua di Molière. Il testo qualche volta, giustamente, è "rivissuto", tramite delle metafore non letterali, che permettono a questa traduzione di stagliarsi come un brano rispettosamente autonomo dall'originale.
Teresa de Sio, dopo la parentesi sicuramente eccellente nei "Musicanova" e nella Nuova Compagnia di Canto Popolare, negli anni Ottanta si era data al pop, e lo cantava in dialetto napoletano, rispettandone però scrupolosamente e giustamente gli stilemi ("Aummo aummo", "Voglia 'e turnà" e dintorni). Gli anni Novanta, nella vita della partenopea, segnano un anelito di radici, che però non la porteranno mai più al livello di coscienza, sicuramente indotto da chi era più grande di lei, in primis De Simone, dei primi lavori. La cantante, da "Ombre rosse" in poi, si limiterà, stupidamente dico io, a cantare accompagnata quasi solo da strumenti moderni ed addirittura in italiano, ma con moduli che per lei sono "etnici". Perfino in questo tributo a De Andrè, lei ha il coraggio di comportarsi così, inserendo una rabbia che non c'entra niente con il testo del brano, ne "La ballata del Michè". Non vi voglio commentare più questo brano, rileggetevi le osservazioni fatte su "lu bene mio" di "Craj", che anche se prodotto cinque anni dopo, si trova allo stesso identico stadio.
Molto buona è, per fortuna, la versione di "Inverno" offertaci dall'arpista e cantante CeCilia Chailly, sicuramente avvantaggiata dal potere evocativo del suo strumento, certamente imbattibile nel ricordarci o descriverci nature. La sua voce, oltretutto, fa un tutt'uno con le magiche corde da lei suonate, ed il brano è a dir poco sublime.
Troviamo, continuando, uno dei più grandi cantautori italiani, che ora si è completamente dato all'interpretazione di brani altrui, di generi tanto disparati come il blues od il fado, Eugenio Finardi. Fra l'altro, e va detto, di Fabrizio de Andrè ha ricantato svariati brani, neanche particolarmente conosciuti, e questa "Verranno a chiederti del nostro amore" se la porta dietro quasi come una specie di distintivo. Qui, nel 2000, c'è più voglia di essere rispettoso dello spirito originario, piuttosto che nella versione riproposta quest'anno, in occasione del tributo, sempre presentato da Fabio Fazio, andato in onda per il decennale della morte del cantautore, dove Finardi è stato accompagnato dal quintetto di Nicola Piovani.
Andando avanti nella tracklist, si sente una versione, non tra le migliori, di "Geordie". E' interpretata da un gruppo, chiamato "Mercanti di liquore" in omaggio al "Suonatore Jones" di deandreiana e leemastersiana memoria, che però ha più rispetto dei cantautori nel nome che altro. Le chitarre, infatti, suonano con troppa modernità, la fisarmonica non riesce a fare se non scontate melodie, la voce del cantante è troppo rock, insomma tanta voglia di omaggiare cose che non si amano (se io amo qualcosa ne rispetto le sonorità, sennò mi compongo roba mia!).
Ecco qui Roberto Vecchioni, cantautore, professore e musicologo, che ci interpreta, con le insicurezze che gli sono affiorate negli ultimi vent'anni di carriera, una comunque emozionante "Hotel Supramonte". E' bella, molto rispettosa, ed anche dolce e piena di dolore.
Il cd si chiude con Luciano Ligabue, che ci offre una versione non deludente ma neanche spettacolare, di "Fiume Sand Creek". Ciò che non mi convince, è lo stridore che si crea fra gli influssi nordamericani dati dal fingerpiking della chitarra e la classicità del violino, per quanto compromessa dal fatto che esso sia attaccato all'amplificazione con un cavo, invece di avere un microfono davanti.
Il secondo cd inizia con un doppio intervento del rocker di Zocca Vasco Rossi, che, dopo averla introdotta con una lettura dall'omonimo libro di Cesare G. Romana (prima traccia), interpreta "Amico fragile". Non si può negare che questo brano abbia molto a che vedere con la storia dell'emiliano, ma questi non ha più voce, e quando non si ha più voce è meglio smettere di cantare (tanto lui potrebbe anche campare benissimo di rendita).
Arriva poi una delle più grandi interpreti italiane, la romana Fiorella Mannoia, che ci regala una Khoracané, senza il pezzo in romanì, ma comunque da brivido. E' un'interpretazione timida e ruvida, come quella di "Capelli rossi" nel suo ultimo disco. (Il movimento del dare, già recensito qui).
Subito dopo si assiste all'unica cover brutta di tutto il cd, la reggaeggiante, sguaiata e stonata reinterpretazione de "La cattiva strada" di Jovanotti. Ho già affermato che costui dovrebbe limitarsi a fare il rapper, però probabilmente dire che si canta De Andrè riempie troppola bocca, e molti preferiscono riempirsela piuttosto che evitare scempi.
Vittorio De Scalzi, storica voce dei New Trolls, in controtendenza con tutti, potendoselo permettere perché De Andrè ha aiutato questo gruppo a confezionare uno dei suoi lp migliori, reinterpreta, appunto da questo disco, intitolato "Senza orario e senza bandiera", "Signore io sono Irish", scritta anche con la collaborazione di Riccardo Mannerini. L'interpretazione è molto bella, seria e professionale.
Bruttissima, proseguendo, è l'interpretazione di "Via del campo" da parte di Enzo Jannacci. Il cantante milanese, d'altronde, mi pare che in questi ultimi quindici anni di carriera stia privilegiando il teatro, la lentezza della recitazione, piuttosto che la melodicità, magari approssimativa, che però lo aveva positivamente caratterizzato in ben trent'anni di carriera. Il brano è lento, funereo, ed ha un finale, non so se aggiunto dallo stesso Jannacci, letteralmente insopportabile.
Si arriva poi ad "Una storia sbagliata", brano tra i più rari e sconosciuti del genovese, interpretato, con la solita sguaiataggine ed il normale pressappochismo, da Loredana Bertè. Il pezzo, per permettere alla cantante di "urlare senza voce", è stato rallentato e portato ad un'insopportabile tempo blues, che nella versione di Faber era semplicemente accennato. Mentre il genovese "porgeva" il suo sdegno per la fine indegna di Pasolini, la cantante urla le parole come se fossimo ad uno di quei talk show televisivi, tipo "Porta a porta", dove per farsi sentire bisogna blaterare le proprie opinioni sbraitando.
Si arriva ad una mirabile, anche se un po' approssimativa a livello di accompagnamento chitarristico, "Canzone per l'estate", interpretata da Edoardo Bennato, completamente solo sul palco, munito di chitarra, armonica e tamburello. E' molto buona, seppure, anche qui, magari, c'è la voglia di portare il pezzo verso atmosfere che il genovese tratteggia in maniera troppo indecisa per farne il perno di un arrangiamento. Anche in questo caso, come sopra, c'è troppa rabbia, laddove, né nel testo né nella musica, se ne può ravvisare.
Mirabilissima, andando avanti, è la versione di Francesco Baccini, fan di Faber che ha avuto l'occasione di collaborarci per il suo brano "Genova blues", de "La ballata dell'amore cieco". Anche lui, credo sia solo sul palco, ravvivando i fasti degli insuperabili lp d'esordio come "Il pianoforte non è il mio forte". L'anima swing della "Ballata", insieme alla sua teatralità, viene solo resa con simboli diversi, ma praticamente non stravolta.
Molto dark, insopportabile, anche perché io questo brano non lo digerisco, è la versione de "La canzone del padre", interpretata da Oliviero Malaspina. Posso dire, senza paura di essere smentita, che la "cinematograficità" insita nella versione di De Andrè, portata dagli arrangiamenti di Piovani, viene completamente distrutta.
Si continua con uno di quei cantautori che, dopo la sua morte, ha fatto dell'interpretazione di De Andrè quasi una seconda pelle. Legato al genovese da vincoli di collaborazione, ha scritto insieme a lui gli lp "Rimini" e "Fabrizio De Andrè" oltre ad altre canzoni, Massimo Bubola, forse per deferenza, preferisce sempre interpretare brani da quel repertorio. Le sue versioni sono sempre più "ruvide", "statunitensi". Non starò qui a fare osservazioni sulla sua vocalità, si può andare a leggerle nel "Commento al tributo a De Andrè" tra i primi post di questo blog.
Un altro caso di collaboratore che deferentemente ama interpretare solo brani scritti da lui stesso a quattro mani con De Andrè, è il grande Mauro Pagani. La sua versione di "Sidùn", ripresa qualche anno dopo in un remake ben fatto ma brutto di tutto "Creuza de ma", è bella musicalmente, perché lui è un grandissimo virtuoso di molti strumenti etnici come il bouzouki greco, ma vocalmente non mi ha mai convinto. Il suo timbro, e lui stesso se ne rende conto infatti canta pochissimo, non è per niente dinamico e non può competere con la versatilità del suo suonare.
Cristiano, figlio di Fabrizio, interpreta poi "Creuza de ma", coadiuvato nei cori da Mauro Pagani. E' buona, il ragazzo ci sa fare, certo al confronto con il padre, perde un pochino.
L'ultimo brano, unico inedito del cd, va bene a livello di tematica in questa occasione, in quanto si parla di un emarginato, ma se lo sarebbero benissimo potuti risparmiare. E' troppo teatrale, sporco, veramente non ha lo spirito di De Andrè, ma per vendere cd anche questo si deve fare, inserire qualche merdolina, basta che sia inedita!
Facciamo ora un breve percorso attraverso i tributi discografici e televisivi extra "Faber, amico fragile". Mi limiterò a ciò che conosco, come è mia abitudine, ignorando quindi "Mille papaveri rossi" ed il suo seguito. Mi riferirò anche, ovviamente, ad apparizioni fugaci di repertorio deandreiano in cd non ad esso dedicati.
Nel 2001, Fiorella Mannoia, nel suo cd "Fragile", da una buona, magari non perfetta ma sempre convincente, versione de "Il pescatore. E' arrangiata dal suo fido compagno Piero Fabrizi, che non sconvolge assolutamente l'impianto originario del brano, lo porta solo verso idee musicali più moderne, senza la supponenza già condannata della PFM.
Un anno prima, nel cd "Amore nel pomeriggio", sicuramente uno dei più bei lavori di tutta la sua carriera, De Gregori si appropria, in maniera personale ma rispettosa, del brano, scritto da lui stesso insieme al cantautore genovese per l'album di De Andrè "Volume VIII", "Canzone per l'estate". Questo, in maniera curiosa ma non forzata, si può interpretare come una maniera che il romano trova per ringraziare il genovese, dopo venticinque anni esatti, per avere interpretato, sempre nel "Volume VIII", la sua "Storie di ieri", che sarebbe uscita qualche mese dopo anche nell'lp degregoriano "Rimmel". Se fra le due versioni del brano appena citato riesco radicalmente a schierarmi con Faber, nell'altro caso sono titubante anche perché le due versioni di "Canzone per l'estate" sono talmente diverse, anche in alcune parti di testo, che solo un cultore della materia cantautorale riesce a ricordarsi o ad essere sicuro che siano lo stesso brano. Nella versione di De Gregori, ovviamente, si accentua l'anima un po' country, perdendosi , in proporzione, tutta quella limpidezza europea così cara al genovese.
Di tributi a De Andrè se ne sono visti tanti, forse anche troppi, e ne vorrei parlare brevemente, per quello che mi ricordo. Al concerto del Primo maggio a Roma, nell'edizione 2004, quella presentata da Claudio Bisio che conteneva quell'orribile performance dell'Ensemble "Notte della Taranta" diretto da Steward Copeland, c'è stato un collettivo di artisti, diretto ovviamente dall'insostituibile Di Cioccio della PFM, che ha interpretato il testamento di Tito. Vergogna! Non posso scordarmi, ormai credo non ci sia speranza, dell'entrata di Linda, cantante che era esplosa a Sanremo e poi è scoppiata da sola, che alla sua strofa, "Non dire falsa testimonianza", ha dato un'interpretazione blues che con il pezzo c'entra come i cavoli a merenda. Questa è stata solo la punta di un iceberg, va da sé, ma è quello che mi ricordo.
Rai uno, qualche anno fa, si prodigò in un tributo a De Andrè, dalla Sardegna perché si amano molto i luoghi simbolo, presentato anche (l'altro non me lo ricordo) da Pamela Villoresi. L'orchestra non era male, se non altro era acustica, ma davvero si rasentava l'inascoltabile.Non mi posso scordare, anche perché la sua partecipazione sapeva molto di promozione personale, di Morgan, che interpretò "Un giudice" in maniera completamente elettronica, poco dopo aver fatto la sua vergognosa reinterpretazione di tutto "Non al denaro, non all'amore né al cielo".
Mi ricordo di una buona, non perfetta perché i jazzisti puri come lui non sanno cantare repertorio cantautorale non proprio, interpretazione de "La città vecchia" da parte di un Sergio Cammariere che, a quanto pare, ancora godeva dei favori del sistema radiotelevisivo.
Claudio Bisio, che in quel periodo era anche impegnato in una rielaborazione teatrale de "La buona novella", interpretò "Spiritual" e, nonostante le stonature, fu una delle cose più belle che si sentirono.
Le Palentes, valente gruppo sardo che in quel periodo spopolava con "Ciciri" (spero si scriva così), fecero una versione molto buona di "Volta la carta".
Prendiamo ora, abbastanza di petto perché ancora me lo ricordo, il tributo a De Andrè andato in onda all'interno della trasmissione di Rai tre "Che tempo che fa", ovviamente presentato sempre dal suo conduttore abituale, il già citato Fabio Fazio.
Sono stata particolarmente contenta, e lo dico, che la sigla che annunciava i vari rientri dalle pause pubblicitarie, sempre presenti nonostante l'esoso ed inutile canone rai, era un pezzettino strumentale tratto da "A çimma", brano non particolarmente conosciuto, ma tra i più belli della produzione dialettale deandreiana.
Il prologo, chiamato da Fazio anteprima, è stato un dialogo con l'architetto Renzo Piano, grande amico di De Andrè, su quanto un luogo può diventare simbolico in relazione ad un particolare momento della vita di qualsiasi persona. Non posso parlarvi precisamente di questo momento, posso solo dirvi che mi ha toccato molto, perché, non so a voi, ma le personalità famose magari a livello mondiale, come il signor Piano, solo molto difficilmente vengono credute dotate di umanità (questo anche grazie ai media, che amano tanto la creazione di miti).
Venendo concretamente alla serie di brani eseguiti, tutte versioni mai pubblicate prima, è iniziata con una "Don Raffaè", interpretata da Lucio Dalla insieme al suo alter ego, l'attore Marco Alemanno. Credo che, ormai, Dalla dovrebbe decidersi: o fa il cantante, di cose proprie od altrui, o fa altre cose (regista, professore, presentatore televisivo e chi più ne ha più ne metta). Il bolognese, come sempre quando si fa accompagnare da strumenti acustici, avrebbe dato sicuramente il meglio di sé se non fosse stato coadiuvato da questo attore, che non sapeva assolutamente cantare, né sostenere l'amico nello sforzo di cantare nel napoletano di De Andrè, che per quanto edulcorato, sempre lingua partenopea resta.
Subito dopo è arrivata Gianna Nannini, cantante troppo rock anche se con tinte popolareggianti, che ha interpretato "Via del campo", fortunatamente con un arrangiamento rispettoso, ma sicuramente non in maniera da incorniciare.
Franco Battiato, credo subito dopo, ha interpretato inverno, commuovendosi anche questa volta, tornando ancora una volta a sfoderare l'arma del patetismo per far scordare le sue quantomeno dubbie qualità vocali.
Roberto Vecchioni, insieme ad un gruppetto di bambini della scuola dove insegna, che fra l'altro è intitolata proprio al cantautore genovese, ha eseguito una bellissima versione di "Girotondo".
Antonella Ruggero, cosiccome aveva fatto in un vergognoso concerto svoltosi a Masciano, in provincia di Perugia, sempre di tributo al nostro, ha interpretato l'"Avemaria" da "La buona novella". Interpretazione notevole, d'altronde fu una delle poche cose, anche nell'altra occasione, che si potevano salvare (le nostre lacrime ed i nostri applausi andavano più a De Andrè che ai cantanti che interpretavano senz'anima le sue canzoni).
Jovanotti, che nel frattempo si è "ufficialmente" convertito al nostro cantautorato italiano, ha interpretato, non malvagiamente ma certo non egregiamente, "Il suonatore Jones", direttamente da Spoon River, che così si è scoperto essere posto esistente nella mappa degli Stati Uniti.
Ottima è stata, d'altronde il brano è nelle corde dei due interpreti, l'accoppiata Bubola-Bennato per "Quello che non ho". Il canto di Bubola si stagliava perfettamente su quel tappeto di blues, accentuato ulteriormente dalle improvvisazioni dell'armonica in mi di Edoardo.
Uno dei pezzi più maltrattati della discografia di De Andrè è "Il pescatore", che l'11 gennaio di quest'anno è stato cantato da Piero Pelù, specialista negli scempi di brani altrui, vedasi la sua versione di "kalinifta" al concertone di Melpignano 2005. (Per vederla basta andare su youtube). Il problema del cantante toscano è, ovviamente, quello di non saper contaminare il proprio stile con presupposti propri degli altri che man mano tocca, e questo per me è gravissimo.
Si è già parlato, all'interno dell'articolo specificatamente dedicato a quel cd, della canzone di Faber "Dolcenera", interpretata egregiamente dagli Alla Bua nel loro "Limamo". Il citarla ora serve ad introdurre un argomento che non posso sviscerare quanto vorrei, quello delle traduzioni di canzoni del nostro nei vari dialetti italiani. A questo, qualcuno di voi se ne ricorderà, era stato dedicato il cd "Canti randagi" nel 1995. Lì, pur se io l'ho sentita in un tributo televisivo, è stata pubblicata una versione da brivido di "Tre madri", interpretata dall'ottima interprete sarda Elena Ledda.
Peppe Barra, nel suo disco "Guerra", ha interpretato, dando il la ad una moda, "Bocca di rosa" in napoletano. La sua versione è, come al solito, troppo teatrale, ed è solo il brano di De Andrè a contaminarsi con lo stile di Barra, non c'è rapporto di reciprocità.
Eccoci arrivati al gioiello che chiude questa carrellata, la versione in salentino di "Sidùn", interpretata da Ninfa Giannuzzi, interprete della scena folk-rock salentina, durante l'ultima edizione de "La Notte Della Taranta". La cantante, che si cala molto nel ruolo del genitore che piange il figlio sbranato dai carri armati israeliani, dà davvero un'anima profondamente popolare ed antica al brano, coadiuvata in questo dal grande Pagani che suona il bouzouki e le fa il controcanto nella parte finale, quella che anche in "Creuza de ma" era polivocale.
Purtroppo, amici cari, devo rassegnarmi a non poterla postare, andate su youtube e la troverete, con il titolo "Omaggio a De Andrè dal Salento".
Buona visione e buona riscoperta di questo e molti altri gioielli.
Mi riferisco alle reinterpretazioni di brani di Fabrizio de Andrè, che spesso, invece, mi hanno emozionato molto e formato quanto le originali (se di buona qualità). Il pretesto del post, e ve lo voglio annunciare, è quello di fare da "cornice" e contestualizzazione, ad una bellissima, per lo meno per me, reinterpretazione che vi posterò alla sua conclusione.
Andrò, praticamente, a spulciare nella mia memoria, da molti ritenuta forse esagerando di ferro, e vi parlerò di più reinterpretazioni deandreiane possibili, condannandone aspramente alcune, per vari motivi che si spiegheranno caso per caso, ed elogiandone altre, sempre con i miei soliti criteri.
Entriamo subito nel vivo della materia, parlando, e condannandola completamente, della reinterpretazione, da parte di Gabri Ponte, dj che dopo avrebbe fondato i già sciolti Eifel 65, del brano "Geordie", composizione inglese tradotta e portata al successo dal nostro. Va riconosciuto al disk jokey, e non è un merito da poco dati i diritti che questi spesso si arrogano di stravolgere le canzoni che rielaborano, di aver lasciato intatto il ritmo, per lo meno nelle sue basi profonde. Ciò non toglie che, come sempre dico, una rielaborazione, affinché porti davvero acqua al mulino della canzone originale, deve mantenervisi molto fidedigna. Infatti, e mi ricordo benissimo che mi scandalizzava, nessuno di quelli che all'epoca pompavano il brano, diceva chi fosse l'autore del testo italiano e primo interprete. Nelle radio, frequentate da Asini a livello di musica, spesso, verso la metà degli anni novanta, quando uscì il brano, si sentiva: "Ecco a voi Geordie, successo di Gabri Ponte!".
Voglio ora fare una specie di recensione, non sarà questo ma per capirci va bene, di un tributo a Faber tra i più belli e riusciti, il concerto, inciso poi su doppio cd, con alcuni aggiustamenti vergognosi, "Faber amico fragile".
Il primo disco, ed eccola la nota vergognosa, si apre con ben due tracce dedicate ad Adriano Celentano, che per farsi sopportare da una platea ormai stanca della sua platealità, la sua pseudoprovocazione ed il suo qualunquismo, ha approfittato dell'occasione per sbandierare il suo problema di memmoria, che gli fa ricordare benissimo ciò che ha fatto quarant'anni fa, ma non gli fa restare in testa ciò che impara ora, quindi deve girare con un registratore che in cuffia gli ridica ogni frase. Quello che trovo vergognoso, signori miei, è la recita che il "molleggiato" iscena, tutta portata a farsi compatire. La seconda traccia, che è effettivamente la sua versione de "La guerra di Piero", non è poi male, ma è l'unica incisa in studio, quindi rovina l'atmosfera di un bello e caldo concerto.
Subito dopo arriva Zucchero, che interpreta una delle canzoni che gli stanno più lontane del repertorio del genovese, la bellissima, sudamericana e struggente "Ho visto Nina volare". Per un artista dall'impostazione inequivocabilmente blues, come innegabilmente è lui, sarebbe andata meglio "Quello che non ho", non contemplata nella scaletta del concerto, oppure "Una storia sbagliata", interpretata nella seconda parte del concerto, quindi se ne parlerà a tempo debito.
Credo che la parola "vergognoso", come ho già affermato in articoli precedenti, si possa spendere, senza timore di essere smentiti, riguardo l'atteggiamento tenuto dalla PFM nei confronti di una memoria, da lei stessa condivisa con il cantautore, in occasione di quei tanto amati, ma sicuramente discutibili, concerti del '79-'80. "Il pescatore", che sin da subito fu uno dei peggiori brani della scaletta, con gli anni è diventato "capro espiatorio" di quella "supponenza rockettara", secondo la quale, se un brano non si porta radicalmente verso il proprio mondo, non lo si riesce a suonare. (Fino a quando qualcuno non mi riuscirà a convincere del contrario, io, orgogliosamente, suonerò le cose per come sono o quasi!). Non mi va di dilungarmi sulle stonature e la sguaiataggine di Di Cioccio (batterista e front man della band), perché ne ho già parlato e mi sentirei male.
Il primo momento veramente bello del disco, in nome di quella combinazione di cose compatibili tra loro che io auspico sempre, è la mirabile interpretazione data da un "compagno d'avventura" di De Andrè, come il grandissimo Gino Paoli, de "La canzone dell'amore perduto", che fra l'altro è, da sempre, la mia canzone preferita del genovese. Paoli, con la sua voce potente e rotta, riesce a sublimare la dolce sofferenza del testo, "gridandola confidenzialmente" come solo lui sa fare. Oltretutto, l'effetto di estrema armonia, è accentuato dall'accompagnamento completamente acustico e chitarristico, che fa pensare alla serenata notturna popolare, a cui questo capolavoro senza dubbio si richiama.
Arriva Franco Battiato, con "Amore che vieni, amore che vai". L'interpretazione, signori miei, anche se non si può negare che sia sentita, la trovo assolutamente irrispettosa, più che altro per le stonature, forse dovute solo al fatto che il siciliano in fondo non ha voce. L'arrangiamento comunque è buono, ed è un ottimo compromesso fra gli spunti barocco-elettronici del siciliano, e il terzinato anni '60, in fondo di matrice bethoveniana, tipico del brano di Faber.
Il settimo brano, pur non essendo musica, va citato tra i più emozionanti del disco, in quanto ci cala nell'atmosfera che debbono aver vissuto tutti quei "Deandreiani" convenuti in quel prestigioso teatro ed in quella altrettanto prestigiosa piazza di Genova. Come settima traccia, infatti, il disco riporta i ringraziamenti di Fabio Fazio, sicuramente tra i maggiori esperti di De Andrè, a tutti coloro che stavano rendendo possibile questo miracolo.
Subito dopo Ornella Vanoni, forse troppo confidenzialmente, interpreta "Bocca di rosa", brano che non c'entra niente con l'impostazione "bossanovistica" della milanese. In De Andrè c'è sì la posatezza, ma è equilibrata dalla potenza dei francesi. La Vanoni, con il suo canto biascicato alla João Gilberto, non può cantare De Andrè, infatti, come ho già affermato in altri articoli, per scegliere se interpretare o meno un brano, si deve pensare al nostro stile "naturale", e piuttosto che rovinarlo ci si rinuncia. Una domanda che mi sorge spontanea dal ricordo di questa scaletta è: chi ha scelto le canzoni da interpretare ed affidare ai cantanti? Io rispondo semplicemente che se l'avesse fatto un vero estimatore di Faber non si sarebbe arrivati a queste approssimazioni.
Una curiosità interessante, proseguendo, è "La romance de Marinelle", traduzione francese, interpretata dallo sconosciuto Roberto Ferri, de "La canzone di Marinella". E' molto bella, sia perché è compatibile con una delle tappe fondamentali della formazione di De Andrè che è la Francia, sia perché si è trovato un arrangiamento, quasi argentino, che esalta la musicalità dolce e potente della lingua di Molière. Il testo qualche volta, giustamente, è "rivissuto", tramite delle metafore non letterali, che permettono a questa traduzione di stagliarsi come un brano rispettosamente autonomo dall'originale.
Teresa de Sio, dopo la parentesi sicuramente eccellente nei "Musicanova" e nella Nuova Compagnia di Canto Popolare, negli anni Ottanta si era data al pop, e lo cantava in dialetto napoletano, rispettandone però scrupolosamente e giustamente gli stilemi ("Aummo aummo", "Voglia 'e turnà" e dintorni). Gli anni Novanta, nella vita della partenopea, segnano un anelito di radici, che però non la porteranno mai più al livello di coscienza, sicuramente indotto da chi era più grande di lei, in primis De Simone, dei primi lavori. La cantante, da "Ombre rosse" in poi, si limiterà, stupidamente dico io, a cantare accompagnata quasi solo da strumenti moderni ed addirittura in italiano, ma con moduli che per lei sono "etnici". Perfino in questo tributo a De Andrè, lei ha il coraggio di comportarsi così, inserendo una rabbia che non c'entra niente con il testo del brano, ne "La ballata del Michè". Non vi voglio commentare più questo brano, rileggetevi le osservazioni fatte su "lu bene mio" di "Craj", che anche se prodotto cinque anni dopo, si trova allo stesso identico stadio.
Molto buona è, per fortuna, la versione di "Inverno" offertaci dall'arpista e cantante CeCilia Chailly, sicuramente avvantaggiata dal potere evocativo del suo strumento, certamente imbattibile nel ricordarci o descriverci nature. La sua voce, oltretutto, fa un tutt'uno con le magiche corde da lei suonate, ed il brano è a dir poco sublime.
Troviamo, continuando, uno dei più grandi cantautori italiani, che ora si è completamente dato all'interpretazione di brani altrui, di generi tanto disparati come il blues od il fado, Eugenio Finardi. Fra l'altro, e va detto, di Fabrizio de Andrè ha ricantato svariati brani, neanche particolarmente conosciuti, e questa "Verranno a chiederti del nostro amore" se la porta dietro quasi come una specie di distintivo. Qui, nel 2000, c'è più voglia di essere rispettoso dello spirito originario, piuttosto che nella versione riproposta quest'anno, in occasione del tributo, sempre presentato da Fabio Fazio, andato in onda per il decennale della morte del cantautore, dove Finardi è stato accompagnato dal quintetto di Nicola Piovani.
Andando avanti nella tracklist, si sente una versione, non tra le migliori, di "Geordie". E' interpretata da un gruppo, chiamato "Mercanti di liquore" in omaggio al "Suonatore Jones" di deandreiana e leemastersiana memoria, che però ha più rispetto dei cantautori nel nome che altro. Le chitarre, infatti, suonano con troppa modernità, la fisarmonica non riesce a fare se non scontate melodie, la voce del cantante è troppo rock, insomma tanta voglia di omaggiare cose che non si amano (se io amo qualcosa ne rispetto le sonorità, sennò mi compongo roba mia!).
Ecco qui Roberto Vecchioni, cantautore, professore e musicologo, che ci interpreta, con le insicurezze che gli sono affiorate negli ultimi vent'anni di carriera, una comunque emozionante "Hotel Supramonte". E' bella, molto rispettosa, ed anche dolce e piena di dolore.
Il cd si chiude con Luciano Ligabue, che ci offre una versione non deludente ma neanche spettacolare, di "Fiume Sand Creek". Ciò che non mi convince, è lo stridore che si crea fra gli influssi nordamericani dati dal fingerpiking della chitarra e la classicità del violino, per quanto compromessa dal fatto che esso sia attaccato all'amplificazione con un cavo, invece di avere un microfono davanti.
Il secondo cd inizia con un doppio intervento del rocker di Zocca Vasco Rossi, che, dopo averla introdotta con una lettura dall'omonimo libro di Cesare G. Romana (prima traccia), interpreta "Amico fragile". Non si può negare che questo brano abbia molto a che vedere con la storia dell'emiliano, ma questi non ha più voce, e quando non si ha più voce è meglio smettere di cantare (tanto lui potrebbe anche campare benissimo di rendita).
Arriva poi una delle più grandi interpreti italiane, la romana Fiorella Mannoia, che ci regala una Khoracané, senza il pezzo in romanì, ma comunque da brivido. E' un'interpretazione timida e ruvida, come quella di "Capelli rossi" nel suo ultimo disco. (Il movimento del dare, già recensito qui).
Subito dopo si assiste all'unica cover brutta di tutto il cd, la reggaeggiante, sguaiata e stonata reinterpretazione de "La cattiva strada" di Jovanotti. Ho già affermato che costui dovrebbe limitarsi a fare il rapper, però probabilmente dire che si canta De Andrè riempie troppola bocca, e molti preferiscono riempirsela piuttosto che evitare scempi.
Vittorio De Scalzi, storica voce dei New Trolls, in controtendenza con tutti, potendoselo permettere perché De Andrè ha aiutato questo gruppo a confezionare uno dei suoi lp migliori, reinterpreta, appunto da questo disco, intitolato "Senza orario e senza bandiera", "Signore io sono Irish", scritta anche con la collaborazione di Riccardo Mannerini. L'interpretazione è molto bella, seria e professionale.
Bruttissima, proseguendo, è l'interpretazione di "Via del campo" da parte di Enzo Jannacci. Il cantante milanese, d'altronde, mi pare che in questi ultimi quindici anni di carriera stia privilegiando il teatro, la lentezza della recitazione, piuttosto che la melodicità, magari approssimativa, che però lo aveva positivamente caratterizzato in ben trent'anni di carriera. Il brano è lento, funereo, ed ha un finale, non so se aggiunto dallo stesso Jannacci, letteralmente insopportabile.
Si arriva poi ad "Una storia sbagliata", brano tra i più rari e sconosciuti del genovese, interpretato, con la solita sguaiataggine ed il normale pressappochismo, da Loredana Bertè. Il pezzo, per permettere alla cantante di "urlare senza voce", è stato rallentato e portato ad un'insopportabile tempo blues, che nella versione di Faber era semplicemente accennato. Mentre il genovese "porgeva" il suo sdegno per la fine indegna di Pasolini, la cantante urla le parole come se fossimo ad uno di quei talk show televisivi, tipo "Porta a porta", dove per farsi sentire bisogna blaterare le proprie opinioni sbraitando.
Si arriva ad una mirabile, anche se un po' approssimativa a livello di accompagnamento chitarristico, "Canzone per l'estate", interpretata da Edoardo Bennato, completamente solo sul palco, munito di chitarra, armonica e tamburello. E' molto buona, seppure, anche qui, magari, c'è la voglia di portare il pezzo verso atmosfere che il genovese tratteggia in maniera troppo indecisa per farne il perno di un arrangiamento. Anche in questo caso, come sopra, c'è troppa rabbia, laddove, né nel testo né nella musica, se ne può ravvisare.
Mirabilissima, andando avanti, è la versione di Francesco Baccini, fan di Faber che ha avuto l'occasione di collaborarci per il suo brano "Genova blues", de "La ballata dell'amore cieco". Anche lui, credo sia solo sul palco, ravvivando i fasti degli insuperabili lp d'esordio come "Il pianoforte non è il mio forte". L'anima swing della "Ballata", insieme alla sua teatralità, viene solo resa con simboli diversi, ma praticamente non stravolta.
Molto dark, insopportabile, anche perché io questo brano non lo digerisco, è la versione de "La canzone del padre", interpretata da Oliviero Malaspina. Posso dire, senza paura di essere smentita, che la "cinematograficità" insita nella versione di De Andrè, portata dagli arrangiamenti di Piovani, viene completamente distrutta.
Si continua con uno di quei cantautori che, dopo la sua morte, ha fatto dell'interpretazione di De Andrè quasi una seconda pelle. Legato al genovese da vincoli di collaborazione, ha scritto insieme a lui gli lp "Rimini" e "Fabrizio De Andrè" oltre ad altre canzoni, Massimo Bubola, forse per deferenza, preferisce sempre interpretare brani da quel repertorio. Le sue versioni sono sempre più "ruvide", "statunitensi". Non starò qui a fare osservazioni sulla sua vocalità, si può andare a leggerle nel "Commento al tributo a De Andrè" tra i primi post di questo blog.
Un altro caso di collaboratore che deferentemente ama interpretare solo brani scritti da lui stesso a quattro mani con De Andrè, è il grande Mauro Pagani. La sua versione di "Sidùn", ripresa qualche anno dopo in un remake ben fatto ma brutto di tutto "Creuza de ma", è bella musicalmente, perché lui è un grandissimo virtuoso di molti strumenti etnici come il bouzouki greco, ma vocalmente non mi ha mai convinto. Il suo timbro, e lui stesso se ne rende conto infatti canta pochissimo, non è per niente dinamico e non può competere con la versatilità del suo suonare.
Cristiano, figlio di Fabrizio, interpreta poi "Creuza de ma", coadiuvato nei cori da Mauro Pagani. E' buona, il ragazzo ci sa fare, certo al confronto con il padre, perde un pochino.
L'ultimo brano, unico inedito del cd, va bene a livello di tematica in questa occasione, in quanto si parla di un emarginato, ma se lo sarebbero benissimo potuti risparmiare. E' troppo teatrale, sporco, veramente non ha lo spirito di De Andrè, ma per vendere cd anche questo si deve fare, inserire qualche merdolina, basta che sia inedita!
Facciamo ora un breve percorso attraverso i tributi discografici e televisivi extra "Faber, amico fragile". Mi limiterò a ciò che conosco, come è mia abitudine, ignorando quindi "Mille papaveri rossi" ed il suo seguito. Mi riferirò anche, ovviamente, ad apparizioni fugaci di repertorio deandreiano in cd non ad esso dedicati.
Nel 2001, Fiorella Mannoia, nel suo cd "Fragile", da una buona, magari non perfetta ma sempre convincente, versione de "Il pescatore. E' arrangiata dal suo fido compagno Piero Fabrizi, che non sconvolge assolutamente l'impianto originario del brano, lo porta solo verso idee musicali più moderne, senza la supponenza già condannata della PFM.
Un anno prima, nel cd "Amore nel pomeriggio", sicuramente uno dei più bei lavori di tutta la sua carriera, De Gregori si appropria, in maniera personale ma rispettosa, del brano, scritto da lui stesso insieme al cantautore genovese per l'album di De Andrè "Volume VIII", "Canzone per l'estate". Questo, in maniera curiosa ma non forzata, si può interpretare come una maniera che il romano trova per ringraziare il genovese, dopo venticinque anni esatti, per avere interpretato, sempre nel "Volume VIII", la sua "Storie di ieri", che sarebbe uscita qualche mese dopo anche nell'lp degregoriano "Rimmel". Se fra le due versioni del brano appena citato riesco radicalmente a schierarmi con Faber, nell'altro caso sono titubante anche perché le due versioni di "Canzone per l'estate" sono talmente diverse, anche in alcune parti di testo, che solo un cultore della materia cantautorale riesce a ricordarsi o ad essere sicuro che siano lo stesso brano. Nella versione di De Gregori, ovviamente, si accentua l'anima un po' country, perdendosi , in proporzione, tutta quella limpidezza europea così cara al genovese.
Di tributi a De Andrè se ne sono visti tanti, forse anche troppi, e ne vorrei parlare brevemente, per quello che mi ricordo. Al concerto del Primo maggio a Roma, nell'edizione 2004, quella presentata da Claudio Bisio che conteneva quell'orribile performance dell'Ensemble "Notte della Taranta" diretto da Steward Copeland, c'è stato un collettivo di artisti, diretto ovviamente dall'insostituibile Di Cioccio della PFM, che ha interpretato il testamento di Tito. Vergogna! Non posso scordarmi, ormai credo non ci sia speranza, dell'entrata di Linda, cantante che era esplosa a Sanremo e poi è scoppiata da sola, che alla sua strofa, "Non dire falsa testimonianza", ha dato un'interpretazione blues che con il pezzo c'entra come i cavoli a merenda. Questa è stata solo la punta di un iceberg, va da sé, ma è quello che mi ricordo.
Rai uno, qualche anno fa, si prodigò in un tributo a De Andrè, dalla Sardegna perché si amano molto i luoghi simbolo, presentato anche (l'altro non me lo ricordo) da Pamela Villoresi. L'orchestra non era male, se non altro era acustica, ma davvero si rasentava l'inascoltabile.Non mi posso scordare, anche perché la sua partecipazione sapeva molto di promozione personale, di Morgan, che interpretò "Un giudice" in maniera completamente elettronica, poco dopo aver fatto la sua vergognosa reinterpretazione di tutto "Non al denaro, non all'amore né al cielo".
Mi ricordo di una buona, non perfetta perché i jazzisti puri come lui non sanno cantare repertorio cantautorale non proprio, interpretazione de "La città vecchia" da parte di un Sergio Cammariere che, a quanto pare, ancora godeva dei favori del sistema radiotelevisivo.
Claudio Bisio, che in quel periodo era anche impegnato in una rielaborazione teatrale de "La buona novella", interpretò "Spiritual" e, nonostante le stonature, fu una delle cose più belle che si sentirono.
Le Palentes, valente gruppo sardo che in quel periodo spopolava con "Ciciri" (spero si scriva così), fecero una versione molto buona di "Volta la carta".
Prendiamo ora, abbastanza di petto perché ancora me lo ricordo, il tributo a De Andrè andato in onda all'interno della trasmissione di Rai tre "Che tempo che fa", ovviamente presentato sempre dal suo conduttore abituale, il già citato Fabio Fazio.
Sono stata particolarmente contenta, e lo dico, che la sigla che annunciava i vari rientri dalle pause pubblicitarie, sempre presenti nonostante l'esoso ed inutile canone rai, era un pezzettino strumentale tratto da "A çimma", brano non particolarmente conosciuto, ma tra i più belli della produzione dialettale deandreiana.
Il prologo, chiamato da Fazio anteprima, è stato un dialogo con l'architetto Renzo Piano, grande amico di De Andrè, su quanto un luogo può diventare simbolico in relazione ad un particolare momento della vita di qualsiasi persona. Non posso parlarvi precisamente di questo momento, posso solo dirvi che mi ha toccato molto, perché, non so a voi, ma le personalità famose magari a livello mondiale, come il signor Piano, solo molto difficilmente vengono credute dotate di umanità (questo anche grazie ai media, che amano tanto la creazione di miti).
Venendo concretamente alla serie di brani eseguiti, tutte versioni mai pubblicate prima, è iniziata con una "Don Raffaè", interpretata da Lucio Dalla insieme al suo alter ego, l'attore Marco Alemanno. Credo che, ormai, Dalla dovrebbe decidersi: o fa il cantante, di cose proprie od altrui, o fa altre cose (regista, professore, presentatore televisivo e chi più ne ha più ne metta). Il bolognese, come sempre quando si fa accompagnare da strumenti acustici, avrebbe dato sicuramente il meglio di sé se non fosse stato coadiuvato da questo attore, che non sapeva assolutamente cantare, né sostenere l'amico nello sforzo di cantare nel napoletano di De Andrè, che per quanto edulcorato, sempre lingua partenopea resta.
Subito dopo è arrivata Gianna Nannini, cantante troppo rock anche se con tinte popolareggianti, che ha interpretato "Via del campo", fortunatamente con un arrangiamento rispettoso, ma sicuramente non in maniera da incorniciare.
Franco Battiato, credo subito dopo, ha interpretato inverno, commuovendosi anche questa volta, tornando ancora una volta a sfoderare l'arma del patetismo per far scordare le sue quantomeno dubbie qualità vocali.
Roberto Vecchioni, insieme ad un gruppetto di bambini della scuola dove insegna, che fra l'altro è intitolata proprio al cantautore genovese, ha eseguito una bellissima versione di "Girotondo".
Antonella Ruggero, cosiccome aveva fatto in un vergognoso concerto svoltosi a Masciano, in provincia di Perugia, sempre di tributo al nostro, ha interpretato l'"Avemaria" da "La buona novella". Interpretazione notevole, d'altronde fu una delle poche cose, anche nell'altra occasione, che si potevano salvare (le nostre lacrime ed i nostri applausi andavano più a De Andrè che ai cantanti che interpretavano senz'anima le sue canzoni).
Jovanotti, che nel frattempo si è "ufficialmente" convertito al nostro cantautorato italiano, ha interpretato, non malvagiamente ma certo non egregiamente, "Il suonatore Jones", direttamente da Spoon River, che così si è scoperto essere posto esistente nella mappa degli Stati Uniti.
Ottima è stata, d'altronde il brano è nelle corde dei due interpreti, l'accoppiata Bubola-Bennato per "Quello che non ho". Il canto di Bubola si stagliava perfettamente su quel tappeto di blues, accentuato ulteriormente dalle improvvisazioni dell'armonica in mi di Edoardo.
Uno dei pezzi più maltrattati della discografia di De Andrè è "Il pescatore", che l'11 gennaio di quest'anno è stato cantato da Piero Pelù, specialista negli scempi di brani altrui, vedasi la sua versione di "kalinifta" al concertone di Melpignano 2005. (Per vederla basta andare su youtube). Il problema del cantante toscano è, ovviamente, quello di non saper contaminare il proprio stile con presupposti propri degli altri che man mano tocca, e questo per me è gravissimo.
Si è già parlato, all'interno dell'articolo specificatamente dedicato a quel cd, della canzone di Faber "Dolcenera", interpretata egregiamente dagli Alla Bua nel loro "Limamo". Il citarla ora serve ad introdurre un argomento che non posso sviscerare quanto vorrei, quello delle traduzioni di canzoni del nostro nei vari dialetti italiani. A questo, qualcuno di voi se ne ricorderà, era stato dedicato il cd "Canti randagi" nel 1995. Lì, pur se io l'ho sentita in un tributo televisivo, è stata pubblicata una versione da brivido di "Tre madri", interpretata dall'ottima interprete sarda Elena Ledda.
Peppe Barra, nel suo disco "Guerra", ha interpretato, dando il la ad una moda, "Bocca di rosa" in napoletano. La sua versione è, come al solito, troppo teatrale, ed è solo il brano di De Andrè a contaminarsi con lo stile di Barra, non c'è rapporto di reciprocità.
Eccoci arrivati al gioiello che chiude questa carrellata, la versione in salentino di "Sidùn", interpretata da Ninfa Giannuzzi, interprete della scena folk-rock salentina, durante l'ultima edizione de "La Notte Della Taranta". La cantante, che si cala molto nel ruolo del genitore che piange il figlio sbranato dai carri armati israeliani, dà davvero un'anima profondamente popolare ed antica al brano, coadiuvata in questo dal grande Pagani che suona il bouzouki e le fa il controcanto nella parte finale, quella che anche in "Creuza de ma" era polivocale.
Purtroppo, amici cari, devo rassegnarmi a non poterla postare, andate su youtube e la troverete, con il titolo "Omaggio a De Andrè dal Salento".
Buona visione e buona riscoperta di questo e molti altri gioielli.
venerdì 15 maggio 2009
Un altro pochino di "mazzate pesanti. (A 'na rotatorta!)
Carissimi lettori, avrete capito che gli estremisti secondo me vanno semplicemente esecrati, bene ne voglio condannare un bel gruppo.
Provocata da un post in una vecchia discussione su http://www.pizzicata.it/, dove con la solita protervia e volgarità si rispondeva ad un utente che aveva semplicemente chiesto un testo perché avrebbe amato cantarlo, ho sentito un gruppo murgiano che si citava come esempio per ricerche su strofe di un brano di non mi ricordo che zona. Io, curiosa come sempre, oggi mi sono decisa ad ascoltarli. Li ritengo abbastanza deludenti, estremi, ignoranti, sguaiati, volgari, pressapochisti.
Sono d'accordo sul fatto che si debba fare una cernita di repertori che vadano oltre quello che da ormai troppi anni viene sputtanato alla N.D.T., però con l'estremismo a cui arrivano i "Rotatorta", che fanno solamente il repertorio "altro", si arriva solo a far sì che chi si voglia semplicemente divertire ad un concerto di musica popolare, a lungo andare si stanchi e non ne voglia più sapere. (Non di loro ma della musica popolare beninteso!).
Signori miei dei "Rotatorta": non sarà che siete un po' gelosi della visibilità che ha il Salento Leccese? Mica sarà che con la vostra politica dello snobbare ciò che è conosciuto voi pretendete che la gente vi ami? Oltretutto, signori miei, siete pure degli ipocriti (dovrei aggiungere una strofetta alla mia"Vostri signori ipocriti!"), perché eseguite anche la "Pizzica di San Vito", brano brindisino, quindi fino a prova contraria "Salentino". Non suonate male, ma siete dei pagliacci!
Oltretutto credo che il vostro concetto di musica popolare sia un po' troppo largo, perché voi per popolare, snobbando magari i bellissimi brani della riproposta moderna, intendete anche quelle figure un po' underground, che non hanno assolutamente l'autenticità di un artista popolare, ma ne hanno solo i difetti.
Ad esempio, passandovi Matteo Salvatore perché io stessa lo canto ed è una figura veramente popolare perché ha sofferto ciò che canta, non riesco a concepire che facciate cover di Zurlo, che dice sempre di non fare musica popolare (nel senso di tradizionale).
Se per musica popolare intendiamo musica per tutti, allora sì che siete un gruppo di musica popolare, ma io già ho deciso che non vi ascolterò più.
Ai miei lettori dico di scoprirvi, ma per capire da che cosa si debbono difendere.
Mi sembrate qualunquisti, la qualità di un repertorio non si giudica dalla sua provenienza, e non è che facendo solo pezzi meno noti siete l'alternativa.
Per chi si volesse divertire a leggere tutta la rabbia, la protervia ed il qualunquismo di questo gruppo, potrebbe andare su www.myspace.com/rotatorta.
Spero che ve ne capiti una grossa che vi costringa a calmarvi.
Addio!
P.s. Quello che voi chiamate Salento, che si chiamerebbe correttamente "basso salento", ha un sacco di repertori che nessuno fa, dai canti di lavoro, ad alcune pizziche meno note, ad altre cose che non mi vengono: non si può liquidare con un semplicistico brano in griko. Posso capire che non vogliate fare "Pizzicarella" o "lu rusciu" (secondo me è da stupidi!), però anche lì ci sarebbe repertorio "impopolare", per rompere l'anima a chi vi va a sentire!
Provocata da un post in una vecchia discussione su http://www.pizzicata.it/, dove con la solita protervia e volgarità si rispondeva ad un utente che aveva semplicemente chiesto un testo perché avrebbe amato cantarlo, ho sentito un gruppo murgiano che si citava come esempio per ricerche su strofe di un brano di non mi ricordo che zona. Io, curiosa come sempre, oggi mi sono decisa ad ascoltarli. Li ritengo abbastanza deludenti, estremi, ignoranti, sguaiati, volgari, pressapochisti.
Sono d'accordo sul fatto che si debba fare una cernita di repertori che vadano oltre quello che da ormai troppi anni viene sputtanato alla N.D.T., però con l'estremismo a cui arrivano i "Rotatorta", che fanno solamente il repertorio "altro", si arriva solo a far sì che chi si voglia semplicemente divertire ad un concerto di musica popolare, a lungo andare si stanchi e non ne voglia più sapere. (Non di loro ma della musica popolare beninteso!).
Signori miei dei "Rotatorta": non sarà che siete un po' gelosi della visibilità che ha il Salento Leccese? Mica sarà che con la vostra politica dello snobbare ciò che è conosciuto voi pretendete che la gente vi ami? Oltretutto, signori miei, siete pure degli ipocriti (dovrei aggiungere una strofetta alla mia"Vostri signori ipocriti!"), perché eseguite anche la "Pizzica di San Vito", brano brindisino, quindi fino a prova contraria "Salentino". Non suonate male, ma siete dei pagliacci!
Oltretutto credo che il vostro concetto di musica popolare sia un po' troppo largo, perché voi per popolare, snobbando magari i bellissimi brani della riproposta moderna, intendete anche quelle figure un po' underground, che non hanno assolutamente l'autenticità di un artista popolare, ma ne hanno solo i difetti.
Ad esempio, passandovi Matteo Salvatore perché io stessa lo canto ed è una figura veramente popolare perché ha sofferto ciò che canta, non riesco a concepire che facciate cover di Zurlo, che dice sempre di non fare musica popolare (nel senso di tradizionale).
Se per musica popolare intendiamo musica per tutti, allora sì che siete un gruppo di musica popolare, ma io già ho deciso che non vi ascolterò più.
Ai miei lettori dico di scoprirvi, ma per capire da che cosa si debbono difendere.
Mi sembrate qualunquisti, la qualità di un repertorio non si giudica dalla sua provenienza, e non è che facendo solo pezzi meno noti siete l'alternativa.
Per chi si volesse divertire a leggere tutta la rabbia, la protervia ed il qualunquismo di questo gruppo, potrebbe andare su www.myspace.com/rotatorta.
Spero che ve ne capiti una grossa che vi costringa a calmarvi.
Addio!
P.s. Quello che voi chiamate Salento, che si chiamerebbe correttamente "basso salento", ha un sacco di repertori che nessuno fa, dai canti di lavoro, ad alcune pizziche meno note, ad altre cose che non mi vengono: non si può liquidare con un semplicistico brano in griko. Posso capire che non vogliate fare "Pizzicarella" o "lu rusciu" (secondo me è da stupidi!), però anche lì ci sarebbe repertorio "impopolare", per rompere l'anima a chi vi va a sentire!
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mercoledì 13 maggio 2009
Omaggio ad una buona "Stella lucente" (sul primo disco degli Alla Bua).
Carissimi lettori, ancora ispirata da questo soffio di Salento, voglio parlarvi del cd che, insieme ai già recensiti "Sud est" (Aramirè) e "Terra" (Zoè), ha formato più profondamente la mia sensibilità di ascoltatrice, ripropositrice e soprattutto pianista di musica salentina. Voglio confessare che non volevo parlarne, perché, come sempre, pretendo, in maniera forse un po' megalomane, di "portare ciò che non c'è in giro", o ciò che non trovo nelle mie pur frequenti peregrinazioni internaute.
Il cd si chiama "Stella lucente", è stato autoprodotto dal gruppo Alla Bua nel 1999, è forse il loro miglior lavoro.
Chi ha scoperto il gruppo di recente, non so se lo potrà capire, come credo che solo molto difficilmente, chi è stato veramente formato dal disco e dalle sue sonorità, può capire la "nuova musica popolare" che il gruppo produce ora. (Io ad esempio non la comprendo).
Venendo tecnicamente al disco, è una serie di brani tradizionali e d'autore, dove la contemporaneità c'è ma non è prepotente, come sarà ancora nel secondo. Già nel terzo, il bellissimo e già recensito "Limamo", in tutti i sensi c'è una voglia di creare qualcosa di nuovo, anche se appropriandosi di creazioni popolari, riportandole come proprie (illecito!).
Entrando nel vivo della questione "Stella lucente", il disco inizia con "Tamburru", pizzica di Aradeo eseguita voce e tamburello. E' autentica, come spirito, ma manca un particolare fondamentale. La "vera" pizzica di Aradeo, per lo meno per come ci viene data dal libro con doppio cd "Musiche e canti popolari del Salento" (ed. Aramirè), ha un'interessantissima alternanza tra minore e maggiore che, se riportata a standard moderni di canto, è assolutamente arcaica quindi innovativa, perché oggi le pizziche si fanno tutte con due accordi o con giri innaturali (poveri noi!). Comunque questa è una divagazione, perché gli Alla Bua, coerentemente con questo fare del tamburello lo strumento re del loro stile, scelgono di farla "a botta", quindi non c'è armonia dietro la voce, che per eseguire intervalli oggi così innaturali, forse deve avere una qualità superiore rispetto a quella del pur grande Gigi Toma. (Se non vi va di ascoltare contadini rauchi e stonati, ascoltatevi la versione riproposta dai Ghetonìa, che usa il vero giro tradizionale).
Subito dopo, rimanendo sempre a ritmo di pizzica ed aumentando di molto la velocità, arriva "Lu rusciu de lu mare". L'introduzione, per dimostrare che il gruppo non era ancora di discopizzica, anche perché nessuno aveva notato il potenziale "popolar-discotecaro" del genere, è un pezzettino lento, in verità inclassificabile, eseguito da una chitarra classica accordata in re, quindi un tono più un tono più giù dello standard.
Dopo una pausa, è la stessa chitarra ad iniziare in terzina, già a ritmo pieno, e così una voce maschile (scusate l'ignoranza ma nel libretto chi canta non è specificato brano per brano), inizia il canto a partire da "Lu rusciu de lu mare è mutu forte". Gli strumenti mancanti, tamburello ed armonica, entrano dalla strofa successiva: il tamburello fa prima un lavoro di terzina solo con i sonagli, permettendo quindi all'"organetto a mano" di entrare. Da qui inizia una pizzica vorticosa, resa irresistibile dalla più grande armonica salentina, il tricasino Umberto Panico. Forse, e qui lo dico e confesso, quello che non mi convince è la mancanza di alchimia fra la tonalità, minore quindi triste, ed il vortice del ritmo. Le pizziche, d'altronde, nella zona leccese, dove sono sicuramente più forti, sono in "modo" maggiore o "misto" (vedasi l'esempio su Aradeo).
Arriva il primo lento, deludente come quasi sempre sono i tentativi del gruppo di allontanarsi dalla pizzica. E' una rielaborazione di un testo di cui non so dell'esistenza di versioni tradizionali, ma che viene preso per anonimo: "Beddrha ci stai luntanu". E' ormai diventato un classico della musica popolare salentina, ma credo di non sbagliarmi troppo, se dico che questa versione e quella incisa dal Canzoniere grecanico salentino in "Ballati tutti quanti ballati forte", sono le prime riproposte.
Quello che non mi convince per niente è l'innaturalezza, ossia la tendenza a voler fare sempre, anche quando si potrebbero usare strutture tipiche e semplici, qualcosa di "diverso", "moderno", ecc. Oltretutto, l'ho già detto in questo stesso articolo ma non solo, alle voci "tradizionali" o d'impostazione "tradizionale", come "Zimba" o Toma, si dovrebbe far fare solo melodie di quella matrice (hanno sbagliato gli Zoè di "Sangue vivo" a far cantare una parte di "Sale" all'aradeino, e toppano ancora peggio i casaranesi, nel far cantare al loro leader una melodia dall'andamento ancora più lontano dalle sue abitudini e caratteristiche). Oltretutto, non amo né l'arpeggio di chitarra, inclassificabile, né tantomeno la parte di oboe, strumento che suona sguaiato ed inutile. (Evviva i flauti di Pierpaolo Sicuro che se non altro sono suonati con maestria!).
Si arriva ad un brano che, incorrezione grave, mentre è l'insieme di due arie tradizionali, riporta solo il titolo di una (purtroppo gli Alla Bua anche di furfanterie sono maestri!).
Venendo tecnicamente al brano, la sua prima parte è lenta, e ci permette di ascoltare, in quelle che io ritengo le condizioni ottimali, la bella, anche se non perfetta, voce di Maria Vittoria Antonazzo (Mavi). L'aria da lei interpretata è una ninnananna, intitolata spesso "Li marisci". E' un brano un po' enigmatico, come molti popolari, dato che gli analfabeti, anche se privi di cultura in senso "ufficiale", avevano spesso una psicologia più complicata della nostra. Ad un appassionato di musica sudamericana, a livello di testo, potrebbe, superficialmente e forse un po' forzatamente, ricordare "Duerme negrito". La madre prega, non si sa chi, di far venire sonno al bambino, e di farlo durare fino a quando non torna il padre (nel brano sudamericano i ruoli si invertono). Nella stessa traccia, dopo questo brano accompagnato da una chitarra che esegue un rullato su due accordi, arriva una pizzica, preparata da una pausa, ma iniziata vorticosamente ed improvvisamente dall'insuperabile armonica di Panico. Qui, e scusate lo sbilanciamento, il tricasino dà il meglio di sé. Innanzitutto, come ogni virtuoso, l'armonicista gode suonando velocissimamente, addirittura senza fermarsi mai, perché in possesso della tecnica della respirazione circolare (quella utilizzata dai suonatori di diggeridoo australiano). Il testo cantato da Toma con questo ritmo, veramente vorticoso e spettacolare ma credo difficilmente ballabile, è "E nia e nia", filastrocca scanzonata a strofe sciolte. Anche in questo caso, credo, si può parlare di classico della tradizione salentina, e si può dare il merito agli Alla Bua di averlo riproposto fra i primi. (Un'altra versione, meno bella ma ugualmente interessante, è quella degli Aramirè nel cd "Opillopillopì" del 1998, pubblicata con il titolo "Pizzica con flauto").
Subito dopo arriva un inedito, completamente strumentale, anche se introdotto da un proverbio salentino, detto da una voce bianca, che a me non è mai piaciuta (le voci dei bambini non posso sentirle su disco). Il proverbio dice: "Citti, citti, nun discitati la serpe che dorme!". Ci vuole ricordare, signori miei, che a "tarantare" la gente, non c'erano solo i ragni.
Da questo richiamo, si dipana un brano strumentale, in tonalità minore, che prima di arrivare alla pizzica ed acquistare il giro la minore-sol maggiore, è un brano inclassificabile, solo per chitarra. Nella parte a pizzica si trovano l'oboe ed il violino, che in questo cd tra l'altro ancora non aveva fatto la sua comparsa, che dialogano in maniera abbastanza arcaicizzante ma innaturalmente (come piace tanto a troppa gente nel Salento!).
Subito dopo arriva una "Santu Paulu", nella quale, oltre alle strofe canoniche dedicate al santo, invece di fare un percorso serio sul tarantismo, come già aveva fatto Zoè nella prima traccia di "Terra", introdotte dal solito ritornello "beddrhu l'amore e ci lu sape fa", arrivano alcune strofe che hanno come motivo conduttore l'amore nelle sue varie fasi.
Il brano, musicalmente parlando, può essere riassunto come "il violino alla riscossa!". Infatti, pur mancando i mantici ed essendoci due chitarre, la formazione è una delle più vicine alle tipiche orchestrine da musicoterapia.
Si continua con un brano molto bello, a cui, però, l'inesperienza del gruppo non ha forse saputo rendere giustizia. Mi riferisco a "De fore", brano dalla ritmica inclassificabile, come troppi inediti degli Alla Bua. Il testo parla di ciò che succede nella cultura popolare dopo la fine di un lavoro, specialmente di una giornata nei campi. Credo, quindi, che il testo sia tradizionale, perché ci sono delle cose che se non si vivono, secondo me non si riescono a raccontare.
Arriva poi, eseguito con la stessa formazione di "Santu Paulu", il brano "Canzune alla diversa". E' una pizzica ironica, dedicata ad una persona che fa tutto il contrario di ciò che sarebbe logico fare. Il gruppo, per allungarla, ci mette poi delle strofe d'amore, fortunatamente sempre un po' piccanti, quindi la forzatura si sente poco. (So che mi si potrebbe obbiettare che, come nella tradizione non esistevano certe barriere, anche la riproposta ne dovrebbe fare a meno. No!). Il brano, anche in questo caso, è preceduto da una piccola filastrocca, recitata da Gigi Toma dandosi il ritmo con il tamburello, della quale sappiamo a malapena le parole (non si fa! Si deve sempre dire tutto di ogni brano, soprattutto dei tradizionali!).
Andando avanti si trova una tarantella, che il gruppo terzina come se fosse una pizzica, intitolata "Lu scarparu". E' un brano malizioso, a strofe sciolte. Anche qui, oltre ai due tamburelli ed alle chitarre, è onnipresente il violino di un giovane ma già dotato Luca Rizzello (il migliore violinista salentino!).
Gli ultimi due brani sono composizioni del gruppo, per lo meno per quanto riguarda la musica.
La prima, a cui io sono legatissima perché mi ha fatto nascere la curiosità di scoprire gli Alla Bua, si intitola "Fiuru te citratina", ed è una pizzica, con giro quasi tradizionale, che musica una poesia di un poeta contemporaneo vernacolare. E' interpretata con la collaborazione, fondamentale per farmene innamorare, dell'organettista Donatello Pisanello, che si era trovato a fondare gli Alla Bua agli inizi degli anni Novanta, per poi emigrare negli Officina Zoè, anche questi nati per iniziativa sua.
Il brano riprende, con estrema semplicità, il tema, tanto caro ad un grande poeta come Vincenzo Cardarelli, della caducità delle cose umane. Paragona l'amore del poeta per la sua Nina, ad un fiore di pianta cedrina (appunto il "Fiuru te citratina" del titolo), che nonostante le cure, appassisce irrimediabilmente. Quello che non mi va giù di questo brano, non mi ci è andato mai, è la ripetizione ossessiva di "Alla Bua", che mi sa molto di pubblicità al gruppo.
L'ultimo brano, sicuramente il peggiore, è una pizzica con un accordo solo (cosa che a me fa comunque arrabbiare), oltretutto minore. Il testo, si dice, che sia misto tra tradizionale e d'autore, ma la parte nuova, mi pare che non venga cantata. La melodia è interessante, per la scala araba, con il quarto grado aumentato, a cui noi non siamo più abituati. Mi fa abbastanza infuriare, dal punto di vista dell'uso delle percussioni, il fatto che il brano è completamente delegato, per lo meno fino a quando c'è la voce, ad una tammorra muta. Questo, signori miei, anche rispetto a simbologie tradizionali fondamentali nel tarantismo, innesca una disgregazione che non porta a niente se non all'imitazione di quel genio di Bennato e la sua "Taranta power" (non a caso da questo cd, nel suo "Lezioni di tarantella", album mediocre certamente, il napoletano pizzicato ha scelto anche questa traccia!).
Nell'insieme è sicuramente un buon disco, anche se dimostra già forti tutti i peggiori difetti del gruppo, quegli stessi che ora lo hanno portato alla rovina in cui si trova.
Il cd si chiama "Stella lucente", è stato autoprodotto dal gruppo Alla Bua nel 1999, è forse il loro miglior lavoro.
Chi ha scoperto il gruppo di recente, non so se lo potrà capire, come credo che solo molto difficilmente, chi è stato veramente formato dal disco e dalle sue sonorità, può capire la "nuova musica popolare" che il gruppo produce ora. (Io ad esempio non la comprendo).
Venendo tecnicamente al disco, è una serie di brani tradizionali e d'autore, dove la contemporaneità c'è ma non è prepotente, come sarà ancora nel secondo. Già nel terzo, il bellissimo e già recensito "Limamo", in tutti i sensi c'è una voglia di creare qualcosa di nuovo, anche se appropriandosi di creazioni popolari, riportandole come proprie (illecito!).
Entrando nel vivo della questione "Stella lucente", il disco inizia con "Tamburru", pizzica di Aradeo eseguita voce e tamburello. E' autentica, come spirito, ma manca un particolare fondamentale. La "vera" pizzica di Aradeo, per lo meno per come ci viene data dal libro con doppio cd "Musiche e canti popolari del Salento" (ed. Aramirè), ha un'interessantissima alternanza tra minore e maggiore che, se riportata a standard moderni di canto, è assolutamente arcaica quindi innovativa, perché oggi le pizziche si fanno tutte con due accordi o con giri innaturali (poveri noi!). Comunque questa è una divagazione, perché gli Alla Bua, coerentemente con questo fare del tamburello lo strumento re del loro stile, scelgono di farla "a botta", quindi non c'è armonia dietro la voce, che per eseguire intervalli oggi così innaturali, forse deve avere una qualità superiore rispetto a quella del pur grande Gigi Toma. (Se non vi va di ascoltare contadini rauchi e stonati, ascoltatevi la versione riproposta dai Ghetonìa, che usa il vero giro tradizionale).
Subito dopo, rimanendo sempre a ritmo di pizzica ed aumentando di molto la velocità, arriva "Lu rusciu de lu mare". L'introduzione, per dimostrare che il gruppo non era ancora di discopizzica, anche perché nessuno aveva notato il potenziale "popolar-discotecaro" del genere, è un pezzettino lento, in verità inclassificabile, eseguito da una chitarra classica accordata in re, quindi un tono più un tono più giù dello standard.
Dopo una pausa, è la stessa chitarra ad iniziare in terzina, già a ritmo pieno, e così una voce maschile (scusate l'ignoranza ma nel libretto chi canta non è specificato brano per brano), inizia il canto a partire da "Lu rusciu de lu mare è mutu forte". Gli strumenti mancanti, tamburello ed armonica, entrano dalla strofa successiva: il tamburello fa prima un lavoro di terzina solo con i sonagli, permettendo quindi all'"organetto a mano" di entrare. Da qui inizia una pizzica vorticosa, resa irresistibile dalla più grande armonica salentina, il tricasino Umberto Panico. Forse, e qui lo dico e confesso, quello che non mi convince è la mancanza di alchimia fra la tonalità, minore quindi triste, ed il vortice del ritmo. Le pizziche, d'altronde, nella zona leccese, dove sono sicuramente più forti, sono in "modo" maggiore o "misto" (vedasi l'esempio su Aradeo).
Arriva il primo lento, deludente come quasi sempre sono i tentativi del gruppo di allontanarsi dalla pizzica. E' una rielaborazione di un testo di cui non so dell'esistenza di versioni tradizionali, ma che viene preso per anonimo: "Beddrha ci stai luntanu". E' ormai diventato un classico della musica popolare salentina, ma credo di non sbagliarmi troppo, se dico che questa versione e quella incisa dal Canzoniere grecanico salentino in "Ballati tutti quanti ballati forte", sono le prime riproposte.
Quello che non mi convince per niente è l'innaturalezza, ossia la tendenza a voler fare sempre, anche quando si potrebbero usare strutture tipiche e semplici, qualcosa di "diverso", "moderno", ecc. Oltretutto, l'ho già detto in questo stesso articolo ma non solo, alle voci "tradizionali" o d'impostazione "tradizionale", come "Zimba" o Toma, si dovrebbe far fare solo melodie di quella matrice (hanno sbagliato gli Zoè di "Sangue vivo" a far cantare una parte di "Sale" all'aradeino, e toppano ancora peggio i casaranesi, nel far cantare al loro leader una melodia dall'andamento ancora più lontano dalle sue abitudini e caratteristiche). Oltretutto, non amo né l'arpeggio di chitarra, inclassificabile, né tantomeno la parte di oboe, strumento che suona sguaiato ed inutile. (Evviva i flauti di Pierpaolo Sicuro che se non altro sono suonati con maestria!).
Si arriva ad un brano che, incorrezione grave, mentre è l'insieme di due arie tradizionali, riporta solo il titolo di una (purtroppo gli Alla Bua anche di furfanterie sono maestri!).
Venendo tecnicamente al brano, la sua prima parte è lenta, e ci permette di ascoltare, in quelle che io ritengo le condizioni ottimali, la bella, anche se non perfetta, voce di Maria Vittoria Antonazzo (Mavi). L'aria da lei interpretata è una ninnananna, intitolata spesso "Li marisci". E' un brano un po' enigmatico, come molti popolari, dato che gli analfabeti, anche se privi di cultura in senso "ufficiale", avevano spesso una psicologia più complicata della nostra. Ad un appassionato di musica sudamericana, a livello di testo, potrebbe, superficialmente e forse un po' forzatamente, ricordare "Duerme negrito". La madre prega, non si sa chi, di far venire sonno al bambino, e di farlo durare fino a quando non torna il padre (nel brano sudamericano i ruoli si invertono). Nella stessa traccia, dopo questo brano accompagnato da una chitarra che esegue un rullato su due accordi, arriva una pizzica, preparata da una pausa, ma iniziata vorticosamente ed improvvisamente dall'insuperabile armonica di Panico. Qui, e scusate lo sbilanciamento, il tricasino dà il meglio di sé. Innanzitutto, come ogni virtuoso, l'armonicista gode suonando velocissimamente, addirittura senza fermarsi mai, perché in possesso della tecnica della respirazione circolare (quella utilizzata dai suonatori di diggeridoo australiano). Il testo cantato da Toma con questo ritmo, veramente vorticoso e spettacolare ma credo difficilmente ballabile, è "E nia e nia", filastrocca scanzonata a strofe sciolte. Anche in questo caso, credo, si può parlare di classico della tradizione salentina, e si può dare il merito agli Alla Bua di averlo riproposto fra i primi. (Un'altra versione, meno bella ma ugualmente interessante, è quella degli Aramirè nel cd "Opillopillopì" del 1998, pubblicata con il titolo "Pizzica con flauto").
Subito dopo arriva un inedito, completamente strumentale, anche se introdotto da un proverbio salentino, detto da una voce bianca, che a me non è mai piaciuta (le voci dei bambini non posso sentirle su disco). Il proverbio dice: "Citti, citti, nun discitati la serpe che dorme!". Ci vuole ricordare, signori miei, che a "tarantare" la gente, non c'erano solo i ragni.
Da questo richiamo, si dipana un brano strumentale, in tonalità minore, che prima di arrivare alla pizzica ed acquistare il giro la minore-sol maggiore, è un brano inclassificabile, solo per chitarra. Nella parte a pizzica si trovano l'oboe ed il violino, che in questo cd tra l'altro ancora non aveva fatto la sua comparsa, che dialogano in maniera abbastanza arcaicizzante ma innaturalmente (come piace tanto a troppa gente nel Salento!).
Subito dopo arriva una "Santu Paulu", nella quale, oltre alle strofe canoniche dedicate al santo, invece di fare un percorso serio sul tarantismo, come già aveva fatto Zoè nella prima traccia di "Terra", introdotte dal solito ritornello "beddrhu l'amore e ci lu sape fa", arrivano alcune strofe che hanno come motivo conduttore l'amore nelle sue varie fasi.
Il brano, musicalmente parlando, può essere riassunto come "il violino alla riscossa!". Infatti, pur mancando i mantici ed essendoci due chitarre, la formazione è una delle più vicine alle tipiche orchestrine da musicoterapia.
Si continua con un brano molto bello, a cui, però, l'inesperienza del gruppo non ha forse saputo rendere giustizia. Mi riferisco a "De fore", brano dalla ritmica inclassificabile, come troppi inediti degli Alla Bua. Il testo parla di ciò che succede nella cultura popolare dopo la fine di un lavoro, specialmente di una giornata nei campi. Credo, quindi, che il testo sia tradizionale, perché ci sono delle cose che se non si vivono, secondo me non si riescono a raccontare.
Arriva poi, eseguito con la stessa formazione di "Santu Paulu", il brano "Canzune alla diversa". E' una pizzica ironica, dedicata ad una persona che fa tutto il contrario di ciò che sarebbe logico fare. Il gruppo, per allungarla, ci mette poi delle strofe d'amore, fortunatamente sempre un po' piccanti, quindi la forzatura si sente poco. (So che mi si potrebbe obbiettare che, come nella tradizione non esistevano certe barriere, anche la riproposta ne dovrebbe fare a meno. No!). Il brano, anche in questo caso, è preceduto da una piccola filastrocca, recitata da Gigi Toma dandosi il ritmo con il tamburello, della quale sappiamo a malapena le parole (non si fa! Si deve sempre dire tutto di ogni brano, soprattutto dei tradizionali!).
Andando avanti si trova una tarantella, che il gruppo terzina come se fosse una pizzica, intitolata "Lu scarparu". E' un brano malizioso, a strofe sciolte. Anche qui, oltre ai due tamburelli ed alle chitarre, è onnipresente il violino di un giovane ma già dotato Luca Rizzello (il migliore violinista salentino!).
Gli ultimi due brani sono composizioni del gruppo, per lo meno per quanto riguarda la musica.
La prima, a cui io sono legatissima perché mi ha fatto nascere la curiosità di scoprire gli Alla Bua, si intitola "Fiuru te citratina", ed è una pizzica, con giro quasi tradizionale, che musica una poesia di un poeta contemporaneo vernacolare. E' interpretata con la collaborazione, fondamentale per farmene innamorare, dell'organettista Donatello Pisanello, che si era trovato a fondare gli Alla Bua agli inizi degli anni Novanta, per poi emigrare negli Officina Zoè, anche questi nati per iniziativa sua.
Il brano riprende, con estrema semplicità, il tema, tanto caro ad un grande poeta come Vincenzo Cardarelli, della caducità delle cose umane. Paragona l'amore del poeta per la sua Nina, ad un fiore di pianta cedrina (appunto il "Fiuru te citratina" del titolo), che nonostante le cure, appassisce irrimediabilmente. Quello che non mi va giù di questo brano, non mi ci è andato mai, è la ripetizione ossessiva di "Alla Bua", che mi sa molto di pubblicità al gruppo.
L'ultimo brano, sicuramente il peggiore, è una pizzica con un accordo solo (cosa che a me fa comunque arrabbiare), oltretutto minore. Il testo, si dice, che sia misto tra tradizionale e d'autore, ma la parte nuova, mi pare che non venga cantata. La melodia è interessante, per la scala araba, con il quarto grado aumentato, a cui noi non siamo più abituati. Mi fa abbastanza infuriare, dal punto di vista dell'uso delle percussioni, il fatto che il brano è completamente delegato, per lo meno fino a quando c'è la voce, ad una tammorra muta. Questo, signori miei, anche rispetto a simbologie tradizionali fondamentali nel tarantismo, innesca una disgregazione che non porta a niente se non all'imitazione di quel genio di Bennato e la sua "Taranta power" (non a caso da questo cd, nel suo "Lezioni di tarantella", album mediocre certamente, il napoletano pizzicato ha scelto anche questa traccia!).
Nell'insieme è sicuramente un buon disco, anche se dimostra già forti tutti i peggiori difetti del gruppo, quegli stessi che ora lo hanno portato alla rovina in cui si trova.
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martedì 12 maggio 2009
I Canti de 'na fiata" ed altre storie.
Carissimi lettori, mi va questa sera, rimanendo in tema salentino, di elogiare un cd ed un gruppo non molto conosciuto, di cui non ho neanche sentito parlare i "puristi" di http://www.pizzicata.it/.
Il gruppo in questione si chiama Agorà, è originario di Specchia, paesino del basso Salento, ed il cd di cui voglio particolareggiatamente parlarvi, dopo averlo già citato qualche altra volta come esempio di riproposta da me apprezzata, si intitola "Canti de na fiata". Credo che, in questo periodo in cui si pensa che senza rinnovare ed innovare il repertorio della tradizione non si fa niente di interessante, questo disco sia uno dei più folgoranti esempi del contrario. Non vi preoccupate, che come ogni opera umana non è perfetto, e non pensate che non ci abbia trovato difetti.
Intanto, direi che il titolo, per le ragioni citate sopra è provocatorio, perché, e si potrebbe decodificare con una semplice riminiscenza dantesca, significa "Canti di una volta". Non è, signori, uno dei tanti esempi di disco pseudotradizionale o con brani che di tradizionale hanno ben poco, è il secondo album di un gruppo che, con estrema coerenza, esegue solamente "canti antichi" (purtroppo non so con quanta bravura, dato che non ho mai visto un loro concerto dal vivo).
Io conobbi questo gruppo moltissimo tempo fa, prima di venire per la prima ed unica volta in Puglia, perché mi avevano regalato il loro primo ed unico disco uscito sino ad allora, il pregevole "Canti antichi" sopra citato. Questo, e lo dico subito, non fu un cd che fece scoppiare in me una grossa passione, ma mi fece stimare il gruppo, che da ricerche effettuate anche in posti dove si vendeva la musica popolare, mi riferisco al Salento ovviamente, mi risultò essere uno dei meno conosciuti.
Per circa tre anni, fino all'anno scorso, non ebbi occasione di cercare loro notizie. Sono stata piacevolmente riportata sulla buona strada dal programma della Notte Della Taranta, che in una delle serate "premelpignanesche", li vedeva copartecipare addirittura insieme a quello che io ritengo il migliore gruppo di musica popolare salentina: gli Zoè! Portata da questo e da un piacevolissimo sospetto, sono passata sul loro sito, http://www.agoracantiantichi.net/, ed ho sentito alcuni pezzettini dei "Canti de na fiata". Dico sinceramente, signori miei, questo gruppo ha avuto la virtù di migliorare invece di peggiorare. Il cd, e questo è uno dei motivi che lo rende bello, ha la collaborazione del grandissimo Carlo "Canaglia" ai tamburi, e conta nel suo organico con un mandolino magico, che dà sicuramente quella cantabilità, che manca a qualsiasi chitarra solista.
La prima traccia del cd, quella che mi ha fatto venire la prima, istintiva ed irrefrenabile voglia di averlo, è una bellissima, semplice e festosissima versione di "Quantave". Mi si potrebbe replicare, e già vedo chi lo fa, che è un brano sfruttato, che come lo fanno gli Agorà, ossia a pizzica, ce lo fanno tutti, oltretutto la versione "di campo" è lenta. La versione tradizionale io la conosco bene, ma suonata in quel modo, con quell'immediatezza, con quella voglia di coinvolgere la gente non in pogopizzica ma in ballo spontaneo, beh è assolutamente tra le poche versioni che si possano ascoltare.
L'unico neo, ed è grosso e generale rispetto al cd, è la voce della donna che canta. L'ho già detto, ma a me piace ripetere le cose dove serve, la riproposta deve essere intonata, anche chi fa musica popolare deve riconoscersi in standard di "accordatura" di nota moderni, ovvio non si deve arrivare agli estremi della Notte Della Taranta dove la pizzica si canta come musica leggera, ma si dovrebbe utilizzare la "filosofia di canto" degli anziani in modo moderno (c'è già chi lo fa, Cinzia Marzo in primis). La voce femminile, elemento a cui io do un'importanza particolare, perché credo in una certa "femminilità" insita nella musica salentina, purtroppo è stonata, non perché abbia studiato le emissioni tipiche salentine, ma perché lo è e punto. Comunque, a me il brano piace ed ha una "festosità" unica. Vi posso giurare che io, che non sono una che si fa "cotulare lu pete" (muovere il piede) dalla qualsiasi, mi butto in balli sfrenati da seduta, che farebbero invidia ai migliori ballerini.
Il secondo brano, uno dei motivi che mi fa ritenere questo cd un gioiello, è un valzerino intitolato "Beddha ci dormi". E' un canto che non credo sia stato molto riproposto, meno ancora in veste rispettosa. Io l'avevo sentito per la prima ed unica volta, e ve la voglio raccontare, ad un concerto di un gruppo chiamato Orchestrina salentina (che tra l'altro ha una delle più belle voci di basso popolare di tutto il Salento). A fine concerto, mentre parlavo con il chitarrista, lui, sconvolto ed inorgoglito dal fatto che io sapessi tutto ciò che so sulla musica della sua terra, mi ha detto, con un'aria quasi di sfida: "Non mi dire che conoscevi anche quella con cui abbiamo aperto il concerto!". Io, che ho una calamita nei confronti degli inediti sentiti live, gli dissi che non la conoscevo e che mi aveva colpito. Sono restata, durante tutto il periodo di attesa dei "Canti de na fiata", a sprecare il fiato per maledirmi del fatto di non aver neanche tentato di registrare il concerto del gruppo citato. Devo dire che la versione degli Agorà è molto peggiore rispetto a quella che avevo sentito in precedenza, ma comunque il paragone è fatto tra due cose belle. Qui, l'unica versione che esiste su disco in mio possesso perché l'Orchestrina salentina di fare dischi non ne vuole sapere, è molto popolaresca, ed è cantata, nonostante che come "Quantave" parli chiaramente dal punto di vista maschile, dalla donna. So che la tradizione non si fa di queste remore, ma io, che vengo da una serie di esperienze d'ascolto legate a musiche dove questo ha molta importanza, come il fado portoghese, ci tengo.
Venendo tecnicamente al brano, è molto popolare, e forse si rispetta poco l'anima di serenata, si fa troppa festa, anche grazie ad uno strumento (che non so se siano nacchere o cucchiai), che fa uno stranissimo e abbastanza pesante rullato, che va credo in controtempo rispetto al tamburello, che comunque, come è consuetudine degli Agorà, non batte mai troppo forte.
Subito dopo troviamo un brano di cui io possiedo svariate versioni in vari dialetti, dal romano al calabrese, intitolato "La zita". E' un'elencazione, spero esagerata, dei piatti che si potevano mangiare nei luculliani matrimoni contadini o immaginati da questo nobilissimo gruppo sociale. La versione degli Agorà, come è giusto che sia, è a pizzica, e vi si trova un punto, l'ultimo, dove, dato che alla sposa era passato l'appetito, si mette piacevolmente a letto con il suo maritino nuovo di zecca. Anche questa, ma non ho niente da ridire, è cantata dalla voce femminile, o meglio da una delle due voci femminili del gruppo.
Dopodiché, per continuare e non esaurire la serie di brani che mancavano alla mia buona collezione di musica popolare salentina, arriva "Ninella de Calimera", che gli agorà tarantano ma non troppo, resta il ritmo alla Ucci maniera (che ho conosciuto dopo), fa capolino solo una bellissima e semplicissima ma poco usata terzina scandita lentamente. Giusto per dimostrare che gli Agorà hanno perso il difetto di copiare dagli altri (nel cd precedente c'era una "Santu Paulu" che aveva un vocalizzo come chiusura, che a chi è un minimo edotto di "Officina", puzzerebbe di imitazione), le strofe non sono quelle degli Ucci, ma sono liberamente mischiate, rigorosamente prese dalla tradizione perché il gruppo fa canti antichi, ma messe insieme con personalità. Qui fa capolino una voce maschile, che come tutte quelle del gruppo è tutto meno che perfetta. Lo stile del gruppo non mi viene di descriverlo, perché è abbastanza scontato per chi fa musica popolare, ma preferisco questo a molti lavori di gente che si ritiene innovatrice e distrugge tutto! (Alla Bua questa è anche per voi!).
Subito dopo arriva "Lu rusciu de lu mare", che il gruppo ha saggiamente diviso in due tracce, così ognuno si ascolta quello che più gli aggrada. La versione prescelta è quella in minore in tutti due i casi, ma la prima parte è lenta ed anche un po' sofisticata, (forse non c'entra niente con lo stile del gruppo), mentre la seconda, pizzica travolgente e dolce, è completamente compatibile con lo stile degli specchiesi.
Venendo tecnicamente alla descrizione breve della prima delle due tracce, si può dire che è quella più originale, più lontana quantomeno dai modelli che conosco. Ha un ritmo inclassificabile, ed è accompagnata semplicemente da una chitarra acustica, una tammorra che entra in modo libero in corrispondenza di una determinata parte della scansione ritmica, ed un mandolino che tra strofa e strofa ricama un semplicissimo giro, il cui modello è probabilmente la già citata "Officina". Come sempre quando la si esegue in due parti, la strofa mancante dalla prima è quella che io amo di più: "E vola vola vola palomma vola,
e vola vola vola palomma mia;
ca ieu lu core meu te l'aggiu dare".
La seconda parte, quella che io preferisco, conservando il giro di mandolino della prima, arricchisce notevolmente il bagaglio di strumenti con cui è eseguita, diventando una normale, semplice e coinvolgente pizzica. Per quanto riguarda le strofe, poi, va detto che il canto, non mi ricordo chi l'avesse già fatto ma ne ricordo un esempio, invece di partire con la strofa che comunemente da inizio al brano, parte da "Lu rusciu de lu mare...".
Subito dopo, carissimi alfieri della necessità di innovare ad ogni costo il repertorio, arriva un pezzo che voi detestate: il "Fior di tutti fiori". Fate come vi pare, ma io l'adoro, e questa versione è tra le migliori, anzi la migliore che io abbia mai potuto sentire. Gli Agorà non hanno voluto "strappare" niente a questo canto (Zoè: cosa avete fatto a questo brano in "Crita"? L'avete solo appesantito, anche se così mi avete fatto venire un'idea di rielaborazione diversa). Così come era "'na fiata", gli Agorà ce lo restituiscono con lo stesso ritmo, la stessa melodia, le stesse strofe, solo accompagnato dagli strumenti, che per il solo fatto di suonare spessissimo tutti insieme, arrivano ad avere un ruolo innovativo, finalmente preponderante, senza le esagerazioni di cosiddetti gruppi innovatori o contaminatori, spessissimo disonestissimi. Trovo mirabile, oltretutto, il fatto che la voce principale, un giovane che come tutti gli Agorà non è perfettamente intonato, si lasci rispondere dagli altri, che fra l'altro si fanno controcanti di una bellezza che veramente qualcuno se li dovrebbe imparare a memoria.
Il brano successivo, un po' malizioso certamente, mancava nella mia collezione di brani riproposti,. Penso, oltretutto, che l'unico che avesse fatto un tentativo di rielaborarlo, si intende a parità di melodia e quasi parità di testo, fosse stato il calabro-siculo, legato alla Puglia da notevoli rapporti di ricercatore sul campo, Otello Profazio (il brano si trova nel disco "Il filo di seta" e si intitola "Quannu l'aceddrhu pizzica la fica"). Se Profazio, al solito suo ne fa una versione "confidenziale", voce e chitarra, il gruppo salentino la riporta verso gli stilemi più propriamente legati alla salentinità, mettendoci però uno sguaiatissimo tamburello (quando non si fanno le pizziche si dovrebbe usare la tammorra muta!). Per il resto il brano, interpretato anche qui da una delle due voci femminili, è molto piacevole.
il prossimo brano, "L'acqua de la funtana", mancava completamente alla mia collezione, e posso affermare di non averlo praticamente mai sentito prima di avere il disco, se non al già citato concerto dell'Orchestrina salentina, fatto in una versione tamburelli e voce, con un numero imprecisato di membrane e cimbali che suonavano, di mani che battevano sui tamburi, talmente forte da farmi venire il mal di testa (e ce ne vuole!). La versione degli Agorà, signori miei, invece, è piacevolissima, un po' sguaiata, ma nel Salento, se noi paragoniamo la "riproposta" ad una tavola, c'è chi si mette completamente a destra, (mettiamo i contaminatori che m'hanno stancato modello Mascarimirì), e chi si mette a sinistra (chi imita gli anziani, tipo gli Agorà). Io, signori miei, non condivido nessuno di questi due approcci, ma, per fare un paragone politico, preferisco Diliberto a Storace! A me, l'ho già detto ma sono un mulo che ogni tanto si inceppa, piace chi sta in mezzo, ossia quelli nel cui lavoro tu non riesci, se non a costo di ridurne l'entità od il valore, a capire dove sta la tradizione o la modernità (mi riferisco agli Zoè di "Crita" e "Live in Japan").
Subito dopo arriva "aremu rendineddhamu", brano che, come molti in griko, è diventato tradizionale, anche se forse ha l'autore (non lo so ma mi suona di sì). La versione degli Agorà è un po' troppo veloce, troppo valzerata, troppo tamburellata (vedere sopra su come credo si dovrebbero fare i ritmi ternari lenti). La cosa che mi manda in bestia, però, è soprattutto il fatto che i cantanti, scordandosi completamente del testo che cantano (che è un'invocazione all'inseparabile rondinella affinché ci racconti un po' la sua storia ed i suoi voli), si gettano in canti quasi goliardici, come se stessero "'ntr'a 'na putia" (in un'osteria). Posso giurarvi che, è molto ma molto più espressiva, la versione data dai "Cantori di Martano" nel dvd "Cu li trapassa l'anima e lu core": loro, perlomeno, da anziani e grikofoni quali sono, ci mettono anima!
Eccoci qua ad un'altro brano fra i meno carini del cd, non perché sia suonato male, ma perché c'è troppo poco gioco di dialogo tra l'uomo e la donna. E' un brano erotico, come mi ha fatto notare una mia amica potrebbe essere presentato come "La cammesella" al contrario. Se, infatti, nel brano campano d'autore è l'uomo a pregare la donna di spogliarsi mentre questa si rifiuta, nel Salento la donna, per ottenere che l'uomo lasci perdere l'aratro e la terra deve promettere di fargli vedere "Lu tuttu tuttu". Ho già detto che le voci degli Agorà non sono il meglio che c'è in giro, e su questo brano si sente. E' comunque interessante per certe tecniche d'esecuzione (sia del tamburello che della fisarmonica), ma la migliore versione, forse lo dico perché fino all'acquisto del cd di cui parliamo era l'unica che conoscevo, è quella contenuta in "Serenata" del (vero) Canzoniere Grecanico Salentino. Divagazione: lì c'è di geniale, ed è questo che me la fa amare molto, la teatralità che Durante, una delle più brutte voci del Salento, mette nel suo dialogo: non si limita semplicemente a cantare le risposte, emette delle interiezioni e degli incitamenti all'animale che lo deve aiutare ad arare, che sono completamente geniali. Ultimissima: a parte questo brano, almeno per me, il cd del Canzoniere è completamente inascoltabile!
C'era una volta una persona che diceva di volermi bene, il problema è stato che me lo ha voluto dimostrare, consigliata fra l'altro dalla mia negoziante di fiducia, regalandomi il cd, che ovviamente era anche corredato di un fantasticissimo dvd, del Concertone della stupendissima Notte Della Taranta 2003. Io, va da sé, dopo il primo ascolto, che tentai di fare impietosita e perché "a caval donato non si guarda in bocca", gettai quel cd nell'oblio più completo (sto aspettando forse segretamente l'occasione per liberarmene, ma io non voglio male a nessuno). Tra i brani che l'anglo-melpignanese prendeva di mira, c'era anche questao, che si intitola "Lu ballu", per lo meno in "Canti de na fiata". E' la storia di una ragazza che, innocentemente, si giustifica e tenta di non andare a ballare. Io dico una cosa: le contaminazioni alla Copeland, ovviamente avrete capito che si sparava su quella crocerossa, non solo rovinano e massificano il nostro folklore, che già di per sé è un fatto grave, ma ci fanno perdere l'innocenza, che noi, anche come forma di lotta culturale, dobbiamo tornare a coltivare.
Il brano successivo, in maniera lapidaria, lo potremmo commentare con un "Buonanotte decenza!". Va detto, e chi mi conosce lo sa quanto sono arrabbiata con i salentini su questo, che giù nessuno me lo fa come lo vorrei io. Chi ha già letto i miei articoli, potrebbe aver anche il sospetto che si sta parlando di "Cali nitta" (lo scrivo alla Agorà). Questa versione, simile a quella degli Aramirè, suonata solo un pizzichino meglio, è veramente sguaiata, anche perché, e l'ho sempre detto, le voci non sono la caratteristica portante degli Agorà. E' cantata dalla voce femminile più giovane, che tra l'altro pare forsi molto per cantare in re minore, tonalità del brano, ma non mi dà nessuna emozione.
Penultima traccia è "L'uccellino della cummare", fatta con un ritmo miscuglio tra pizzica e ritmi binari (marcettine e simili). Non si poteva usare una tammorra muta? Sì! Il brano, come tutti quelli cantati in italiano accompagnati da strumenti del Sud, mi fa un pochinino "stizzare".
Il cd, però, fortunatamente si chiude alla grande, con una carinissima filastrocca calabrese, eseguita con una terzina non so quanto fidedigna, ma che permette ai tamburellisti improvvisati di avere il piacere di trovare qualcosa di veramente difficile, che li potrebbe obbligare a darsi una calmatina. Come tutte le filastrocche non si può descrivere, quindi non vi posso dire altro.
Spero di avervi fatto venire voglia di scoprire un paio di gruppi salentini non molto conosciuti, giusto per dimostrare che dalla tradizione non si prendono solo melodie fritte e rifritte.
Ultimissima: se un brano che conosco già mi viene suonato meglio di come l'avevo sentito prima, a me ancora riesce ad emozionarmi. Se voi, signori salentini diventaste così, vi divertireste sicuramente di più, e non fareste di "pizzicata" un covo di "cruscanti" della tradizione o della contaminazione.
Il gruppo in questione si chiama Agorà, è originario di Specchia, paesino del basso Salento, ed il cd di cui voglio particolareggiatamente parlarvi, dopo averlo già citato qualche altra volta come esempio di riproposta da me apprezzata, si intitola "Canti de na fiata". Credo che, in questo periodo in cui si pensa che senza rinnovare ed innovare il repertorio della tradizione non si fa niente di interessante, questo disco sia uno dei più folgoranti esempi del contrario. Non vi preoccupate, che come ogni opera umana non è perfetto, e non pensate che non ci abbia trovato difetti.
Intanto, direi che il titolo, per le ragioni citate sopra è provocatorio, perché, e si potrebbe decodificare con una semplice riminiscenza dantesca, significa "Canti di una volta". Non è, signori, uno dei tanti esempi di disco pseudotradizionale o con brani che di tradizionale hanno ben poco, è il secondo album di un gruppo che, con estrema coerenza, esegue solamente "canti antichi" (purtroppo non so con quanta bravura, dato che non ho mai visto un loro concerto dal vivo).
Io conobbi questo gruppo moltissimo tempo fa, prima di venire per la prima ed unica volta in Puglia, perché mi avevano regalato il loro primo ed unico disco uscito sino ad allora, il pregevole "Canti antichi" sopra citato. Questo, e lo dico subito, non fu un cd che fece scoppiare in me una grossa passione, ma mi fece stimare il gruppo, che da ricerche effettuate anche in posti dove si vendeva la musica popolare, mi riferisco al Salento ovviamente, mi risultò essere uno dei meno conosciuti.
Per circa tre anni, fino all'anno scorso, non ebbi occasione di cercare loro notizie. Sono stata piacevolmente riportata sulla buona strada dal programma della Notte Della Taranta, che in una delle serate "premelpignanesche", li vedeva copartecipare addirittura insieme a quello che io ritengo il migliore gruppo di musica popolare salentina: gli Zoè! Portata da questo e da un piacevolissimo sospetto, sono passata sul loro sito, http://www.agoracantiantichi.net/, ed ho sentito alcuni pezzettini dei "Canti de na fiata". Dico sinceramente, signori miei, questo gruppo ha avuto la virtù di migliorare invece di peggiorare. Il cd, e questo è uno dei motivi che lo rende bello, ha la collaborazione del grandissimo Carlo "Canaglia" ai tamburi, e conta nel suo organico con un mandolino magico, che dà sicuramente quella cantabilità, che manca a qualsiasi chitarra solista.
La prima traccia del cd, quella che mi ha fatto venire la prima, istintiva ed irrefrenabile voglia di averlo, è una bellissima, semplice e festosissima versione di "Quantave". Mi si potrebbe replicare, e già vedo chi lo fa, che è un brano sfruttato, che come lo fanno gli Agorà, ossia a pizzica, ce lo fanno tutti, oltretutto la versione "di campo" è lenta. La versione tradizionale io la conosco bene, ma suonata in quel modo, con quell'immediatezza, con quella voglia di coinvolgere la gente non in pogopizzica ma in ballo spontaneo, beh è assolutamente tra le poche versioni che si possano ascoltare.
L'unico neo, ed è grosso e generale rispetto al cd, è la voce della donna che canta. L'ho già detto, ma a me piace ripetere le cose dove serve, la riproposta deve essere intonata, anche chi fa musica popolare deve riconoscersi in standard di "accordatura" di nota moderni, ovvio non si deve arrivare agli estremi della Notte Della Taranta dove la pizzica si canta come musica leggera, ma si dovrebbe utilizzare la "filosofia di canto" degli anziani in modo moderno (c'è già chi lo fa, Cinzia Marzo in primis). La voce femminile, elemento a cui io do un'importanza particolare, perché credo in una certa "femminilità" insita nella musica salentina, purtroppo è stonata, non perché abbia studiato le emissioni tipiche salentine, ma perché lo è e punto. Comunque, a me il brano piace ed ha una "festosità" unica. Vi posso giurare che io, che non sono una che si fa "cotulare lu pete" (muovere il piede) dalla qualsiasi, mi butto in balli sfrenati da seduta, che farebbero invidia ai migliori ballerini.
Il secondo brano, uno dei motivi che mi fa ritenere questo cd un gioiello, è un valzerino intitolato "Beddha ci dormi". E' un canto che non credo sia stato molto riproposto, meno ancora in veste rispettosa. Io l'avevo sentito per la prima ed unica volta, e ve la voglio raccontare, ad un concerto di un gruppo chiamato Orchestrina salentina (che tra l'altro ha una delle più belle voci di basso popolare di tutto il Salento). A fine concerto, mentre parlavo con il chitarrista, lui, sconvolto ed inorgoglito dal fatto che io sapessi tutto ciò che so sulla musica della sua terra, mi ha detto, con un'aria quasi di sfida: "Non mi dire che conoscevi anche quella con cui abbiamo aperto il concerto!". Io, che ho una calamita nei confronti degli inediti sentiti live, gli dissi che non la conoscevo e che mi aveva colpito. Sono restata, durante tutto il periodo di attesa dei "Canti de na fiata", a sprecare il fiato per maledirmi del fatto di non aver neanche tentato di registrare il concerto del gruppo citato. Devo dire che la versione degli Agorà è molto peggiore rispetto a quella che avevo sentito in precedenza, ma comunque il paragone è fatto tra due cose belle. Qui, l'unica versione che esiste su disco in mio possesso perché l'Orchestrina salentina di fare dischi non ne vuole sapere, è molto popolaresca, ed è cantata, nonostante che come "Quantave" parli chiaramente dal punto di vista maschile, dalla donna. So che la tradizione non si fa di queste remore, ma io, che vengo da una serie di esperienze d'ascolto legate a musiche dove questo ha molta importanza, come il fado portoghese, ci tengo.
Venendo tecnicamente al brano, è molto popolare, e forse si rispetta poco l'anima di serenata, si fa troppa festa, anche grazie ad uno strumento (che non so se siano nacchere o cucchiai), che fa uno stranissimo e abbastanza pesante rullato, che va credo in controtempo rispetto al tamburello, che comunque, come è consuetudine degli Agorà, non batte mai troppo forte.
Subito dopo troviamo un brano di cui io possiedo svariate versioni in vari dialetti, dal romano al calabrese, intitolato "La zita". E' un'elencazione, spero esagerata, dei piatti che si potevano mangiare nei luculliani matrimoni contadini o immaginati da questo nobilissimo gruppo sociale. La versione degli Agorà, come è giusto che sia, è a pizzica, e vi si trova un punto, l'ultimo, dove, dato che alla sposa era passato l'appetito, si mette piacevolmente a letto con il suo maritino nuovo di zecca. Anche questa, ma non ho niente da ridire, è cantata dalla voce femminile, o meglio da una delle due voci femminili del gruppo.
Dopodiché, per continuare e non esaurire la serie di brani che mancavano alla mia buona collezione di musica popolare salentina, arriva "Ninella de Calimera", che gli agorà tarantano ma non troppo, resta il ritmo alla Ucci maniera (che ho conosciuto dopo), fa capolino solo una bellissima e semplicissima ma poco usata terzina scandita lentamente. Giusto per dimostrare che gli Agorà hanno perso il difetto di copiare dagli altri (nel cd precedente c'era una "Santu Paulu" che aveva un vocalizzo come chiusura, che a chi è un minimo edotto di "Officina", puzzerebbe di imitazione), le strofe non sono quelle degli Ucci, ma sono liberamente mischiate, rigorosamente prese dalla tradizione perché il gruppo fa canti antichi, ma messe insieme con personalità. Qui fa capolino una voce maschile, che come tutte quelle del gruppo è tutto meno che perfetta. Lo stile del gruppo non mi viene di descriverlo, perché è abbastanza scontato per chi fa musica popolare, ma preferisco questo a molti lavori di gente che si ritiene innovatrice e distrugge tutto! (Alla Bua questa è anche per voi!).
Subito dopo arriva "Lu rusciu de lu mare", che il gruppo ha saggiamente diviso in due tracce, così ognuno si ascolta quello che più gli aggrada. La versione prescelta è quella in minore in tutti due i casi, ma la prima parte è lenta ed anche un po' sofisticata, (forse non c'entra niente con lo stile del gruppo), mentre la seconda, pizzica travolgente e dolce, è completamente compatibile con lo stile degli specchiesi.
Venendo tecnicamente alla descrizione breve della prima delle due tracce, si può dire che è quella più originale, più lontana quantomeno dai modelli che conosco. Ha un ritmo inclassificabile, ed è accompagnata semplicemente da una chitarra acustica, una tammorra che entra in modo libero in corrispondenza di una determinata parte della scansione ritmica, ed un mandolino che tra strofa e strofa ricama un semplicissimo giro, il cui modello è probabilmente la già citata "Officina". Come sempre quando la si esegue in due parti, la strofa mancante dalla prima è quella che io amo di più: "E vola vola vola palomma vola,
e vola vola vola palomma mia;
ca ieu lu core meu te l'aggiu dare".
La seconda parte, quella che io preferisco, conservando il giro di mandolino della prima, arricchisce notevolmente il bagaglio di strumenti con cui è eseguita, diventando una normale, semplice e coinvolgente pizzica. Per quanto riguarda le strofe, poi, va detto che il canto, non mi ricordo chi l'avesse già fatto ma ne ricordo un esempio, invece di partire con la strofa che comunemente da inizio al brano, parte da "Lu rusciu de lu mare...".
Subito dopo, carissimi alfieri della necessità di innovare ad ogni costo il repertorio, arriva un pezzo che voi detestate: il "Fior di tutti fiori". Fate come vi pare, ma io l'adoro, e questa versione è tra le migliori, anzi la migliore che io abbia mai potuto sentire. Gli Agorà non hanno voluto "strappare" niente a questo canto (Zoè: cosa avete fatto a questo brano in "Crita"? L'avete solo appesantito, anche se così mi avete fatto venire un'idea di rielaborazione diversa). Così come era "'na fiata", gli Agorà ce lo restituiscono con lo stesso ritmo, la stessa melodia, le stesse strofe, solo accompagnato dagli strumenti, che per il solo fatto di suonare spessissimo tutti insieme, arrivano ad avere un ruolo innovativo, finalmente preponderante, senza le esagerazioni di cosiddetti gruppi innovatori o contaminatori, spessissimo disonestissimi. Trovo mirabile, oltretutto, il fatto che la voce principale, un giovane che come tutti gli Agorà non è perfettamente intonato, si lasci rispondere dagli altri, che fra l'altro si fanno controcanti di una bellezza che veramente qualcuno se li dovrebbe imparare a memoria.
Il brano successivo, un po' malizioso certamente, mancava nella mia collezione di brani riproposti,. Penso, oltretutto, che l'unico che avesse fatto un tentativo di rielaborarlo, si intende a parità di melodia e quasi parità di testo, fosse stato il calabro-siculo, legato alla Puglia da notevoli rapporti di ricercatore sul campo, Otello Profazio (il brano si trova nel disco "Il filo di seta" e si intitola "Quannu l'aceddrhu pizzica la fica"). Se Profazio, al solito suo ne fa una versione "confidenziale", voce e chitarra, il gruppo salentino la riporta verso gli stilemi più propriamente legati alla salentinità, mettendoci però uno sguaiatissimo tamburello (quando non si fanno le pizziche si dovrebbe usare la tammorra muta!). Per il resto il brano, interpretato anche qui da una delle due voci femminili, è molto piacevole.
il prossimo brano, "L'acqua de la funtana", mancava completamente alla mia collezione, e posso affermare di non averlo praticamente mai sentito prima di avere il disco, se non al già citato concerto dell'Orchestrina salentina, fatto in una versione tamburelli e voce, con un numero imprecisato di membrane e cimbali che suonavano, di mani che battevano sui tamburi, talmente forte da farmi venire il mal di testa (e ce ne vuole!). La versione degli Agorà, signori miei, invece, è piacevolissima, un po' sguaiata, ma nel Salento, se noi paragoniamo la "riproposta" ad una tavola, c'è chi si mette completamente a destra, (mettiamo i contaminatori che m'hanno stancato modello Mascarimirì), e chi si mette a sinistra (chi imita gli anziani, tipo gli Agorà). Io, signori miei, non condivido nessuno di questi due approcci, ma, per fare un paragone politico, preferisco Diliberto a Storace! A me, l'ho già detto ma sono un mulo che ogni tanto si inceppa, piace chi sta in mezzo, ossia quelli nel cui lavoro tu non riesci, se non a costo di ridurne l'entità od il valore, a capire dove sta la tradizione o la modernità (mi riferisco agli Zoè di "Crita" e "Live in Japan").
Subito dopo arriva "aremu rendineddhamu", brano che, come molti in griko, è diventato tradizionale, anche se forse ha l'autore (non lo so ma mi suona di sì). La versione degli Agorà è un po' troppo veloce, troppo valzerata, troppo tamburellata (vedere sopra su come credo si dovrebbero fare i ritmi ternari lenti). La cosa che mi manda in bestia, però, è soprattutto il fatto che i cantanti, scordandosi completamente del testo che cantano (che è un'invocazione all'inseparabile rondinella affinché ci racconti un po' la sua storia ed i suoi voli), si gettano in canti quasi goliardici, come se stessero "'ntr'a 'na putia" (in un'osteria). Posso giurarvi che, è molto ma molto più espressiva, la versione data dai "Cantori di Martano" nel dvd "Cu li trapassa l'anima e lu core": loro, perlomeno, da anziani e grikofoni quali sono, ci mettono anima!
Eccoci qua ad un'altro brano fra i meno carini del cd, non perché sia suonato male, ma perché c'è troppo poco gioco di dialogo tra l'uomo e la donna. E' un brano erotico, come mi ha fatto notare una mia amica potrebbe essere presentato come "La cammesella" al contrario. Se, infatti, nel brano campano d'autore è l'uomo a pregare la donna di spogliarsi mentre questa si rifiuta, nel Salento la donna, per ottenere che l'uomo lasci perdere l'aratro e la terra deve promettere di fargli vedere "Lu tuttu tuttu". Ho già detto che le voci degli Agorà non sono il meglio che c'è in giro, e su questo brano si sente. E' comunque interessante per certe tecniche d'esecuzione (sia del tamburello che della fisarmonica), ma la migliore versione, forse lo dico perché fino all'acquisto del cd di cui parliamo era l'unica che conoscevo, è quella contenuta in "Serenata" del (vero) Canzoniere Grecanico Salentino. Divagazione: lì c'è di geniale, ed è questo che me la fa amare molto, la teatralità che Durante, una delle più brutte voci del Salento, mette nel suo dialogo: non si limita semplicemente a cantare le risposte, emette delle interiezioni e degli incitamenti all'animale che lo deve aiutare ad arare, che sono completamente geniali. Ultimissima: a parte questo brano, almeno per me, il cd del Canzoniere è completamente inascoltabile!
C'era una volta una persona che diceva di volermi bene, il problema è stato che me lo ha voluto dimostrare, consigliata fra l'altro dalla mia negoziante di fiducia, regalandomi il cd, che ovviamente era anche corredato di un fantasticissimo dvd, del Concertone della stupendissima Notte Della Taranta 2003. Io, va da sé, dopo il primo ascolto, che tentai di fare impietosita e perché "a caval donato non si guarda in bocca", gettai quel cd nell'oblio più completo (sto aspettando forse segretamente l'occasione per liberarmene, ma io non voglio male a nessuno). Tra i brani che l'anglo-melpignanese prendeva di mira, c'era anche questao, che si intitola "Lu ballu", per lo meno in "Canti de na fiata". E' la storia di una ragazza che, innocentemente, si giustifica e tenta di non andare a ballare. Io dico una cosa: le contaminazioni alla Copeland, ovviamente avrete capito che si sparava su quella crocerossa, non solo rovinano e massificano il nostro folklore, che già di per sé è un fatto grave, ma ci fanno perdere l'innocenza, che noi, anche come forma di lotta culturale, dobbiamo tornare a coltivare.
Il brano successivo, in maniera lapidaria, lo potremmo commentare con un "Buonanotte decenza!". Va detto, e chi mi conosce lo sa quanto sono arrabbiata con i salentini su questo, che giù nessuno me lo fa come lo vorrei io. Chi ha già letto i miei articoli, potrebbe aver anche il sospetto che si sta parlando di "Cali nitta" (lo scrivo alla Agorà). Questa versione, simile a quella degli Aramirè, suonata solo un pizzichino meglio, è veramente sguaiata, anche perché, e l'ho sempre detto, le voci non sono la caratteristica portante degli Agorà. E' cantata dalla voce femminile più giovane, che tra l'altro pare forsi molto per cantare in re minore, tonalità del brano, ma non mi dà nessuna emozione.
Penultima traccia è "L'uccellino della cummare", fatta con un ritmo miscuglio tra pizzica e ritmi binari (marcettine e simili). Non si poteva usare una tammorra muta? Sì! Il brano, come tutti quelli cantati in italiano accompagnati da strumenti del Sud, mi fa un pochinino "stizzare".
Il cd, però, fortunatamente si chiude alla grande, con una carinissima filastrocca calabrese, eseguita con una terzina non so quanto fidedigna, ma che permette ai tamburellisti improvvisati di avere il piacere di trovare qualcosa di veramente difficile, che li potrebbe obbligare a darsi una calmatina. Come tutte le filastrocche non si può descrivere, quindi non vi posso dire altro.
Spero di avervi fatto venire voglia di scoprire un paio di gruppi salentini non molto conosciuti, giusto per dimostrare che dalla tradizione non si prendono solo melodie fritte e rifritte.
Ultimissima: se un brano che conosco già mi viene suonato meglio di come l'avevo sentito prima, a me ancora riesce ad emozionarmi. Se voi, signori salentini diventaste così, vi divertireste sicuramente di più, e non fareste di "pizzicata" un covo di "cruscanti" della tradizione o della contaminazione.
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domenica 10 maggio 2009
Sfogo sugli Alla Bua
Carissimi lettori, stavo facendo una ricerca sul web, che non mi ha permesso di trovare le informazioni sperate, ma mi ha obbligato ad imbattermi in qualcosa di cui avrei fatto a meno.
Ho riletto, rimanendone almeno delusa, un'intervista a Gigi Toma, leader dei grandi Alla Bua (gruppo salentino di cui qui si è già parlato). Ne approfitterò per dire come la penso su una serie di cose, confutando quello che lui dice in risposta a delle domande fattegli da Sergio Spadoni. L'intervista è leggibile all'indirizzo www.inputfirenze.it/cgi-bin/articoli.exe/?id=148.
L'intervista è interessante perché dimostra la gratitudine del gruppo per chi ha lavorato, forse anche in maniera più completa e scientifica, prima della sua nascita sulla musica popolare salentina; nonostante ciò, ragazzi, si vede la povertà di prospettiva e la semplificazione, operata anche nei confronti dello stesso rito del tarantismo, non perdonabile a chi si vanta a più riprese di conoscere bene la situazione.
Intanto, ed oggi sono in tanti a dimenticarselo, non tutte le tarante venivano rese innoque dalla pizzica. Nel tarantismo, quando questo non era qualcosa con cui farsi belli ma funzionava davvero, alle tarante si cantavano anche canti funebri, e se gli Alla Bua volessero veramente rappresentare la musica che le fermava, dovrebbero anche occuparsi di questo repertorio (ma ci vogliono voci buone e loro è da un pezzo che non ne hanno nemmeno l'ombra).
Mi pare poi che in questa intervista, in piena compatibilità con lo spirito che anima la più moderna e spesso peggiore riproposta, si tende a confondere musicalità con immediatezza. Non si può negare che il gruppo continui a tirare fuori gioielli dal folklore (si pensi alla rielaborazione del canto narrativo interpretato da Tora Marzo "Ieri sera chiantai nu dattulu" che il gruppo chiama "Taccaru" ed ha inciso in "Saratambula" suo più recente disco). Quello che non mi piace, però, è il suo estremismo, questo voler per forza puntare sulla pizzica, di cui molti prestissimo si stancheranno, non solo e non tanto per l'appiattimento del repertorio, ma per questa ricerca di ossessività estremizzata, che addirittura gli Alla Bua radicalizzano ulteriormente facendo terzinare tutti gli strumenti (tamburello, chitarra, flauto, fisarmonica), arrivando ad un orribile effetto da discoteca. Oltretutto, dico io, lo stile degli ultimi Alla Bua, che io tra parentesi non capisco più, non è per niente legato alla tradizione, e mi fa infuriare il fatto che neanche loro lo riconoscono. Cosa ci vuole a dire che il gruppo ha fatto della pizzica un qualcosa completamente nuovo e diverso dal passato, ed utilizza la tradizione solo a livello di testi? Probabilmente, queste parole che ho scritto ora, riempiono molto meno la bocca rispetto ad un bellissimo racconto, certamente emozionante, degno del grande "Pizzicata" di Winspeare, ma sarebbero la verità nei confronti di uno stile come quello degli Alla Bua moderni.
Le testimonianze che Toma dà sulla situazione della donna, sono sicuramente vere e fa bene ad arrabbiarsi con chi ha messo in giro l'esistenza della "pizzica de core" sin da tempi lontanissimi. Direi, però, che le pizziche tradizionali, signor "de Casaraneddrhu", facevano venire molta più voglia di ballare piuttosto che le vostre nuove ed indiavolate, ed oltretutto venivano anche cantate e ballate in occasione di matrimoni (dove per definizione "li cori" si uniscono).
Gli Alla Bua degli inizi, che erano molto migliori perché in loro c'era consapevolezza vera e non voglia di chiacchierare sulla tradizione, erano completi ed emozionavano anche i cultori. Oggi, carissimi, arrivate forse al grande pubblico, ma la differenza tra voi e la Notte Della Taranta sta solo nelle stronzate. (Ad esempio loro usano la chitarra elettrica, il basso, la batteria e voi no).
Mi fa infuriare, io l'interpreto così ma ditemi che non è vero, il vostro vantarvi di non eseguire canti di protesta e canti di lavoro. Voi, facendo così, eseguite lo zero virgola zero per cento del folklore, perché i contadini, quelli che facevano questa musica, avevano molto più da pensare ai carri ed al lavoro che alla vostra ben amata Festa di San Rocco.
Sinceramente, signori, io ascolto i vostri tre primi dischi da ormai quattro o cinque anni, mi fanno impazzire, ma voi, per quel che siete adesso, mi fate sudare di rabbia.
Secondo molti, con il vostro stile coinvolgente siete il futuro del folklore. Bene: a questi signori io dico che voi fate qualcosa di altro dal folklore, utilizzando appena gli strumenti, suonati in tutt'altra maniera in nome di quella presupponenza tipica di noi contemporanei, ed il dialetto.
La vostra musica è da circo, ci si potrebbero mettere insieme acrobazie di giocolieri e quant'altro, ma non è musica popolare salentina, per lo meno la tradizione c'è pochissimo, e nemmeno avete il coraggio di dire che certe matrici le rubate alla sapienza contadina.
Siete come Sparagna, d'altronde non vi ho mai sentito criticare una sola nota della sua riproposta salentina, non l'avete fatto perché siete come lui.
Voglio salutarvi dicendovi che la contaminazione senza tradizione è stravolgimento, e voi la tradizione ce l'avete solo nelle chiacchiere e nella retorica.
Se vi vorrete difendere dagli strali che vi tiro in questo articolo, che purtroppo per voi sarà tra poco reperibile con una semplicissima ricerca su google, potrete scrivere a valentinalocchi@hotmail.it.
Ho riletto, rimanendone almeno delusa, un'intervista a Gigi Toma, leader dei grandi Alla Bua (gruppo salentino di cui qui si è già parlato). Ne approfitterò per dire come la penso su una serie di cose, confutando quello che lui dice in risposta a delle domande fattegli da Sergio Spadoni. L'intervista è leggibile all'indirizzo www.inputfirenze.it/cgi-bin/articoli.exe/?id=148.
L'intervista è interessante perché dimostra la gratitudine del gruppo per chi ha lavorato, forse anche in maniera più completa e scientifica, prima della sua nascita sulla musica popolare salentina; nonostante ciò, ragazzi, si vede la povertà di prospettiva e la semplificazione, operata anche nei confronti dello stesso rito del tarantismo, non perdonabile a chi si vanta a più riprese di conoscere bene la situazione.
Intanto, ed oggi sono in tanti a dimenticarselo, non tutte le tarante venivano rese innoque dalla pizzica. Nel tarantismo, quando questo non era qualcosa con cui farsi belli ma funzionava davvero, alle tarante si cantavano anche canti funebri, e se gli Alla Bua volessero veramente rappresentare la musica che le fermava, dovrebbero anche occuparsi di questo repertorio (ma ci vogliono voci buone e loro è da un pezzo che non ne hanno nemmeno l'ombra).
Mi pare poi che in questa intervista, in piena compatibilità con lo spirito che anima la più moderna e spesso peggiore riproposta, si tende a confondere musicalità con immediatezza. Non si può negare che il gruppo continui a tirare fuori gioielli dal folklore (si pensi alla rielaborazione del canto narrativo interpretato da Tora Marzo "Ieri sera chiantai nu dattulu" che il gruppo chiama "Taccaru" ed ha inciso in "Saratambula" suo più recente disco). Quello che non mi piace, però, è il suo estremismo, questo voler per forza puntare sulla pizzica, di cui molti prestissimo si stancheranno, non solo e non tanto per l'appiattimento del repertorio, ma per questa ricerca di ossessività estremizzata, che addirittura gli Alla Bua radicalizzano ulteriormente facendo terzinare tutti gli strumenti (tamburello, chitarra, flauto, fisarmonica), arrivando ad un orribile effetto da discoteca. Oltretutto, dico io, lo stile degli ultimi Alla Bua, che io tra parentesi non capisco più, non è per niente legato alla tradizione, e mi fa infuriare il fatto che neanche loro lo riconoscono. Cosa ci vuole a dire che il gruppo ha fatto della pizzica un qualcosa completamente nuovo e diverso dal passato, ed utilizza la tradizione solo a livello di testi? Probabilmente, queste parole che ho scritto ora, riempiono molto meno la bocca rispetto ad un bellissimo racconto, certamente emozionante, degno del grande "Pizzicata" di Winspeare, ma sarebbero la verità nei confronti di uno stile come quello degli Alla Bua moderni.
Le testimonianze che Toma dà sulla situazione della donna, sono sicuramente vere e fa bene ad arrabbiarsi con chi ha messo in giro l'esistenza della "pizzica de core" sin da tempi lontanissimi. Direi, però, che le pizziche tradizionali, signor "de Casaraneddrhu", facevano venire molta più voglia di ballare piuttosto che le vostre nuove ed indiavolate, ed oltretutto venivano anche cantate e ballate in occasione di matrimoni (dove per definizione "li cori" si uniscono).
Gli Alla Bua degli inizi, che erano molto migliori perché in loro c'era consapevolezza vera e non voglia di chiacchierare sulla tradizione, erano completi ed emozionavano anche i cultori. Oggi, carissimi, arrivate forse al grande pubblico, ma la differenza tra voi e la Notte Della Taranta sta solo nelle stronzate. (Ad esempio loro usano la chitarra elettrica, il basso, la batteria e voi no).
Mi fa infuriare, io l'interpreto così ma ditemi che non è vero, il vostro vantarvi di non eseguire canti di protesta e canti di lavoro. Voi, facendo così, eseguite lo zero virgola zero per cento del folklore, perché i contadini, quelli che facevano questa musica, avevano molto più da pensare ai carri ed al lavoro che alla vostra ben amata Festa di San Rocco.
Sinceramente, signori, io ascolto i vostri tre primi dischi da ormai quattro o cinque anni, mi fanno impazzire, ma voi, per quel che siete adesso, mi fate sudare di rabbia.
Secondo molti, con il vostro stile coinvolgente siete il futuro del folklore. Bene: a questi signori io dico che voi fate qualcosa di altro dal folklore, utilizzando appena gli strumenti, suonati in tutt'altra maniera in nome di quella presupponenza tipica di noi contemporanei, ed il dialetto.
La vostra musica è da circo, ci si potrebbero mettere insieme acrobazie di giocolieri e quant'altro, ma non è musica popolare salentina, per lo meno la tradizione c'è pochissimo, e nemmeno avete il coraggio di dire che certe matrici le rubate alla sapienza contadina.
Siete come Sparagna, d'altronde non vi ho mai sentito criticare una sola nota della sua riproposta salentina, non l'avete fatto perché siete come lui.
Voglio salutarvi dicendovi che la contaminazione senza tradizione è stravolgimento, e voi la tradizione ce l'avete solo nelle chiacchiere e nella retorica.
Se vi vorrete difendere dagli strali che vi tiro in questo articolo, che purtroppo per voi sarà tra poco reperibile con una semplicissima ricerca su google, potrete scrivere a valentinalocchi@hotmail.it.
sabato 9 maggio 2009
Claudio Lolli e dintorni ("Lovesongs" e non solo).
Carissimi lettori, voglio parlarvi dell'ultimo cd di Claudio Lolli, un cantautore bolognese non particolarmente conosciuto, anche perché, siamo sinceri, l'emarginazione lui se la è un po' cercata.
Il cd, intitolato "Lovesongs", è uscito, come una ormai lunga serie di suoi album, per l'etichetta indipendente, fortunatamente ben distribuita, Storie di note.
Claudio Lolli, ultimamente, grazie a Luca Carboni, è ritornato alla ribalta con uno dei suoi classici indiscussi, "Ho visto anche degli zingari felici". Questo cd, però, non risente assolutamente di quelle atmosfere. E' un disco sul Lolli intimo, che ci sbatte in faccia il miglior repertorio d'amore del cantautore bolognese, che ci arriva come qualcosa di forte ed improcrastinabile.
Il cd, come molti concerti di Claudio Lolli, è caratterizzato da un osmosi tra suoni elettronici, che umilmente fanno tappeti, e suoni acustici, che con la loro libertà, aiutano il cantante nelle sue evoluzioni, che di canto hanno sempre meno. Infatti, la caratteristica principale di Lolli, almeno da vent'anni a questa parte, è una sperimentazione di un "canto parlato", che forse non permette più di cantare i brani del bolognese come si fa con "Borghesia" od "Aspettando godot", ma magari obbliga a dare un peso grandissimo alle parole, che diventano quasi metafora di cose profonde che non riescono a dire.
Il cd, si può dire che è un omaggio al sassofono, strumento a cui Lolli è particolarmente legato, se si pensa che era lui a fare da strumento-bussola nella prima versione di "Ho visto anche degli zingari felici", risalente al 1976.
Questo cd, "Lovesongs", si apre con un brano che si intitola "La pioggia prima o poi", che io non avevo mai sentito. E' un dialogo con un personaggio femminile, come quasi tutte le canzoni d'amore del bolognese, nel quale l'uomo, Claudio Lolli, dice con forza e senza pietà tutto ciò che gli scorre dentro, con un fiume tellurico di parole.
Questo fiume tellurico di parole è un po' il filo conduttore di tutto il cd, che ripercorre brani che, offuscati da quelli politici, sicuramente più facili e noti, non hanno nemmeno avuto la possibilità di avere spazio e respiro nell'anima di noi lolliani.
Dopo "Aspirine", brano che senza molta imprecisione si potrebbe definire il "seguito naturale" de "La pioggia prima o poi", ho provato la prima grandissima emozione, riscoprendo la ballata "Donna di fiume", dedicata ad un amore randagio, con una poesia degna di Dante o del migliore e più poetico De Andrè. Il brano, originariamente contenuto in "Canzoni di rabbia" del 1975, diventa qui intimo e viene spogliato di quello sperimentalismo un po' semplicistico, che forse si può ritrovare specialmente nel secondo e nel terzo vinile di Lolli, rispettivamente "Un uomo in crisi" e il già citato "Canzoni di rabbia". Qui, le dissonanze del sassofono, veramente dànno l'idea di trovarsi in un letto di un fiume, forse semplicemente di quello della vita, che scorre senza soluzione di continuità.
Subito dopo arriva un brano a cui sono particolarmente legata, la ballata "Dita". In questa versione, incisa dodici anni dopo la prima contenuta nel disco "Intermittenze del cuore", Lolli ci fa sentire veramente la dolcezza che è insita nelle parole, anche attraverso il canto, che si muove sui registri gravi della voce, che spesso il cantautore usa solo come tappeto. Il ritmo, qui, viene portato ad una lentezza che non mi permette di classificarlo, ma che me ne ha fatto davvero innamorare, ancora una volta. Questo brano, ed ora voglio approfittare per scrivere la mia testimonianza di gratitudine, è stato tra i primi che mi ha avvicinato allo stile di questo cantautore, che senza la tristezza artefatta che tanto va di moda ora, ci racconta l'interiorità che è un argomento spesso dimenticato da molti interpreti nati musicalmente tra la fine degli anni '60 ed il decennio successivo, troppo impegnati a sbandierare canzoni come coccarde di violenza e demagogia.
Il finale del brano, parlando da un punto di vista propriamente musicale, è molto interessante, per un dialogo tra due sassofoni, che si stende su un leggero tappeto elettronico, che permette anche alla chitarra di Paolo Capodacqua, ormai compagna inseparabile di Lolli, di dimostrare il suo virtuosismo pur nella semplicità degli accordi impiegati, d'altronde quelli che da dodici anni a questa parte contraddistinguono il brano.
Subito dopo arriva "Quello che mi resta", brano ripescato da quell'"Aspettando godot" ricordato forse più per la foto di Lolli in serigrafia sulla moneta da cinquemila lire, che per il suo effettivo contenuto. La nuova versione del brano, lo confesso, mi sta permettendo finalmente di scoprirlo. E' accompagnata dalla chitarra di Paolo Capodacqua, che su un tappeto elettronico quasi per niente percettibile ad un ascolto medio, esegue armonie molto classiche, quasi barocche, che permettono a Lolli di vivere le parole con la flemma che lo contraddistingue, da quando ha deciso che cantare sempluicemente forse per lui era troppo poco. Il sassofono, poi, come su quasi tutti i brani, tormenta e lotta con la voce, che però da questa lotta e da questo tormento, non esce fiaccata, semmai aiutata. Armonicamente, questa è una caratteristica per "intenditori", la strofa viene conclusa correttamente solo poche volte. A me di solito caratteristiche di questo tipo dànno un po' fastidio (ad esempio non mi piace quella parte della versione de "Il testamento di Tito" con accordi "innaturali" presente nell'ultimo concerto live di De Andrè). Lolli, però, sa mettere il tutto insieme con una classe che mi lascia vinta, che non mi permette di parlare male di questo cd.
Andando avanti c'è una canzone, che non conoscevo, intitolata "Notte americana", pervasa da quell'"Angoscia metropolitana", che, forse, potrebbe essere elevata a caratteristica base dell'ultimo Lolli, amante delle dissonanze, e per niente incline alla facilità del "cantabile".
La penultima traccia, la più acustica, si intitola "Non aprire mai", ed è un brano in cui, in nome di quell'osmosi che Lolli ha con il mondo femminile nelle sue canzoni d'amore, si narra e si vive tutto dal punto di vista di una donna. E' un brano dove, chi racconta, che interviene solo ossessivamente con il verbo "diceva", non permette di sfuggire al fallimento di ogni tentativo di comunicazione o anche di conoscerci dentro, che poi, forse, sarebbe la cosa più importante.
Il cd si chiude con un brano del primissimo Claudio Lolli, che io avevo quasi scordato, perché confesso di non riuscire ad ascoltare i primi tre dischi del cantautore, intitolato "La giacca". Il tappeto di basso, elettronico, è composto da un "mi", che dà un ritmo ossessivo e calcolato, ad un brano che credo non l'avesse. Questo ritmo, però, non viene seguito da nessuno degli altri strumenti, che si dipanano in improvvisazioni dialoganti con la voce del cantautore, che si "sdraia" su alcune lettere, specialmente su alcune consonanti.
Scusate se con questo articolo ho descritto pochissimo il cd di cui ho detto di parlare, e ne ho approfittato per parlare un po' di Lolli e farvelo ricordare o scoprire. E' un disco che incanta, intrappola, ma anche voi, credo, avrete assolutamente difficoltà a descriverlo o criticarlo.
Amici, buon ascolto, e riprendete tra le mani il virtuosismo di un poeta maledetto, intimo, triste, ma sincero e vero.
Il cd, intitolato "Lovesongs", è uscito, come una ormai lunga serie di suoi album, per l'etichetta indipendente, fortunatamente ben distribuita, Storie di note.
Claudio Lolli, ultimamente, grazie a Luca Carboni, è ritornato alla ribalta con uno dei suoi classici indiscussi, "Ho visto anche degli zingari felici". Questo cd, però, non risente assolutamente di quelle atmosfere. E' un disco sul Lolli intimo, che ci sbatte in faccia il miglior repertorio d'amore del cantautore bolognese, che ci arriva come qualcosa di forte ed improcrastinabile.
Il cd, come molti concerti di Claudio Lolli, è caratterizzato da un osmosi tra suoni elettronici, che umilmente fanno tappeti, e suoni acustici, che con la loro libertà, aiutano il cantante nelle sue evoluzioni, che di canto hanno sempre meno. Infatti, la caratteristica principale di Lolli, almeno da vent'anni a questa parte, è una sperimentazione di un "canto parlato", che forse non permette più di cantare i brani del bolognese come si fa con "Borghesia" od "Aspettando godot", ma magari obbliga a dare un peso grandissimo alle parole, che diventano quasi metafora di cose profonde che non riescono a dire.
Il cd, si può dire che è un omaggio al sassofono, strumento a cui Lolli è particolarmente legato, se si pensa che era lui a fare da strumento-bussola nella prima versione di "Ho visto anche degli zingari felici", risalente al 1976.
Questo cd, "Lovesongs", si apre con un brano che si intitola "La pioggia prima o poi", che io non avevo mai sentito. E' un dialogo con un personaggio femminile, come quasi tutte le canzoni d'amore del bolognese, nel quale l'uomo, Claudio Lolli, dice con forza e senza pietà tutto ciò che gli scorre dentro, con un fiume tellurico di parole.
Questo fiume tellurico di parole è un po' il filo conduttore di tutto il cd, che ripercorre brani che, offuscati da quelli politici, sicuramente più facili e noti, non hanno nemmeno avuto la possibilità di avere spazio e respiro nell'anima di noi lolliani.
Dopo "Aspirine", brano che senza molta imprecisione si potrebbe definire il "seguito naturale" de "La pioggia prima o poi", ho provato la prima grandissima emozione, riscoprendo la ballata "Donna di fiume", dedicata ad un amore randagio, con una poesia degna di Dante o del migliore e più poetico De Andrè. Il brano, originariamente contenuto in "Canzoni di rabbia" del 1975, diventa qui intimo e viene spogliato di quello sperimentalismo un po' semplicistico, che forse si può ritrovare specialmente nel secondo e nel terzo vinile di Lolli, rispettivamente "Un uomo in crisi" e il già citato "Canzoni di rabbia". Qui, le dissonanze del sassofono, veramente dànno l'idea di trovarsi in un letto di un fiume, forse semplicemente di quello della vita, che scorre senza soluzione di continuità.
Subito dopo arriva un brano a cui sono particolarmente legata, la ballata "Dita". In questa versione, incisa dodici anni dopo la prima contenuta nel disco "Intermittenze del cuore", Lolli ci fa sentire veramente la dolcezza che è insita nelle parole, anche attraverso il canto, che si muove sui registri gravi della voce, che spesso il cantautore usa solo come tappeto. Il ritmo, qui, viene portato ad una lentezza che non mi permette di classificarlo, ma che me ne ha fatto davvero innamorare, ancora una volta. Questo brano, ed ora voglio approfittare per scrivere la mia testimonianza di gratitudine, è stato tra i primi che mi ha avvicinato allo stile di questo cantautore, che senza la tristezza artefatta che tanto va di moda ora, ci racconta l'interiorità che è un argomento spesso dimenticato da molti interpreti nati musicalmente tra la fine degli anni '60 ed il decennio successivo, troppo impegnati a sbandierare canzoni come coccarde di violenza e demagogia.
Il finale del brano, parlando da un punto di vista propriamente musicale, è molto interessante, per un dialogo tra due sassofoni, che si stende su un leggero tappeto elettronico, che permette anche alla chitarra di Paolo Capodacqua, ormai compagna inseparabile di Lolli, di dimostrare il suo virtuosismo pur nella semplicità degli accordi impiegati, d'altronde quelli che da dodici anni a questa parte contraddistinguono il brano.
Subito dopo arriva "Quello che mi resta", brano ripescato da quell'"Aspettando godot" ricordato forse più per la foto di Lolli in serigrafia sulla moneta da cinquemila lire, che per il suo effettivo contenuto. La nuova versione del brano, lo confesso, mi sta permettendo finalmente di scoprirlo. E' accompagnata dalla chitarra di Paolo Capodacqua, che su un tappeto elettronico quasi per niente percettibile ad un ascolto medio, esegue armonie molto classiche, quasi barocche, che permettono a Lolli di vivere le parole con la flemma che lo contraddistingue, da quando ha deciso che cantare sempluicemente forse per lui era troppo poco. Il sassofono, poi, come su quasi tutti i brani, tormenta e lotta con la voce, che però da questa lotta e da questo tormento, non esce fiaccata, semmai aiutata. Armonicamente, questa è una caratteristica per "intenditori", la strofa viene conclusa correttamente solo poche volte. A me di solito caratteristiche di questo tipo dànno un po' fastidio (ad esempio non mi piace quella parte della versione de "Il testamento di Tito" con accordi "innaturali" presente nell'ultimo concerto live di De Andrè). Lolli, però, sa mettere il tutto insieme con una classe che mi lascia vinta, che non mi permette di parlare male di questo cd.
Andando avanti c'è una canzone, che non conoscevo, intitolata "Notte americana", pervasa da quell'"Angoscia metropolitana", che, forse, potrebbe essere elevata a caratteristica base dell'ultimo Lolli, amante delle dissonanze, e per niente incline alla facilità del "cantabile".
La penultima traccia, la più acustica, si intitola "Non aprire mai", ed è un brano in cui, in nome di quell'osmosi che Lolli ha con il mondo femminile nelle sue canzoni d'amore, si narra e si vive tutto dal punto di vista di una donna. E' un brano dove, chi racconta, che interviene solo ossessivamente con il verbo "diceva", non permette di sfuggire al fallimento di ogni tentativo di comunicazione o anche di conoscerci dentro, che poi, forse, sarebbe la cosa più importante.
Il cd si chiude con un brano del primissimo Claudio Lolli, che io avevo quasi scordato, perché confesso di non riuscire ad ascoltare i primi tre dischi del cantautore, intitolato "La giacca". Il tappeto di basso, elettronico, è composto da un "mi", che dà un ritmo ossessivo e calcolato, ad un brano che credo non l'avesse. Questo ritmo, però, non viene seguito da nessuno degli altri strumenti, che si dipanano in improvvisazioni dialoganti con la voce del cantautore, che si "sdraia" su alcune lettere, specialmente su alcune consonanti.
Scusate se con questo articolo ho descritto pochissimo il cd di cui ho detto di parlare, e ne ho approfittato per parlare un po' di Lolli e farvelo ricordare o scoprire. E' un disco che incanta, intrappola, ma anche voi, credo, avrete assolutamente difficoltà a descriverlo o criticarlo.
Amici, buon ascolto, e riprendete tra le mani il virtuosismo di un poeta maledetto, intimo, triste, ma sincero e vero.
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